Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 
Trilussa ovvero "La grazia irriverente della Poesia"
di Olivia Trioschi
Un giorno l'Uomo del destino / trovandosi invitato ad un festino / gonfiò il petto meglio di un tacchino / e salutò il Poeta tra i presenti: "Al più grande di tutti io mi inchino". / "è pur vero" rispose quello sull'attenti / "non è da tutti misurar due metri".
Episodio vero e riportato da varie fonti. L'uomo del destino (è fin troppo noto di quale destino), c'è da dirlo?, altri non era che Mussolini. Il Poeta, il gigante le cui titaniche proporzioni erano come corrette e smussate dall'espressione fanciullesca, si chiamava invece Carlo Alberto Salustri, in arte Trilussa. Di aneddoti come questi - che sembrano stiano lì a compensare la vistosa assenza di azioni, dichiarazioni, prese di posizioni plateali del genere tanto caro a un caro amico di Trilussa, il "parlante animale", come a lui stesso capitò di definirsi, Gabriele D'Annunzio - la biografia trilussiana è ricchissima. Né potrebbe essere altrimenti: nato nel 1871 e morto nel 1950 - e dunque quest'anno si celebrano i cinquant'anni dalla morte - vissuto sempre a Roma senza disdegnare piacevoli soggiorni in varie città italiane e straniere, gran frequentatore e animatore di salotti e teatri come di osterie, caffè e varietà, "tombeur de femme" al pari - questa volta sì - del collega D'Annunzio, col quale anzi amava passeggiare, entrambi al braccio di qualche bella signora, per i viali di Roma, Trilussa ha attraversato ottant'anni di storia italiana con la leggerezza dell'ape cantata in una delle sue ultime poesie. "C'è un'Ape che se posa / su un bottone de rosa / lo succhia e se ne va/ Tutto sommato, la felicità / è una piccola cosa". Un'ape che, peraltro, non mancava di pungere con una sua speciale grazia irriverente, né di ronzare nei posti più impensati raccogliendo i segreti più intimi, sorridendone tra sé prima ancora di far sorridere altri.
Perché divertire il prossimo era ciò che Trilussa sapeva fare meglio, e la gente gli voleva bene per questo. Che gente? Ma il popolo: quello di Roma, prima di ogni altro, quel popolo che mandava a memoria le sue poesie, le recitava per la strada, le cercava sulle riviste per poi declamarle insieme agli amici o in famiglia. Il popolo che lo salutava per la strada, gli offriva un bicchiere di Frascati, lo additava quando entrava o usciva dallo studio-abitazione felicemente descritto da Silvio d'Amico in una famosa pagina: "un grande studio da pittore, presso il Lungotevere Arnaldo da Brescia, tappezzato e ammorbidito; una sorta di compromesso fra l'estetismo della Capponcina dannunziana e la dimora bohémienne, con tappeti e divani e quadri e disegni e animali imbalsamati e arredi ecclesiastici e lampade misteriose e libri ben legati e statuette e strumenti musicali e, soprattutto, una quantità di fotografie e un subisso di caricature". Quello stesso popolo di portinai, servette, camerieri, facchini, maghi e sartine che animava i dialoghi dei suoi versi con l'arguzia, il cinismo e la prontezza che si usano riconoscere nella gente comune, e forse a Roma più che altrove.
La popolarità di Trilussa - un caldo affetto che lo circondò fin dai suoi esordi per non abbandonarlo più - non gli giovò quanto a fortuna critica. Il favore del popolo, in Italia, è sempre stato guardato con sospetto e aggrottar di ciglia dai notabili della letteratura: se piace tanto ci deve essere qualcosa che non va. Proviamo a riformulare il ragionamento: il popolo ha gusti popolari - per la gioia di Monsieur de Lapalisse - perché non è educato, non è raffinato, non è attento, non ha spirito critico. Quindi non ha un buon metro di giudizio. Altri devono essere gli strumenti: l'attenta sensibilità del cultore della materia, la sua preparazione a cogliere la precisione del metro, l'innovazione, l'originalità, le architetture della sintassi. Detto così non fa una piega. Ma allora, e questa è la domanda che ci tormenta, perché la poesia è nata in mezzo al popolo e al popolo veniva cantata dagli aedi (e quella poesia adesso è posta per concorde giudizio critico sulla vetta delle umane espressioni artistiche), perché era il popolo di Atene, per non parlare di quello londinese di qualche secolo dopo, a decretare la fortuna o la sfortuna di tanto teatro e nessuno si sognava di mettere in discussione il suo giudizio (e quel teatro viene ancora oggi riproposto con la benedizione della critica), perché la Commedia (quella Divina) veniva cantata nei vicoli dai fabbri intenti a martellare spade, perché I promessi sposi e I miserabili divennero sin dalla prima uscita popolarissimi? Sarà che il popolo, talvolta, ha l'occhio lungo almeno quanto i critici? Vien da pensare, piuttosto, che esistano autori i quali hanno orecchie per ascoltare ciò che il popolo dice nelle strade e nelle piazze, e cuore abbastanza per riproporlo togliendogli l'inevitabile patina di banalità e quotidianità per donargli ali più ampie e respiro universale. E questi autori il popolo li scova immediatamente, li vuole, li reclama, li legge e li rilegge, li coccola. Perché parlano di cose semplici - che ad altre e più raffinate orecchie possono anche offrire squarci di profondità e altezze vertiginose - come l'acqua e il vino: titolo, non a caso, di una raccolta di Trilussa.
