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Maria Teresa Berti

 

5° classificata alla sezione narrativa del concorso Marguerite Yourcenar 1996 col seguente racconto:

 

La rosa e l'ombrello

 

C'era una volta una rosa, nata in mezzo a un filare di altre rose, diverse da lei, piccole, profumatissime e col fiore a pom&endash;pom.

Era sbocciata in una notte di luna piena. Vicino ad essa, seminascosto tra il fogliame, stava appoggiato a un muro sbrecciato, un ombrello verde.

«Che cosa fai lì?» gli chiese la rosa appena lo vide e si accorse che l'ombrello non era il ramo di un albero.

L'ombrello si emozionò tanto quando la rosa gli parlò che riuscì appena a balbettare: «Mi hanno dimenticato» e la voce gli si strozzò in gola.

Da cinque giorni l'ombrello seguiva con ammirazione l'evoluzione della rosa. Il bocciolo si era prima gonfiato, poi i petali si erano separati, poi era spuntato un po' di rosso e infine era apparso il fiore vero.

«Non perdono un gran che» commentò la rosa leggermente, pensando ai proprietari dell'ombrello &endash; il quale inghiottì l'offesa con una smorfia ma, cinque minuti dopo, ammise di essere effettivamente brutto, sgangherato, stinto e fatto di tela grossolana.

«Perché sei verde?» continuò petulante la rosa: l'ombrello si sentì onorato che parlasse proprio a lui e volle mettere insieme una bella frase, di quelle complicate, che si leggono nei libri, ma riuscì solo a dire: «Sono verde, così come tu sei rossa. Sono nato verde, cioè mi hanno tinto in verde».

Allora la rosa fu punta sul vivo, protestò, dicendo che non era la stessa cosa, che essa non era affatto tinta, e mentre parlava le tremavano sui petali le gocce di rugiada. Poco mancò che l'ombrello non diventasse rosso come lei dalla vergogna, anche perché la rosa non finiva più di lagnarsi e si rivolgeva a un terzo personaggio che non c'era, tanto per sfogarsi. Finalmente, grazie a Dio, la rosa si quietò e dichiarò solennemente che gli ombrelli sono ignoranti perché vedono poco, chiusi come sono sempre, a meno che non piova.

Intanto il sole si era alzato in cielo e mandava sulla terra raggi obliqui e una gran voglia di far niente. Le vespe ronzavano fastidiose e le coccinelle passeggiavano lente sulle foglie. Le formiche e i vermi si muovevano indifferenti al caldo e al profumo intenso che impregnava l'aria.

Sembrava che tutti pensassero ai fatti loro.

«Raccontami qualcosa» disse la rosa all'improvviso, in tono di comando, neanche l'ombrello fosse stato il suo valletto «altrimenti qui si muore di noia».

L'ombrello la guardò a lungo: essa era così bella, si ergeva alta sullo stelo, con i petali vellutati, ancora compatti. Effettivamente non poteva serbarle rancore. L'ombrello avrebbe addirittura voluto andarle vicino e respirarne la tenue fragranza, ma si guardò bene dal dirlo. Sapeva che la rosa non sopportava di sentirsi avvicinare e si difendeva con le spine dello stelo e con le punte delle foglie segmentate. Poco prima l'aveva vista scacciare in malo modo un'ape che aveva osato avvicinarsi.

«Ti racconterò la mia vita» disse l'ombrello, a corto di idee, non sapendo quale altro argomento trovare.

«I fatti divertenti» precisò la rosa e l'ombrello avrebbe voluto ribattere che la sua vita era stata quella che era stata, ma lasciò perdere.

«NacquiŠ non so dove».

«Cominciamo bene!» commentò la rosa. L'ombrello le chiese se per caso essa conoscesse qualcuno che si ricordasse dov'era nato.

«Io» disse la rosa, con la massima disinvoltura e l'ombrello pensò che fosse veramente una rosa straordinaria.

Le credette, non fece commenti e tirò dritto col suo racconto. Disse che, andando più lontano che poteva negli anni con la memoria, ricordava di essere stato esposto nella vetrina di un negozio modesto che dava su una strada stretta, dove il sole batteva raramente, ma dove, in compenso, giocavano nugoli di bambini, vestiti in qualche modo e dove passavano poche macchine. Quando pioveva l'acqua formava un lungo rigagnolo nel mezzo, perché i lati della strada, che non aveva marciapiedi, erano inclinati, apposta per lasciarla scorrere.

