SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
Iolanda Serra

Opera 1° classificata al concorso Angela Starace 2001 sez. narrativa

Il re che non sapeva di essere un re
 
C'era una volta... un castello incantato, con tanto di torri e torrioni, scale di marmo e stanze a non finire.
Ma chi ci abitava, qualcuno dirà?
Ebbene, non ci abitava nessuno: era il più bel castello incantato disabitato.
Non che non avesse un "Padrone", soltanto che il padrone, ovvero il re, viveva da un'altra parte: non certo in una reggia né in un castello, ma in mezzo ai boschi ad attendere chissà... qualcosa, forse qualcuno, forse un segnale, una voce, un segno.
Era un tipo davvero particolare: amava la libertà del vento, l'indipendenza degli uccelli, la frenesia delle formiche, il coraggio del lupo, la bellezza e la leggerezza delle farfalle, lo splendore del sole, il pallore notturno della luna, lo stupore dell'alba mattutina, la luce del mezzogiorno estivo e di tutto ciò che la natura offre nella sua meravigliosa essenza e coesistenza di Vita.
Egli amava tutto questo ed ancor di più.
Gli era stata data in eredità una reggia, una di quelle forti e sicure, solide, li da resistere in eterno; ma per volere dell'imperatore suo padre gli fu taciuta quest'eredità.
Aveva pochi anni, quando, su ordine del padre, fu portato nel bosco più fitto e lasciato da solo con la sua fragile innocenza e la sua tenera pelle di fanciullo, con tra le mani unica eredità tangibile, un tozzo di pane.
Ma questo era solo ciò che gli si voleva far credere, in realtà aveva molto di più; intanto non fu mai realmente solo: c'era chi da lontano lo seguiva e lo guidava parlandogli nella notte; c'era chi lo amava pur senza averglielo mai detto; c'era un castello che aspettava di essere abitato ed un cavallo bianco in cerca di un padrone; c'erano dei paggi in attesa d'esempi da seguire e c'era una dama che aspettava il ritorno del suo principe azzurro.
Tutte queste cose erano già con lui e dentro di lui, ma lui non lo sapeva.
Quando fu solo nel buio del bosco cercò un riparo sicuro dove trascorrere la lunga notte.
C'era lì ogni tipo d'albero e d'arbusto: alto, basso, grosso, diritto, nodoso, robusto, ma nessuno di quelli faceva al caso suo, cercava qualcosa che soddisfacesse una certa ansia di... sicurezza, di forza, di potenza, di fragranza notturna, che gli desse quel senso tutto umano di... protezione e voglia di vivere, di coraggio e decisione, che non crescesse solo per sé e che desse cibo, ombra e ristoro contemporaneamente, che desse quella sensazione di sentirsi "a casa propria".
Chissà se avrebbe mai trovato un albero così!
Certo non aveva nessun'intenzione di arrendersi o di mettersi a piangere, non poteva lasciare che tale desiderio vivesse solo nei suoi sogni, così, nonostante la notte, il buio, il freddo, la paura, l'inconsapevolezza del suo desiderio, frugò per tutto il bosco, finché, quasi sul far dell'alba, ecco immenso, possente, colossale, davanti ai suoi occhi stanchi e spaventati, apparve l'albero più bello, meraviglioso, unico, che avesse mai visto, era ancora più enorme di quanto non avesse potuto immaginare nella sua fantasia di bambino.
Al limite della radura, proprio davanti ad alcune gigantesche e nude rocce, stava isolata una poderosa Quercia, alta fin quasi a toccare il cielo, forte più del vento di brughiera, elegante come una poesia di Dante Alighieri, sicura come il sole che sorge al mattino, solida come la terra da cui attingeva energia e vita, immensa come il mondo può apparire agli occhi di un bambino.
Nel buio della notte, appena rischiarato da un lontano sfolgorare del sole e da una luna argentina che ancora dominava il cielo, quell'albero gli sembrò la più bella reggia che avesse mai visto e decise, in quello stesso momento, che quella sarebbe stata la sua casa.
Si accovacciò nell'incavo tra le radici e la parte più inferiore del tronco; sembrava quasi che quel cantuccio non aspettasse altro che di essere riempito con i fragili pensieri di un bambino e quasi come una culla lo accolse dentro di sé.
