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Lilla Misiano Sturniolo

5° classificata nella sezione narrativa del concorso Il club dei poeti 12997 con questo racconto

 

Versi in fuga

 

Il giovane Pareto si avviava lentamente a capo chino verso la casa del maestro. La sera a Firenze cominciava a scendere attraverso le nubi che, nel pomeriggio, avevano ricoperto il cielo mentre una dolce venatura di colore viola solcava appena l'orizzonte lontano. Il giovane ricordò che il maestro lo stava aspettando e affrettò il passo; sentiva prepotente dentro di sé l'ansia di correre da quell'uomo che, per più aspetti, considerava grande. Tra poco, egli lo avrebbe accolto con quel suo modo burbero e quella rapida, ma profondissima occhiata che ogni volta invariabilmente sembrava sondarlo fin nelle pieghe più riposte del suo essere. Mezza Europa si contendeva i favori di quel rigidissimo uomo, ma lui, il grande Galilei, sembrava concedersi a fatica. Pareto capiva perfettamente come le corti non facessero per il maestro. I suoi modi bruschi, solo appena temperati dall'indole bonaria comune a tutti i toscani, erano fuori posto negli ambienti cortigiani. Aveva detto che lo avrebbe aspettato e Pareto, ripensando alle parole di lui, scivolò svelto in un vicolo che lo portò subito dinanzi alla casa di Galileo. Salì lungo le scale male illuminate e giunse finalmente davanti al vecchio cancellaccio ormai familiare. Inghiottì e, fattosi forza, scosse più che poté l'enorme battente. «Entrate, entrate!». Ecco la sua voce imperiosa, il capo assorto nelle nuove mappe celesti. Due candelabri illuminavano il tavolo dov'era seduto e Pareto, non osando fare un solo passo avanti, si era fermato nella penombra della stanza. Di fronte al silenzio dell'altro, Galileo alzò la testa e lo guardò nel solito modo. Pareto si sentì rimescolare tutto, ma trovò il coraggio di dire:«Mi avevate detto di venire qui da voi quest'oggi, per quella vostra nuova teoria sulle altezze sublunari…». Il vecchio sorrise tra sé senza darlo a vedere a quello studente tanto attento. Lo aveva subito notato tra gli altri giovani che seguivano le sue affollatissime lezioni: ne aveva apprezzato la brillantezza dell'ingegno nonostante l'età ancora immatura, il modo serio ed intento con cui lo ascolta durante ogni argomentazione. Gli ricordava un altro giovane, inesperto e assetato di sapere quello che ora era proprio lì davanti a lui; entrambi avevano in comune la stessa voglia sconfinata di trovare le risposte di un universo infinito su di loro e per quelle verità, anche piccole, avrebbero speso tutta una vita. «Sedete, mio giovane amico. Qui, venite alla luce». Fece il vecchio, spostando un cumulo di enormi foglie pieni di tracciati sulle comete. «Vi dissi di venire poiché sapevo che quella teoria vi aveva, per così dire, impressionato». E qui il vecchio a stento contenne un sorriso sornione: si era accorto che il giovane, al momento dell'enunciato, era rimasto sbalordito da quanto veniva ascoltando da lui. Pareto, nonostante avesse colto l'ironia della frase, non poté che ammettere il proprio stupore, arrossendo un poco della sua scarsa accortezza. Galileo, che lo osservava apparentemente distratto, lo volle risollevare:«Ma che saremmo noi, amico, senza lo stupore? Permettiamo pure a passioni molto meno nobili di crivellarci senza giungere ad alcunché di buono… Lo stupore precede la domanda che già vuol cogliere una risposta. Guardate il cielo: dite se vi è altro sentimento che non sia quello d'una rarefatta meraviglia quello che suscita la sua contemplazione. E tutti sentono questo, tutti. Ma a noi si concede l'opportunità nuova». «Che cosa intendete, con questo? O forse siamo diversi da ogni uomo, noi che si vive con lo sguardo rivolto al cielo?» chiese Pareto. Galileo scosse il capo:«Il cielo è per tutti. Ma a noi dice altro. Sappiamo scorgervi misure e corpi, legami reciproci all'interno di ciascuna parte che lo compone e tra questa e tute le altre, dialoghiamo con una piccolissima sezione dell'universo. Noi solleviamo il nostro sguardo verso ciò che a molti è ignoto. Siamo sorretti dalla fede che non è più quella del semplice credente… La fede in una oscura ragione dentro l'universo di cui veniamo scoprendo solo particelle, pezzi innumerevoli di un infinito regolato da un ordine che ci sfugge. Vedete, i poeti imbrigliano bene le loro smanie nei dettami del metro che posseggono pienamente. Ma noi, possiamo solo cogliere i frammenti del poema, avanzando tra una lacuna e l'altra; e fugge sempre via da noi l'idea che ha dato forma all'opera, che è immensa. Se pure possiamo seguire la fuga dei versi &endash; intendetemi, parlo dell'avvicendamento delle costellazioni &endash; e con fatica la misuriamo, ben altro certo è l'ispirazione da cui procede tutto e che ha dettato tutto con tale maestria. Ma, una volta per sempre, con quale ordine?». «Forse questo non è da indagarsi &endash; rispose Pareto &endash; non credete? Forse ci è nascosto, quest'ordine mirabile, dalla molteplicità degli esseri e degli stati in cui ha voluto rendersi noto a noi, al nostro intelletto». Galileo guardò il giovane con gli occhi velati da un'antica tristezza:«No, non discutiamo della natura di Dio, ma della natura creata da Dio. Venite.» Lo