«Il negozio aveva odor di muffa» disse l'ombrello «e fui ben contento quando mi portarono via di là».

«Lo credo» commentò subito la rosa «non si può vivere in uno spazio stretto, per di più se puzza di muffa».

L'ombrello timidamente le fece osservare che qualche volta non si ha altra scelta, ma la rosa enumerò i vantaggi dei grandi spazi e diede l'impressione di parlare per se stessa e di rievocare una località che le era stata familiare.

«Finii in un circo» tagliò corto l'ombrello, sparando la frase con la stessa decisione di uno che si butta nell'acqua fredda, ma in realtà era impacciatissimo e aspettava trepidante la reazione della rosa, che fu brevissima.

«Anche il circo puzza, perché ci sono gli animali» commentò e i petali esterni si arrotolarono come per ritrarsi dall'immagine di quel luogo.

«Al circo ci si diverte» replicò l'ombrello con gagliardia insolita, ormai eccitato dal caldo e dai ricordi.

Disse che aveva fatto l'attore e che gli spettatori restavano col fiato sospeso tutte le volte che si bilanciava sul naso del buffone e costui camminava come se fosse ubriaco.

«Perché, c'era il trucco?» interruppe la rosa che non poteva credere che sul manico dell'ombrello non avessero spalmato almeno un po' di colla.

«Ti pare che sia un tipo da trucco?» si scandalizzò l'ombrello che effettivamente era stato sempre un semplicione e che non avrebbe mai immaginato di poter inventare trucchi per far ridere la gente. Era così ingenuo che quando viveva nel circo si era sempre ostinato a credere che l'illusionista, a un certo momento, tagliasse effettivamente la testa di una donna sulla scena, la chiudesse in una scatola e gliela riattaccasse poi alla fine del gioco, come se niente fosse.

Raccontò la storia dell'illusionista alla rosa, per divertirla, ma essa gli disse semplicemente che il trucco c'era e passò a domandargli quale altra attività egli avesse esplicato al circo, in effetti più per il gusto di sentir parlare l'ombrello che perché fosse realmente interessata a quello che diceva.

«Giravo come una trottola intorno al mio manico, manovrato da un equilibrista che cavalcava un cavallo addomesticato».

L'ombrello ruppe il silenzio imbarazzante che si era creato, spiegando subito «la gente si divertivaŠ» Ma siccome la rosa disse: «Sarà» in una certa maniera sibillina, a lui dispiacque perché si rese conto che la rosa non condivideva né i suoi entusiasmi né i suoi gusti.

Il sole intanto aveva fatto mezzo giro in cielo e si trovava esattamente sopra la rosa e l'ombrello. Filtrava tra le foglie del muro come una pioggia calda di raggi perpendicolari che toglievano le forze, soprattutto all'ombrello che non ci era abituato. Forse, proprio per quel caldo, gli venne in mente, improvvisamente, un fatto del passato che aveva quasi dimenticato. Rivide la scena, come se fosse avvenuta in quel momento preciso, la scena del suo primo, pazzo incontro con la primavera.

Era il mese di aprile e l'ombrello si era trovato aperto su un poggio fiorito, dovendo riparare qualcuno dal sole, che egli conosceva appena, anziché dalla pioggia, con cui invece aveva dimestichezza. E il sole gli giocò un tiro mancino, approfittando del fatto che egli era rimasto inebetito ad ammirare per la prima volta le gemme sui cespugli, le nuvole in cielo e le pervinche sui prati. Tutt'intorno si respirava odore di campagna e le foglie sugli alberi cominciavano a scartocciarsi.

Quel giorno l'ombrello si lasciò ubriacare di sole, si scottò per il piacere, si comportò come un ubriaco.

Quando una farfalla graziosa, leggera, venne a posarsi su di lui e spalancò le ali, gli venne una voglia matta di acchiapparla e perse la testa, si capovolse, finì per essere spinto da una folata di vento lungo il pendio e procedette a balzelloni, un po' goffo e un po' felice. La gente rideva a crepapelle e lui non se ne accorgeva nemmeno.

Naturalmente non raccontò quella storia alla rosa, per timore che anch'essa ne ridesse.

«A che cosa pensi?» gli chiese la rosa, che voleva farlo parlare soprattutto per non sentirsi sola.

«A niente» negò l'ombrello, ma fu convinto di aver detto la verità perché il ricordo, essendo impalpabile, è fatto di niente.