Rannicchiato e stretto alla terra, tra l'abbraccio delle radici e i rami che dall'alto lo proteggeva, sentì tutta la linfa salire su per il tronco ed invaderlo, quasi ne fosse diventato parte necessaria; sentì tutto il peso del cielo sostenuto dai rami dell'albero; sentì la vita ristorare le sue radici sconosciute e provò un brivido che portò con sé nei giorni a venire.
Le sue narici si riempirono del profumo della terra bagnata dalla rugiada mattutina e le sue mani sentirono il vigore della scorza dura, rugosa, eterna sulla quale le sue dita di tenero germoglio cercavano protezione e sicurezza.
Non esitò a addormentarsi per la stanchezza e per quella strana sensazione di pace che invade allorquando si trova l'oggetto dei propri desideri.
Il risveglio, in pieno mattino, fu una favola.
Egli portava già dentro di sé la tenerezza del mattino, la freschezza della brina, il cinguettare degli uccelli, il fruscio del ruscello, il ronzare degli insetti da un fiore all'altro fiore, per cui gli bastò un solo istante per capire che quella era CASA sua, quella in fondo, era l'unica vita possibile per lui, perché lui era vita da vivere così.
Tutto il resto del mondo per lui poteva anche non esistere.
Appena le sue gambe si furono riposate abbastanza , saltò su più rapido di un grillo e si mise di fronte alla sua quercia alle cui spalle il sole stava sorgendo.
In piedi in tutta la sua minuscola statura stette lì ad osservare con i suoi lunghi rami ed i suoi numerosi "abitanti" che la rendevano viva nella trasparenza eterea del mattino; gli sembrava così ancora più immensa, più enorme, maestosa, quasi una sfida alla grandezza del cielo, invidiabile nella struttura articolata e proporzionata nella sua enormità.
Si cibò in quel momento dei segreti della Quercia: seduto, adesso, con le gambe incrociate, nel mezzo della sua ombra proiettata sul campo verde la osservava, la guardava, la scrutava a lungo, la prendeva dentro di sé e fu come... dire non è possibile... la sensazione d'essere parte del mondo, d'essere vita nella vita, d'essere figli della terra ed anche radici, corpo, anima che si eleva verso la grandezza del Cosmo che tutto contiene dentro e fuori di sé.
Fissò nei suoi occhi il profilo della sua ombra, ogni movimento, ogni sussulto ed ogni sussurro; s'invaghì della sua forza, s'innamorò della sua autorevole presenza, amò l'idea della sua presenza nel suo ancora sconosciuto destino.
In un impeto d'affetto e di straripante gioia, le chiese di farle da Madre e di darle come cibo il segreto della sua forza e l'essenza del suo essere quercia.
Lei non esitò un istante: ai suoi occhi parve che i rami si abbassassero e l'abbracciassero, stringendolo forte a sé così che il suo cuoricino battesse per due e la sua linfa potesse scorrere dentro le sue esigue vene e segnare la vita che passa ed il segno che lascia così sulla scorza rugosa della Quercia come sul tenero tronco di un glicine in fiore.
Fu una scelta condivisa e l'adozione diede i suoi frutti.
Il piccolo imparò a riconoscere e ad amare tutti gli amici della grande Quercia, dagli uccellini, agli scoiattoli, agli insetti che vi ronzavano intorno, alle formichine che l'attraversano tutta in cerca di un qualcosa che lui non capì mai.
Ma un giorno successe qualcosa che cambiò la vita di entrambi: la Quercia aveva un amico, un amico particolare che sedeva sotto la sua ombra e si riposava sotto il suo enorme tronco poderoso come il suo corpo; un orso che stava assaporando, in quei giorni, le sue ultime ore di sonno invernale.
Un mattino, quando il sole era già alto a riscaldare le poche nuvole primaverili, si udì come un "tuono", un rombare strano che fece sussultare tutti gli abitanti del bosco. Nessuno però scappò via, perché sapevano a chi apparteneva quel verso.
