Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Oretta Bray
Con questo racconto si è classificato sesta al concorso Parole in Movimento Fonopoli
 
 

L'uomo del lago

 
Di lui conoscevo poche cose. Abitava sull'isolotto galleggiante al centro del lago, era molto ma molto vecchio, costruiva canoe con le canne d'acqua e nessuno sapeva quando e come si fosse stabilito lì. Lo chiamavano "l'uomo del lago" e raccontava bellissime fiabe. Il fatto che vivesse da solo mi attirava moltissimo e quindi decisi, quella mattina, di andare a conoscerlo.
Mi feci accompagnare sull'isola da un uomo del villaggio che parlava male la mia lingua, per lo più sorrideva ogni qualvolta io sorridevo.
Appena arrivati mi indicò il sentiero da prendere per raggiungere la capanno dell'uomo del lago. C'era un cartello che mi diceva: «Non distruggere ciò che non hai costruito tu!». Mentre percorrevo il sentiero ascoltavo i vari suoni della natura: non ne avevo mai sentiti di simili.
Continuavo a camminare accarezzando le piante e toccando tutto quello che si poteva toccare, per sentire sulla pelle quella natura meravigliosa e per lasciare una mia impronta, anche se invisibile.
A pochi metri da me vidi la capanna. Mi arrestai un attimo e la mia mente, come una scimmia, si mise a saltellare tra un pensiero e un altro, tra una domanda e un'altra senza che io potessi fermarla. Ci riuscì, invece, l'immagine dell'uomo del lago, disteso davanti al suo rifugio con le braccia aperte, quasi ad abbracciare il cielo.
«E adesso? &endash; pensai, &endash; Cosa dico? Buon giorno… salve o che?».
«Sei qui per una fiaba?» furono le prime parole che uscirono dalla sua bocca.
Mi avvicinai un po' timidamente per poterlo vedere in faccia. Aveva il volto bruciato dal sole e tappezzato di rughe profonde. I capelli grigi gli arrivavano alle spalle e la barba lunga e folta copriva per metà il suo viso. Indossava un vestito di cotone bianco simile ad un saio. I bordi di questo erano ricamati con colori accesissimi dalle tonalità del blu, del rosso, del verde e del giallo, a creare disegni geometrici. Era scalzo ed i suoi piedi avevano ormai una specie di suola naturale, abituati così tanto a camminare su qualsiasi cosa. Solo l'idea di togliermi le mie adorate scarpe da ginnastica e già mi sentivo male, con il caldo che faceva i miei piedi di certo si sarebbero ustionati immediatamente!
Si tirò su per sedersi ed i suoi occhi incontrarono i miei; nella mia vita pochi incontri d'occhi erano stati così magici, così intensi, come se, per una frazione di secondo, ti sentissi "nudo" e vedessi "nuda" la persona che hai di fronte. Non sai nulla di lei, ma senti, senti così intensamente tutto quello che passa sul ponte che si è creato tra le vostre anime.
«Per la fiaba? &endash; dissi, &endash; No, beh, io sono grande ormai per le fiabe…».
«E allora perché sei qui?».
Bella domanda! Non avevo ancora dato una risposta a me stessa, anzi, da quand'ero arrivata non volevo chiedermelo.
«Diciamo… per curiosità? Volevo soltanto vedere come vive una persona come lei, ecco…».
«È molto semplice. Io vivo di fiabe &endash; mi disse, &endash; e le fiabe portano la vita nel cuore di chi le ascolta».
«Ma non si può vivere di sole fiabe così come non si può vivere di solo amore» replicai sorridendo dal profondo della mia occidentalità.
«Chi lo dice? Bisogna saper scegliere…».
Decisi di sorprenderlo con una domanda: «E se fossi io a raccontare una fiaba a lei?» chiesi sorridendo.
«Va bene, &endash; rispose abbracciando il mio sguardo &endash; ma prima decidiamo chi dei due ha più bisogno di ascoltare».
«E come si fa a determinare questo?».
«Semplice: con un gioco. Chiudiamo gli occhi e chi li riaprirà per primo è colui che cerca qualcosa fuori da se stesso ed ha più urgenza e bisogno di… ascoltare per… trovare».
Sì, giochiamo… pensai… questo era un gioco da grandi e per me, già lo intuivo, difficile, ma accettai.
«Allora ok, giochiamo».