«Fa caldo» mormorò l'ombrello, per dare l'impressione di occuparsi di qualcosa di concreto e sospirò infastidito: «Tutto questo sole!Š»

La rosa credette effettivamente che il sole lo disturbasse e siccome voleva che l'ombrello badasse prima di tutto a lei, imbastì un lungo ragionamento sul sole e sulla sua utilità e gli spiegò anche, con quella dolcezza che essa sola sapeva tirar fuori quando voleva ottenere qualcosa, che senza sole le rose non fioriscono e non mandano profumo.

Gli confidò perfino che essa, la rosa rossa, era fatta di sole, al che l'ombrello sobbalzò e temette di aver capito male. La rosa invece lo rassicurò e si divertì a notare lo scompiglio che quella rivelazione aveva gettato nella sua mente.

«Sono fatta di aria e di sole» diceva come un ritornello e l'ombrello dubitò che la rosa fosse piuttosto 'vittima' di un colpo di sole, tanto più che raccontava cose sempre più assurde. Diceva di essere sorta dall'Oceano. Parlava del passato e diceva di essere nata tante volte, sempre di mattina, quando il sole si trovava a 180 gradi sull'orizzonte. Diceva di essere stata prodotta dal riflesso dei raggi del sole negli strati superiori dell'atmosfera e dalla loro dispersione in cielo.

L'ombrello non si raccapezzava più e azzardò una domanda: «Come fai allora a essere un fiore e a essere stata 'la figlia del mattino' come dici tu?»

La rosa non gli rispose direttamente e continuò a tessere ragionamenti aerei per conto suo. Raccontava di essere stata innamorata del figlio del re, che era bello come un dio, ma che, non avendo avuto il dono dell'immortalità, invecchiò e essa lo trasformò in un'assurda cicala. Poi, non reggendo al dolore, si concentrò tutta in una grossa lacrima rossa e cadde dentro un calice di fiore aperto e si trasformò nella rosa che gli stava davanti.

L'ombrello ascoltò a bocca aperta e rimase inebetito a lungo, anche dopo che la rosa ebbe finito di parlare. Tra la terra e il cielo avvenivano scambi che non riusciva a capire. Si avvilì e avrebbe voluto nascondersi tra il fogliame un'altra volta. Non poté però trattenersi dal contemplare la rosa che diventava sempre più bella, a mano a mano che si apriva. Essa eraŠ Cercò di riepilogare: «Il rosso dell'aurora compresso in un calice di fiore». Capì perché avesse nostalgia dei grandi spazi. Capì perché non gli avesse dato retta, ma appena lo raggiunse quel suo profumo tenue, penetrante, capì anche che egli avrebbe fatto qualunque cosa per lei. E non avrebbe saputo spiegare il perché.

Verso sera, arrivò una squadra di agricoltori, armati di cesti e di forbici. Tagliarono tutte le rose, lasciando i filari spogli, come se li avessero rastrellati. Tagliarono anche la rosa rossa e la sua testa cadde nel paniere come tutte le altre.

Qualcuno portò a casa l'ombrello che capitò vicino alla tinozza dove erano raccolti i petali delle rose che dovevano servire per estrarre il profumo. L'ombrello avvertì il pericolo e fu subito preso da una gran voglia di tuffarsi dentro quella straordinaria massa di petali freschi, per portar via almeno quelli della rosa rossa, prima che fosse troppo tardi. Non fece in tempo, ma si immedesimò talmente nella sorte della rosa che per tutta la notte ebbe la sensazione di farsi schiacciare e verso le quattro del mattino si svegliò indolenzito, perché si sentì spingere da un vento impetuoso, proprio come in quel lontano, pazzo giorno di primavera. L'aria era mista a un profumo intenso, così intenso che a un certo momento l'ombrello ebbe l'impressione di perdere i sensi e di non controllarsi più. Senza volerlo, piegò le stecche nel senso inverso e cominciò a muoversi in tutte le direzioni. Poi si staccò da terra e si sforzò di raccogliere tutto il profumo delle rose dei campi che poteva, compreso quello della rosa rossaŠ

Volò nello spazio e, a mano a mano che si allontanava, andava sempre più assomigliando a un calice verde che saliva in cielo.

Si portò molto in alto, poi raddrizzò le stecche e riprese la forma normale dell'ombrello, lasciando evaporare tutto il profumo che teneva racchiuso.

In quel momento il cielo si aprì e si tinse di rosa, con tante sfumature, più chiare e più scure, e una era addirittura rossa.

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