Nicolin, pensò che stesse per arrivare un temporale, per cui si restrinse ancora un altro po' dentro la sua "tana" e si accoccolò come un ghiro che si prepara per il suo sonno invernale; sopra di lui il sole si oscurò e sentì nuovamente quel "tuono"; capì che c'era qualcosa di strano in quel rumore, ma non ebbe il coraggio di aprire gli occhi, così li strinse ancora un altro po' e aspettò che passasse, ma non passò; un terzo e poi un quarto rombare di cielo lo scossero nelle viscere, perché intanto si era fatto sempre più vicino, ne sentiva quasi "il fiato" su di lui: ma il cielo non respira così forte, pensò il bambino; il cuore gli tremò, ma si fece coraggio ed aprì piano un occhio, poi l'altro; capì che era in pericolo, ma non si mosse, non fece alcun movimento con nessuna parte del corpo, aprì solo i suoi occhi e ciò che gli apparve gli mise un gelo dentro, sembrò che il sangue avesse smesso di scorrere e il cuore di battere, davanti a lui un enorme Orso brandiva le sue poderose zampe verso di lui, avvertì la strana sensazione che fosse arrabbiato proprio con lui.
Ma come poteva aver fatto una cosa simile, non sapeva nemmeno che esisteva fino a qualche istante prima, perché ce l'aveva così tanto con lui?
Quello che l'orso rivendicava era la sua "tana", quell'incavo ai piedi della Quercia sua amica, il luogo dove da anni passava la sua vita tra un letargo e l'altro; c'era in quell'incavo il suo odore forte, il suo pelo caldo, il suo respiro rabbioso.
Il suo istinto gli diceva di stendere la sua zampa e lanciare lontano quell'esserino insignificante e riprendere ciò che gli apparteneva, ma uno stormire improvviso di rami fermò quel pensiero e gli cantò il più bel canto di primavera che avesse mai sentito; fu quella musica che bussò al suo cuore a chiedergli pietà per quel suo indifeso amico ed il suo cuore l'ascoltò.
Intanto il piccolo Nicolin si era alzato in piedi e gli stava di fronte, piccolo come una pulce sul dorso dell'elefante.
Lo osservò a lungo con gli occhi sbarrati: non aveva mai visto niente di così enorme e di così neri; il fatto strano fu che quell'enormità e quel pelo folto e scuro non gli facevano per niente paura, era come se fra loro ci fosse sempre stato un vincolo segreto che adesso chiedeva di realizzarsi in quell'amicizia che forse sarebbe nata fra di loro.
La stessa sensazione l'ebbe anche l'Orso che sentì il suo cuore battere un ritmo strano; guardò la Quercia e poi il bambino, guardò il bambino e poi la Quercia ancora, non capiva che cosa stesse succedendo, ma mise per terra tutte e quattro le sue zampe e come un gattino si avvicinò al piccolo Nicolin guardandolo dritto negli occhi.
Furono pochi attimi che scrissero una storia intera e segnarono in modo indelebile le vite di entrambi.
In mezzo, tra la Quercia e l'Orso, Nicolin sentì una forza sconosciuta venirgli su ed attraversargli prima le gambe, poi le braccia, fino a penetrargli nella mente e nel cuore, sentì che quella sarebbe stata la sua famiglia e chiese all'Orso di essere suo padre e l'Orso accettò.
Insieme andarono a caccia ed insieme si riposarono sotto la grande Quercia.
Nicolin imparò ben presto tutti i segreti del bosco: imparò a riconoscere i pericoli guardando il movimento degli animali, a sentire l'arrivo della pioggia, gli odori della selvaggina, a pescare nel ruscello, a difendersi ed anche ad attaccare per spaventare l'avversario.
Divenne ben presto forte e robusto nel corpo e nello spirito: aveva il coraggio di guardare il nemico dritto negli occhi vincere lo scontro senza muovere un solo muscolo; la forza nelle gambe per correre più veloce degli altri e l'agilità mentale per escogitare trappole per le prede quotidiane.
Osservò sempre attentamente ogni movimento del suo amico orso, comprese ogni sua decisione, ogni sua scelta, ogni suo desiderio; saggiò la potenza dei suoi artigli sicuri, la nobiltà dei suoi pensieri, la vanità del suo specchiarsi nell'acqua dolce del rapido torrente, il suo palpitare ansioso quando lui spariva dalla sua vista per molto tempo ed il suo cercare e frugare nel bosco in cerca delle sue orme sul terreno bagnato; conobbe anche la sua golosità e la forza dell'istinto che cede alle passioni e diventa insidia fatale anche per un poderoso ed invincibile orso come lui.