Mi distesi accanto a lui e chiusi gli occhi. Era il momento peggiore della giornata, per via del caldo. Il sole batteva sulle mie tempie, la testa mi faceva male e questo mi distraeva… ma… da cosa? In fondo dovevo solo aspettare. Sulle prime pensai: «È assurdo, dai, cosa ci faccio qua distesa?». All'improvviso la mia mente afferrò un ricordo.
Da piccola nessuno mai mi aveva raccontato una fiaba. Iniziai a leggere presto, trovai a casa un libro dov'erano narrate le storie di Pinocchio, il Gatto con gli Stivali, Cappuccetto Rosso e Cenerentola e lo lessi così tante volte da consumarlo. Qualcuno poi mi fece presto capire che sembrava essere "perdere tempo" il fatto di "sognare ad occhi aperti" o fantasticare ripensando alle fiabe. Non c'era più tempo… già allora… non c'era tempo per le fiabe.
Ed ora che sono grande a che mi sarebbe servita una fiaba? A che mi sarebbe servito sognare?
Ad un tratto per poco non aprii gli occhi: sentii un batter d'ali proprio sopra la mia testa. «Sarà un gabbiano» mi dissi, anche se non ne avevo visti da quelle parti.
Mi ricordai allora di alcuni coraggiosi gabbiani osservati a lungo anni prima mentre davano delle dimostrazioni di volo davvero fantastiche. Il mare era in tempesta e le onde sbattevano impetuose. Dall'alto della scogliera chiudevano le ali e tu li vedevi precipitare così velocemente che già pensavi alla loro tragica fine. All'ultimo momento, invece, le riaprivano per riconquistare l'altezza e così via, in un saliscendi a caccia di cibo. Essere gabbiani, anche solo per qualche minuto, è il sogno di molti. Ripensandoci, mi ritrovo di più negli albatros, che a causa delle loro ali così grandi faticano tantissimo a decollare e corrono, corrono tanto per potercela fare, sperando di non trovare nessun ostacolo che possa interrompere la corsa. Poi, dopo il volo, di solito atterrano così veloci e impreparati che spesso cadono al suolo facendosi davvero male! Com'è che la natura li ha fatti così? Nati per essere liberi eppure… ma dov'ero finita con i miei pensieri?
Beh, in fondo a qualcosa dovevo pur pensare per far passare il tempo…
Sbagliato, sbagliato, questa non era una gara a chi arriva primo. Intuivo che non si trattava di "aspettare" che l'altro aprisse gli occhi. Dovevo fare qualcosa, impiegare bene quel tempo.
«Rifletti &endash; mi dissi, &endash; quand'è che ti dai la possibilità di startene distesa ad ascoltare il tuo silenzio? Quando?».
Mai, proprio mai, la mia vita è sempre stata una corsa, finita una battaglia subito a cercare altre armi, migliori e più efficaci per affrontarne un'altra. Avevo davvero paura. Non ero mai stata capace di entrare in me stessa, chissà quali orribili mostri avrei trovato, chissà quante schifezze c'erano… e poi… dopo… mi sarei piaciuta ancora?
Comincia a sentirmi davvero nervosa.
Chi, in quel momento, mi avesse vista da fuori, avrebbe pensato: «Guarda, che bello, si sta riposando, sta assaporando un momento a contatto con la natura».
Sì, figuriamoci, avevo paura, caldo, a momenti una voglia irresistibile di aprire gli occhi ed andarmene, di correre, di muovere gli arti, di gridare…
«Calmati, calmati, possibile che non ti sei mai accorta di essere così tanto stressata?». Però, in tutto questo mi sentivo così presente con me stessa… come se… come se stessi per cominciare a volermi bene…
Sentii un odore di legno bruciato e poi sentii anche il respiro dell'uomo del lago. Calmo… perfetto! Decisi di respirare insieme a lui, seguendo il suo ritmo. Incominciò a girarmi la testa perché i suoi respiri, al contrario dei miei, erano molto profondi. Poco dopo non sapevo neanche se mi trovavo a testa in giù o su, o che altro…
Lentamente, lentamente, non avevo più consapevolezza del mio corpo, pensavo alla parola "mano", ma non avvertivo la sua posizione. Non sentivo più il caldo, non sentivo più niente tranne che il suono del suo respiro e una strana e per me inspiegabile leggerezza.
Ad un tratto la mente mi proiettò l'immagine di una spirale luminosissima. Più guardavo i suoi colori più mi sentivo risucchiare nel suo vortice. Mi abbandonai ad essa ed al mio silenzio per ritrovarmi seduta, al centro di un campo, nella foresta.