scienziato prese il giovane dal gomito e lo condusse davanti alla grande finestra aperta:«Guardate, anzi, ascoltate». Il giovane non capiva: di fronte a loro due c'era solo il buio tempestoso della notte ormai prossima e qualche lume fioco, silenzioso, delle case lì intorno. Galileo si accorse dello sbigottimento del giovane, ma ugualmente volle aprirgli il cuore; era giovane, avrebbe capito un giorno e avrebbe continuato con determinazione le ricerche di quel vecchio che ora gli appariva tanto singolare. «Ascoltate, Pareto, l'altezza del silenzio e degli echi di questa notte. Ho ascoltato per lunghi anni queste voci rincorrersi nel buio. Udivo come adesso i loro richiami di vita intrecciarsi dinanzi ai miei occhi di cieco… Sono come versi del poema in fuga, vicini a noi, a noi occulti dal mistero della vita. Forme ed esseri nuovi nascono accanto a quelli già scomparsi. Sono tutti obbedienti alla legge implacabile, mio giovane amico. Pur osservandone la misura, non penetro mai il loro mistero, il fondamento terribile di quella legge e di quell'ordine che li pone in modo così elementare e così inesplicabile ed io, voi, ci siamo dentro. Pareto ciò che noi conosciamo è mistero; e finché il mistero tacerà a noi le sue vie segrete, continueremo ad accumulare errori immani prima di giungere ad una piccola verità su ciò che accade. Rientriamo, adesso, e prendete con voi una candela, amico mio: la notte è ancora molto, molto alta». Pareto lo seguì in silenzio, con l'animo greve di pensieri. L'improvvisa stranezza del vecchio lo aveva colpito e tuttavia a se stesso non poteva tacere la voce insistente, continua del dubbio che vi fosse qualcosa di reale e d'autentico in quello sfogo. «Forse la vera misura è che non v'è misura alcuna». Azzardò, con la voce falsa di chi, già in sé, è poco convinto di ciò che sta asserendo. Il vecchio lo fulminò, bonario e terribile:«Il caso, dite? Già, il caso… Un comodo angolo in cui l'umanità ripone, vinta, tutte le battaglie che paventa, quelle contro le quali è sempre pericoloso armarsi. Forse davvero, invincibili». E nel tono di quest'ultima frase Pareto avvertì, per un attimo brevissimo, la traccia segreta di uno smarrimento profondo, simile a quello di poco prima, quando erano entrambi alla finestra. Il giovane volle spiegare:«Non intendevo parlare del caso. Volevo indicare, quando ho parlato della mancanza di una misura, che forse non un misurare umano è applicabile al mondo». Gli occhi del vecchio vagarono inquieti intorno alla stanza e, all'udire le parole di Pareto, sentì irrigidirglisi tutti i muscoli del viso, divenuto quasi di pietra: ostacoli, ancora ostacoli si ponevano al cammino della verità, e chi li poneva, ora, era quel ragazzo, il futuro… Fu il vecchio a parlare:«Ogni piccola cifra è un piccolo universo di piccole verità, dentro ciò che voi dite fuori dall'umano e tacciate d'incommensurabilità. A che pro dunque la scienza? Deve dirsi certo migliore la vita cieca dell'insetto e del minerale a paragone di quella di un infelice che ricerca e che pone ogni suo amore a scoprire un brandello, seppure minimo, di vero; a che la vita? Perché disperdersi in mille osservazioni per capire quando bisognerebbe solo vivere, e basta? È così, è così, Pareto?». «Chi può rispondere? &endash; ribatté pronto il giovane &endash; Forse può dire tutto su tutto, la nostra scienza? Ad ogni risposta, seguono centinaia di zone nuove, domande infinite su quello che è in noi, su quanto ci sovrasta, o vive intorno a noi». «Non è altro che ciò che tutti chiamano la vita &endash; gli disse Galileo &endash; e la scienza ne è il sale amaro, è fatica. Né ci può essere dolcezza, Pareto, a vivere sempre senza scopo: vita buona per qualche bruto e per gli insolenti, che poi sono la stessa cosa. Ma noi, purtroppo, sappiamo ormai di non poter più fare ingresso in una di queste due scelte e delicatissime categorie di esseri umani. O dovrò ricredermi anche di questo?». Pareto sorrise ma rimaneva, in fondo alla sua anima, una folla di pensieri non chiariti che si accavallavano, stancandolo. La scienza: umana, sì; finita, sì. Eppure frammento vero dell'eterno l'aveva detta Galileo. Il vecchio scienziato osservava Pareto in silenzio, avvertiva che quanto era stato detto non sarebbe stato invano e che nell'animo vigile del giovane si agitava uno spirito forte di amore per il vero. Ne era certo, il vecchio: assieme all'infinito sarebbe continuato, anche dopo di loro, l'incessante affanno alla ricerca. Vi sarebbero state in ogni secolo coscienze attente, non attanagliate dall'immensità di una notte sempre più oscura, a mano a mano che si sarebbe proceduto. Pareto all'improvviso parve diventare impaziente e fece per alzarsi ed andarsene. Galileo lo seguì in ogni movimento, con uno sguardo apparentemente lontano; poi gli disse:«Pareto, non scordate la vostra candela, nell'uscire. È di gran conforto avere una piccola luce, anche se la notte è immensa e nera come questa, in cui si vive». Pareto si girò, alla frase, e i loro occhi si incontrarono: vi fu un muto accettare e un'intendersi dolente da parte di entrambi, ma nessuno dei due riuscì a dire più nulla.


©1996 Il club degli autori, Lilla Misano Sturniolo
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