Un giorno, infatti, l'orso annusò nell'aria un odore inconfondibile, irresistibile, tormentoso, impossibile da non seguire; spinto dalla sua incontrollabile golosità, seguì il profumo che l'aria della tarda primavera gli aveva portato fino alle narici.
Nicolin non capì subito cosa stesse succedendo, ma sentì nell'aria un brivido e, nonostante il caldo, decise di seguirlo.
C'era da quella parte nel bosco un intenso profumo di miele, che sfidava il suo controllo e lo chiamava da lontano a cercarlo, a gustarne il sapore pieno e delicato, intenso e pieno quel non so che, che impedisce qualsiasi controllo si voglia mettere in atto.
Ma quella era zona dove l'uomo s'aggirava da padrone ed armato di fucile era sempre pronto a far fuori chiunque vestisse i panni della preda.
Appostato fra i rami di un cerro, infatti, un cacciatore, sentì il camminare dell'orso farsi sempre più rapido ed il suo respiro farsi sempre più affannoso.
Estasiato da quel odore che ormai riempiva narici e polmoni, l'orso abbandonò per un istante le sue difese, cercò nel tronco l'essenza del suo piacere approfittando della momentanea assenza delle api, affondò la sua zampa pregustando già ciò che avrebbe di sicuro soddisfatto il suo desiderio e la sua passione. Ma quell'attimo gli fu fatale: il cacciatore era già lì pronto, col grilletto alzato, pronto a pregustare quel trofeo niente male che avrebbe fatto salire di molto la sua quotazione personale presso il bar del paese; due colpi mortali alle spalle e fu un unico rantolo ad uscire insieme al sangue che inondò la sua pelliccia bruno-dorata, macchiandola per sempre.
I suoi piccoli occhi restarono aperti a guardare il cielo lontano, mentre dalla sua zampa colava quel liquido dolciastro e già a mille e a mille, le formiche erano intorno, decise a non far perdere nemmeno una goccia di quel delizioso cibo degli dei.
Il cacciatore prese in fretta la sua testa che con un taglio netto staccò dal resto del corpo e sparì lasciando agli animali del bosco quel corpo ormai inutile.
Nicolin era rimasto lì, immobile, incredulo, impotente, perplesso, sgomento.
Ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero sarebbe stato vano, sarebbe stato inutile proprio come quel corpo inerme con addosso la sua pelle macchiata di sangue.
Ecco, proprio la pelle! Era l'unica cosa che avrebbe potuto fare: prendere la sua pelle e coprirsene, per sempre, come cosa viva che avrebbe continuato a vivere in lui.
Prese così su di sé la sua morte deciso a ridargli vita dentro di sé, raccolse il suo sguardo perso nel cielo e gli ridiede luce attraverso i suoi occhi, si impadronì dei suoi pensieri e li depose in un luogo sicuro, l'unico luogo dove il fucile dell'uomo non può entrare e non fa paura: nel cuore innocente di un "figlio" che prende su di sé la "pelle" di suo padre e se ne fa carico per tutta la vita, come il dono pi o pose, nel profondo del suo animo, a ricordo di quell'istante in cui la morte, giocando con le passioni, raggiunse il suo scopo assassino.
Quel lampo era impregnato di dolci passioni, travolgenti emozioni, sapori gustosi e fantastici sogni, quel lampo era il pericolo ed il segno della rivolta degli istinti contro la ragione; la sua difesa fu per lui prova di coraggio e lo scopo della sua vita a venire.
Dopo averlo deposto nella parte più sconosciuta al mondo, ci mise sopra decine e decine di spesse lastre di ghiaccio, così che il tempo non ne rubasse il calore e l'intensità.
Nello stesso momento tutto il suo corpo ebbe un brivido di freddo; il sangue si gelò nelle vene e non volle più scorrere come prima, non volle più dare forza a quel "muscolo" che alimenta i sentimenti, il quale continuò a battere senza una ragione, senza più vita, senza più senso.
Della pelle ne fece una corazza e se ne vestì; sentì forte il suo peso e temette di non esserne capace, ma sentì anche il suo calore e ciò ridusse la sensazione del suo peso, eccessivo per le sue fragili membra di ragazzino.
Il caldo del pelo riempì il vuoto lasciato dalla sua assenza e fu più facile riprendere il cammino.