Ebbi paura quando mi accorsi di essere in realtà piccola piccola, forse tre o quattro anni, non di più. Ma nello stesso tempo mi sentivo a mio agio, ben accolta da quella terra che continuavo a toccare.
«Bambina, sei nel Mondo delle Fiabe!» disse una voce… ma chi era? Era il vento che mi parlava? Invano cercai intorno una figura rassicurante; non c'era proprio nessuno.
«Sono qua, guardami!» esclamò.
Guardai in alto e vidi una grande nuvola che mi soffiava sui capelli. Mi misi a ridere, divertita, sembrava fatta di panna, aveva la faccia simpatica così com'era, con gli occhi tondi e le gote gonfie.
«Sì, sono proprio una nuvola e voglio raccontarti una fiaba, ascoltami».
E cominciò il suo racconto.
«C'era una volta, quando il tempo trascorreva tra alba e tramonto e tutto sapeva di buono, un bambino chiamato "Il Bambino". Ogni giorno si lasciava accarezzare dal Vento e scaldare dal Sole, era il migliore amico degli animali, dell'erba e dei fiori. Tutta la Foresta lo ascoltava in silenzio quando cantava la gioia che aveva nel cuore. Alla sera si lavava in una pozza d'acqua piovana, per prepararsi al sonno e per togliersi i piccoli pensieri e prima di addormentarsi ascoltava le fiabe raccontate dalle lucciole.
Era diventato grande quando, un giorno, nessuno seppe mai come, scoprì una strada diversa e camminò, camminò così tanto finché uscì dalla Foresta. Qui incontrò un Uomo, con mani, braccia e piedi uguali ai suoi, eppure diverso. Rimase affascinato da quell'incontro tanto da dimenticarsi chi era e da dove veniva. Si abituò al Nuovo Mondo dell'Uomo e pian piano diventò normale non nutrirsi più del nettare della sua Foresta, non cantare per la gioia, non ascoltare il suo cuore. Ben presto riuscì ad addormentarsi anche senza le fiabe delle lucciole e di rado sognava. Invano la Grande Aquila lo cercò per riportarlo a casa, ma quando si incontrarono non parlavano più la stessa lingua. La Foresta pianse così tanto per la sua inspiegabile partenza che le radici degli alberi cominciarono a marcire.
Alla sera non si lavava più per prepararsi al sonno e per togliere i piccoli pensieri, ma solo perché il suo corpo era sporco. E intanto la Foresta continuava a piangere.
Si dimenticò anche come usare il calore del Sole per scaldarsi perché nel Nuovo Mondo gli aveva insegnato che quei raggi luminosi facevano male. Così pure si dimenticò del vento che da sempre gli aveva accarezzato i capelli.
E intanto la Foresta continuava a piangere, i piccoli fiori erano tutti morti e i grandi animali tentavano di sopravvivere alle lacrime nuotando e nuotando…
Finché un giorno, nessuno seppe mai come, il Bambino si ammalò a causa delle malattie del Nuovo Mondo.
Il suo corpo gli stava mandando dei segnali molto forti che però lui ancora non capiva perché da tanto tempo non lo ascoltava più. Allora, come aiuto, arrivò l'ultimo segnale: una febbre altissima.
Così, il nostro grande Bambino si ricordò di tutto, anche del ritmo e del respiro della Foresta.
Si tolse tutti i vestiti del Nuovo Mondo e partì nudo per ritornare nella Foresta. Camminò, camminò tanto lungo quella strada percorsa tempo prima mentre ogni filo d'erba che incontrava si allontanava dal suo odore, ormai diverso. Rimase quasi soffocato da questo rifiuto tanto che cominciò a correre e correre per ritrovare la sua terra, ma ormai la Foresta non c'era più. Al suo posto un enorme lago, i suoi amici animali si erano trasformati in pesci; dell'erba e dei fiori nessuna traccia. Qualche albero disteso ai lati del lago aspettava che l'acqua lo portasse via con sé.
Impaurito iniziò ad aprire il cuore ed a cantarne la vita, ma la gioia di una volta non c'era più e quello che ne usciva era solo un canto di disperazione che niente poteva ormai dare alla sua Foresta. Supplicò invano il Sole affinché scaldasse il lago e asciugasse l'acqua, ma il Vento soffiava ormai così forte che le sue grida non lo raggiunsero mai. Solo ora sapeva quanto equilibrio "C'era una Volta" nella Foresta e perché era riuscito a parlare con gli alberi, essere amico degli animali e quanto, davvero quanto, ci fosse bisogno di lui. E di quanto, ma davvero di quanto, adesso lui avesse bisogno della Foresta.