Quella pelle fu per lui certezza e rifugio, arma e difesa, forza e vigore, patto di sangue e d'amore per il quale avrebbe combattuto per tutta la vita. anche se a volte arrancò sotto il suo peso, mai gli venne desiderio di deporla o di sbarazzarsene, anzi, più diventava pesante, più il suo peso lo riempiva di forza e di vigore; ed essendo cosa viva, il suo peso aumentava con l'aumentare della sua forza, in proporzione uguale, quasi una sfida!
Quella pelle fu la sua prigione divenuta corazza sostituì la stessa pelle, imprigionando anche quella parte di sé che non aveva mai accettato limiti alla sua libertà; a lei sacrificò la sua stessa ribellione e quel senso di indipendenza che lo aveva accompagnato in tutti quegli anni; per lei rinunciò alla sua libertà e ne fu schiavo volontario a ricordo di quella schiavitù a cui l'uomo è sottoposto dai suoi impulsi, dalle sue passioni nei confronti della sua stessa libertà di scegliere e di vivere.
Continuò a credere per anni di essere ancora libero di scegliere e di vivere, ma sentiva giorno dopo giorno, il peso della sua corazza farsi sempre più pressante tanto che ad un certo punto il cuore cominciò ad annaspare e a far sentire la sua stanchezza.
Ma l'orgoglio, quella stessa nobiltà che aveva animato il petto dell'orso e la sua testardaggine nel proseguire nonostante tutto, lo avevano reso, non solo schiavo, ma anche cieco, tanto da non saper più riconoscere l'odore di una violetta né stupirsi del cielo mattutino.
Continuò ad amare la sua Quercia, ma neanche quello era più amore, era dolore, disperazione, rabbia, delusione, sofferenza sepolta, smarrimento, sconvolgimento, turbamento ed inquietudine incomprensibili.
La Quercia, nonostante la sua immensità e la sua immobile certezza di essere e di esistere, la sua inflessibilità ed il suo rigore, non sopportò a lungo la perdita dell'amico e l'assenza dell'altro: il suo primo e più antico amico l'aveva lasciata alla sua secolarità senza più la possibilità di solleticarle la corteccia rugosa e profonda; il secondo, quello che aveva amato di più, era ormai lontano da lei, dall'allegria dei suoi uccellini, dalla frenesia delle sue formiche. Pur sedendo ancora alla sua ombra e raggomitolandosi nel suo incavo, la sua mente era lontana, i suoi pensieri andavano oltre l'orizzonte e sfidavano la sua immobilità, facendole sentire tutta la sua pochezza e la sua impotenza. Così, piano piano, lentamente, si lasciò morire, fino a quando un lampo, ancora un altro lampo, le bruciò il cuore e restò lì a metà, con il cuore incenerito e nero ed i suoi rami nudi e non più tesi verso il cielo, ma pendenti verso l'ombra del suo stesso corpo.
Prese allora Nicolin anche la sua ombra e la sua solitudine, la sua amarezza e la sua delusione del mondo e della vita e se ne fece ancora corazza da indossare, a rinforzo della prima, a certezza del suo essere diventato adesso Orso e Quercia, solido, potente, ma freddo, gelido, pieno di vita ma che la vita rinnega. Dominava adesso la Natura e tutti i suoi pericoli, niente aveva più segreti per lui e niente più lo coglieva di sorpresa e lo stupiva.
Ma dopo la morte della Quercia, qualcosa in lui era cambiato, qualcosa si agitava con sempre maggiore forza, e premeva, premeva perché qualcuno gli aprisse la porta e ascoltasse la sua voce ribelle. Un'ansia invase il suo spirito e un desiderio cominciò a rombare sempre più forte, proprio come l'urlo dell' di lui.
Uscire fuori dal bosco significava ricominciare tutto da capo, significava rimettere tutto in discussione e forse anche scoprire che quelle certezze non erano proprio certezze ma solo momentanee verità che dovevano lasciare il posto ad altre verità anche loro destinate a finire non appena altre se ne fossero affacciate.
Era una decisione coraggiosa, la più coraggiosa della sua vita; gli occorreva una forza che non era sicuro d'avere; ciò che più lo faceva soffrire era la mancanza della sua ombra e di quell'odore forte della terra che ormai si portava nelle viscere e nelle mani dalla pelle ambrata.
Sentì forte il desiderio di farlo ma non sapeva che direzione prendere, da quale parte uscire da lì; ma l'indecisione fu solo un attimo: aveva imparato dall'orso a fiutare le sue scelte, a lasciarsi guidare dal suo istinto per essere sicuro di non sbagliare mai.
Così s'incamminò senza che la Ragione ne sapesse la meta e seguì il cammino del sole e poi quello della luna, fino a quando qualcosa non giunse a dargli certezza e speranza di vita.
Qualcosa di misterioso ma la tempo stesso che sapeva di buono e di familiare, d'incomprensibile ma solo apparentemente perché era proprio questo il mistero: ciò che apparentemente sembra misterioso è invece la parte più vera e reale di noi e questo sconvolge più della stessa realtà che poi in fondo è la vera apparenza.
Tutto cominciò una mattina quando, davanti ai suoi occhi comparve un esserino quasi trasparente che agitava due lunghe ali bianche; a vederla così sembrava quasi la famosa Trully di Peter Pan, ma era molto più reale, più "umana" di un semplice folletto di bosco.
Questo personaggio misterioso cominciò a danzargli davanti agli occhi senza parlare, sembrava quasi invitarlo a seguirlo, come se la sua presenza lì, in quel momento, non fosse casuale.
La sua presenza non durava tutto il giorno, ma pochi momenti... pochi momenti di presenza effettiva molti in cui la sua assenza era più forte della sua stessa presenza.
Giorno dopo giorno, qualcosa in lui cominciò a cambiare; con l'arrivo della primavera si sciolse in lui il primo pezzettino di ghiaccio che aveva coperto il suo cuore per tanti anni e la prima goccia di rugiada gli inumidì gli occhi dandogli una sensazione strana ma... intensa ed indimenticabile, fu meraviglioso sentire dopo tanti anni il sapore dolce-amaro di una lacrima che scorre sulla pelle.
Per molti giorni le cose andarono avanti così ed ogni vola un pezzettino in più si scioglieva fino a quando un mare immenso lo invase; i pezzettini di ghiaccio di tanto in tanto gli procuravano ferite più o meno profonde e dolorose, ma chissà perché, era un dolore diverso, quasi un "dolore buono", necessario.
Pian piano il ghiaccio si sciolse ed il sangue ricominciò a scorrere nelle vene, caldo, forte, pieno di vita e di "passione", quella passione che era rimasta sepolta dentro lo scrigno posto in fondo all'anima.
Sentì un turbamento incomprensibile, un vuoto che non sapeva d'avere ed un'assenza che non capiva cos'era; ben presto dentro di lui si formò un vortice che sconvolse i suoi sentimenti e le sue emozioni; si trovò senza difese e...cosa strana... senza corazza e non riusciva a capire se fosse più grande la gioia o più devastante l'insicurezza che questa situazione gli dava.
Un fiume scorreva impetuoso e si agitava dentro di lui, alternando piena a piena ed alterando ciò che ormai sembrava sicuro, solido ed immutabile; ma ciò che credeva immutabile non poteva essere tale perché non era la realtà, era quella l'altra realtà costruitasi intorno per cui non poteva esser vera e reale e ciò che credeva fosse la vita e fosse la sua sicurezza non poteva esser tale perché la vera realtà era ancora da venire e per affrontarla occorreva trovare un nuovo ritmo, un nuovo equilibrio, quello vero e naturale, perché l'uomo può anche bloccare il corso di un fiume e deviare la sua corsa verso il mare, ma prima o poi, il fiume spinto dalla legge della natura, riprende con forza il suo posto e stravolge quello che l'uomo, nella sua inconsapevolezza, aveva stravolto di lui, per continuare a scorrere nell'alveo destinato al suo cammino, l'unico e vero, quello che nessun uomo può deviare, né fermare, né invertire, senza per questo modificare le leggi immutabili della Natura.
Una mattina, senza che lui avesse deciso, almeno non coscientemente, si trovò a seguire quell'esserino che pur non parlando gli aveva detto molto di più.
Non oppose resistenza anche se avvertì un senso di disagio nella parte più buia di sé; si sentiva allo scoperto e questo gli dava un senso di gioiosa leggerezza e di strana paura.