Iniziò a piangere e le sue lacrime non erano mai state così salate. Si appoggiò ad un tronco e l'acqua lo portò al centro del lago come se volesse riportarlo al centro di tutto.
Chiese perdono al cielo che gli aveva dato la vita.
"Prima di ottenere il mio perdono dovrai perdonare te stesso" rispose il cielo.
Il nostro grande Bambino non ci mise molto a capire che era più facile perdonare gli altri che se stessi. Provò in tanti modi, finché dovette farsi piccolo piccolo e come per magia, il ricordo della gioia fece in modo che il suo cuore si riaprisse. Cominciò a cantare ed a raccontare fiabe ai pesci ed ai tronchi galleggianti ed ogni canto ed ogni fiaba riportò alla vita un pezzo della sua amata foresta.
Tale era la sua felicità ed il suo stupore nei confronti del potere di creare delle fiabe che si ripromise di raccontarle per sempre ed a chiunque avesse incontrato.
E negli anni, là dove si era seduto, si formò un isolotto e qualcuno dice, ancora oggi, di aver visto lo spirito dell'Uomo del Lago».
Mi svegliai di colpo, era stato un sogno, ero davvero entrata nel mondo delle fiabe? Com'ero finita dentro alla capanna e come mai fuori faceva già buio?
Guardai intorno e vidi l'uomo del lago, seduto per terra ad occhi chiusi. Il mio cuore cominciò a battere così forte che sembrava esplodere da un momento all'altro e forse… si stava aprendo… L'atmosfera era strana, non capivo se ero uscita da un sogno per entrare in un altro. Da che parte stava la mia realtà adesso?
«Svegliati, svegliati» gli dissi.
Mi prese subito le mani, erano caldissime: «Hai visto quant'è stato semplice? Dimmi, come ti senti?».
«Come se mi fossi liberata di un peso, un grande peso che mi stava schiacciando. Mi sento… senza catene».
«C'è ancora qualcosa che posso fare per te?».
«Sì… per favore… mi racconteresti una delle tue fiabe?».
«Certo, io vivo di fiabe. Adesso apri il cuore, fatti piccola piccola e ascolta…».
Il sole ritornò alto nel cielo mentre lasciavo la capanna per riprendere il sentiero. L'Uomo del Lago era scomparso subito dopo avermi raccontato la fiaba.
Camminando mi sentivo in completa armonia con tutto quello che mi stava intorno, come fossi un albero, tra terra e cielo. Guardai in alto, ancora non capivo da che parte stava la realtà, ma all'improvviso vidi una grande aquila che mi seguiva… era il segno che volevo.
Sul lato opposto del cartello che avevo visto all'andata ora c'era scritto: «Non dimenticarti mai di ciò che ti appartiene!».
È vero che non è mai troppo tardi per mettere ordine, sentirsi liberi volando con le ali giuste, ritrovarsi e ritrovare quell'immensa gratitudine per ciò che esiste.
Per esistere.
Percepire la vita e le cose che davvero desideri ne facciano parte.
E nella mia vita adesso voglio anche quella fiaba, l'ultima raccontatami dall'Uomo del Lago.
Perché?
Perché è la mia fiaba.
Per leggere l'opera 9 classificata al concorso Marguerite Yourcenar 1999  

Classifica Concorso Parole in Movimento Fonopoli 1998 sezione narrativa

Torna alla Home

 
PER COMUNICARE CON L'AUTORE speditegli una lettera presso «Il Club degli autori, cas.post. 68, 20077 MELEGNANO (Mi)». Allegate Lit. 3.000 in francobolli per contributo spese postali e di segreteria provvederemo a inoltrargliela.
Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©1996 Il club degli autori
Per comunicare con il Club degli autori: info<clubaut@club.it>
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit

Rivista Il Club degli autori

Home page Club dei poeti
|Antologia dei Poeti
Concorsi letterari
Arts club (Pittori)
TUTTI I SITI CLUB
Consigli editoriali per chi vuole pubblicare un libro
Se ti iscrivi al Club avrai un sito tutto tuo!

inserito il 27 ottobre 1998