Mentre camminava seguendo in silenzio quella specie di "farfalla", si ricordò quando, un tempo, aveva amato il volo delle farfalle e il calore del sole e non capiva come avesse fatto in tutti quegli anni a dimenticarlo eppure era sicuro di non essere mai cambiato e di essere rimasto sempre quel "bambino" amante della sua libertà e della sua indipendenza; non si era mai reso conto che si può essere schiavi della stessa libertà e prigionieri della propria indipendenza o di una corazza che finisce col trasformarsi in pelle e confondersi con la pelle vera, che sotto soffre per la mancanza di sole, d'aria, di verità.
Lui che non avrebbe mai rinunciato alla sua libertà, l'aveva rinnegata più d'ogni altro, confinando nel profondo sud della sua anima ogni desiderio che di essa giungeva dal cuore ai pensieri.
Sentì un fremito febbrile nel constatare tutte queste cose nei suoi pensieri che sentiva ardenti e... quasi dolorosi, di un dolore muto, profondo e terribilmente disperato nell'ansia che avvolgeva il suo desiderio adesso di scoprire la verità... tutta la verità, qualunque essa fosse!
Ma la verità giunge solo quando il tempo è maturo.
Chissà se lo era anche per lui, adesso, dopo tutti quegli anni passati credendo che fosse quella l'unica e la sola verità possibile della sua vita!
Era giunto, intanto, ai margini del bosco; davanti a lui si apriva una stupenda vallata al cui confine intravedeva un'ombra maestosa che non riusciva bene a distinguere se fosse una montagna o qualcos'altro.
Si accorse anche di essere rimasto da solo e che quel percorso l'aveva fatto da solo, la strada l'aveva decisa da solo, pur essendo convinto che qualcun altro avesse deciso per lui e l'avesse portato fin lì.
Quell'ombra scura che intravedeva al limite dell'orizzonte e s'intrometteva tra il verde del prato e l'azzurro del cielo lo fece sussultare inspiegabilmente.
Fu tanta la paura quanto la curiosità che il passo si avviò senza che se ne rendesse conto.
Man mano che si avvicinava riusciva a distinguere un pezzettino in più di quell'ombra misteriosa, fino quando si trovò davanti un... meraviglioso e magnifico castello!
Era di una bellezza incredibile, proprio come quello delle fiabe, ma qualcosa lo turbò: era vuoto, disabitato!
Non un rumore, non un movimento, niente che facesse pensare a qualcosa d'animato o di vivente.
Avvicinandosi ancora, fu stupito dal fatto che nonostante non ci fosse anima viva ad abitarlo, tutto era perfettamente in ordine, anche il giardino, le rose, le finestre spalancate come se stessero aspettando qualcuno.
Lo stupore iniziale fu ben presto sostituito da un acquietarsi d'emozioni, una serenità mai vissuta, una certezza che per la prima volta gli venne da dentro, una sicurezza quasi come se... si sentisse a casa propria.
Ma non volle pensare, gli sembravano impossibili quei pensieri, troppo strani e troppo... fantasiosi, irreali!
Giunse così davanti al cancello; vide sulla destra un campanello, vi appoggiò indeciso la mano, ma il suono si diffuse rapido nell'aria invadendo tutto il giardino e poi le mille stanze del castello; il cancello si spalancò immediatamente davanti ai suoi occhi ancora increduli, quasi che una mano invisibile avesse azionato un pulsante a distanza e, prima ancora che se ne rendesse conto, tutta l'aria ebbe un forte fremito e sentì intorno a sé un calore antico, un odore inconfondibile, un'emozione indimenticabile... ma come poteva succedere tutto questo, cosa significava!
Il portone del castello si aprì ed una dama, bellissima, apparve vestita da sposa; alla finestra superiore si affacciarono tre visini tondi e curiosi che lo guardavano con sollievo, come se lo avessero aspettato da sempre.
Un maggiordomo gli andò incontro e con un fare dignitoso e sereno gli disse:
"Bentornato, maestà! L'aspettavamo da tanto, lo sapevamo che sarebbe tornato!".
Nicolin non aveva parole, non riusciva neanche a pensare, era tutto così incredibile, tutto così bello, quasi un sogno!
In realtà la parte più bella del sogno è il suo risveglio!
Nicolin si stava svegliando da un lungo sonno e credeva che il sogno fosse appena incominciato!
Avanzò con passo sicuro e si avvicinò alla dama che gli porse la sua mano; si chinò su di lei e sfiorò teneramente la sua pelle delicata; poi si girò verso destra ed incontrò lo sguardo di quei tre visini che lo fissavano con un'aria di felicità incontenibile e provò un non so che di... indicibile emozione fatta di un miscuglio di sentimenti: gioia, paura, stupore, turbamento, felicità, sgomento...
Attraversò l'ingresso e si trovò davanti ad un grande specchio; gli sembrò strano trovarlo lì all'ingresso; gli si avvicinò e... davanti ai suoi occhi si formò un'immagine non del tutto sconosciuta.
Apparve una figura d'uomo con addosso una pelle d'orso che si rivolse a lui con tono affettuoso:
"Figlio, fu mio volere darti ciò che ritenni necessario, perché questo castello avesse un giorno il suo padrone e perché il suo padrone fosse un giorno un re degno di questo castello.
Sono stato tuo padre e tu mi hai seguito per i boschi, hai messo il tuo piede nell'orma lasciata dal mio, hai imparato a difenderti e a riconoscere i pericoli, camminando al mio fianco; mi hai amato e mi hai custodito nei tuoi pensieri come qualcosa di prezioso e di forte. Hai portato sulle tue spalle la mia pelle pesante e non ti sei mai lamentato dello sforzo che ogni giorno doveva essere raddoppiato perché il suo peso si faceva sempre più insostenibile.
Ma ogni cammino ha una sua meta ed ogni viaggio ha un suo arrivo: ed è questo il momento in cui tu giungi alla tua meta ed io termino il mio cammino!
È tempo per te di governare ed è tempo per me di andare e di lasciarti libero di farlo nel modo più giusto e saggio, perché tutto ciò che avevo da insegnarti l'ho fatto, adesso tocca a te fare lo stesso, senza fare però, i miei sbagli ed i miei errori.
Riprendo ora su di me la mia pelle, ti restituisco la tua libertà insieme a questo regno che ti è sempre appartenuto e che non hai mai saputo di possedere; dentro di te, adesso, c'è la sapienza dell'orso, la saggezza della quercia, la poesia della natura, la forza delle passioni che adesso sai dominare e di cui sei diventato abile padrone.
Questo palazzo è tuo: siine fiero e degno. Ascolta ciò che dentro ti parla e non aver timore; guarda quello che intorno si muove e non temere: adesso sai riconoscere il desiderio di una donna e la dolcezza in un bambino e non hai bisogno d'altro!
Sei stato re non per corona, ma per vita vissuta; adesso lo sarai per entrambe le cose e sono sicuro che non deluderai le persone che ti hanno aspettato per una vita intera, una vita ancora tutta da scrivere, da vivere, da sognare.
Ancora un'ultima cosa: come in ogni regno, anche in questo c'è un tesoro! Non è nascosto, ma neanche è visibile a tutti.
Se lo cercherai nel modo giusto, potrai vivere per il resto della tua vita senza problemi di sorta: esso è inestimabile ma anche inestinguibile, ma sarà compito tuo dargli il valore giusto! Addio, figlio mio".
La voce tacque e l'immagine scomparve. Le luci intorno a lui si accesero e tutto apparve nel suo meraviglio splendore.
Un raggio di sole invase la stanza ed illuminò nell'angolo una vecchia carrozza.
Nicolin si guardò intorno; capiva a malapena quello che gli stava succedendo, ma gli piaceva e ne fu felice.
Ripensò al giorno in cui aveva deciso di intraprendere quel viaggio e capì che per ogni scelta da fare c'è già una scelta fatta, per ogni destino da compiersi c'è sempre un desiderio a valle, a monte o nascosto un po' dovunque; capì anche che ogni scelta non è mai una scelta qualunque; capì che il suo destino era stato mosso da un desiderio che aveva posto nei suoi pensieri molti anni prima, ma che poi aveva smarrito nel cammino convinto com'era che i desideri sono solo desideri e non hanno niente a che fare con la vita e con la realtà.
Ma ora, di fronte alla realtà, non poteva negare a se stesso che ogni desiderio ha un suo tempo, ogni desiderio non è vano, ogni desiderio è una scelta di vita!
Aveva scelto e la sua vita, compiendosi, aveva appena svoltato l'angolo ed iniziava un nuovo cammino tutto da desiderare, tutto da pensare, tutto da vivere....
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