Se invece vogliamo fare un discorso di domanda-offerta editoriale, allora la questione si complica. Perché se la storia ci mostra che il popolo ha denti buoni anche per masticare buona letteratura, purché gliela si offra, ci insegna allo stesso modo che il popolo può masticare qualsiasi cosa, para-letteratura, o addirittura letteratura cattiva (ma avrà senso parlare di cattiva letteratura? Chi decide in proposito? Ecco un altro dubbio che ci tormenta). Dipende sempre da quel che trova in giro. Considerazione cui ne seguono a ruota molte altre: che vanno dalla riflessione, tipicamente nostrana, sulla schizofrenia scrittori-popolo (schizofrenia le cui radici salgono su su fino a Petrarca) alla constatazione, che invece non ha sede fissa perché dimora ovunque ma soprattutto qui e ora, che la logica del profitto non è propriamente buona consigliera in fatto di scelte editoriali.
Trilussa, dicevamo, sconta agli occhi di molti critici il peccato originale di un vasto successo di pubblico, che peraltro non accenna a diminuire: il dato più recente che abbiamo trovato dice che nel 1977 l'edizione mondadoriana di Tutte le poesie aveva toccato quota 26a ristampa. Dato che, per la poesia italiana, ha del miracoloso. Ciò che constatava tra lo stupefatto e l'ammirato anche Silvio d'Amico, il primo a dedicare a Trilussa, nel 1943, uno studio critico di un certo spessore: "che diremo di Trilussa, unico fra i poeti della Letteratura italiana dalle origini ai nostri giorni, il quale abbia goduto e goda d'un tal pubblico di lettori, da poter materialmente vivere del frutto de' suoi versi? Non si dice prosa, non si dice teatro: si dice versi". Abbiamo già cercato di individuare il motivo di tanto straordinario successo: contenuti semplici, motti arguti, quel tanto di saggezza che ciascuno sente di portare anche nelle proprie tasche con in più un costante atteggiamento di irriverenza, ma non di scherno, di smitizzazione, ma non di aridità; e poi la lingua: un romanesco facile, orecchiabile, comprensibile anche a chi romano non è. La lingua parlata nella Roma neo capitale d'Italia, dove erano già arrivati in massa funzionari da Torino e da Firenze, mescolando i loro al dialetto locale.
È questo lo scenario in cui si muove Trilussa: una città che è appena diventata capitale e si avvia a diventare il centro burocratico e amministrativo, ma non industriale, d'Italia; tra i cui abitanti, quindi, si conta il più alto numero di piccoli impiegati, segretari, portaborse, portinai, facchini, camerieri: tutta la variegata fauna che si muove nei pressi e intorno ai palazzi del governo. Lassù, nelle stanze del potere, si inaugurava la stagione sempreverde del trasformismo; quaggiù si diffondeva la mentalità piccolo borghese. Questa mentalità Trilussa aveva respirato fin da bambino. Figlio di un cameriere e di una sarta, nipote di un prete, figlioccio del marchese De' Cinque Quintili che, dopo la precoce morte del padre, ospitò la famiglia nel suo palazzo (sono ammesse perplessità sulla reale paternità del nostro, ma avvertiamo subito: nulla di certo ha potuto intaccare la reputazione di Carlotta, la madre a dir poco venerata), il poeta riassumeva persino nel nome il desiderio paterno di non dispiacere a nessuno: Carlo Alberto in onore alla monarchia, Camillo per compiacere lo stato, Mariano in omaggio alla religione. Non è chi non veda, in ciò, una costante della piccola borghesia: i poteri costituiti meglio tenerseli buoni tutti, non si sa mai. Dal quinto piano di palazzo De' Cinque il giovane Carlo Alberto, non ancora Trilussa, osservava la folla di dame e damerini nella via sottostante, ascoltava le confidenze delle signore della buona borghesia che frequentavano la sartoria materna, alzava gli occhi e fissava la biancheria stesa ad asciugare, e più in là i tetti e le mansarde fiorite, e oltre ancora i colori del cielo. Ascoltava, forse, i sospiri della madre che ricordava la figlia morta a tre anni, appena uno dopo la nascita del maschietto, e sicuramente le sue raccomandazioni a studiare, prima, e a non fare tardi, dopo. Vane entrambe: dopo aver frequentato senza grandi risultati due collegi, nel 1888 il giovanotto abbandona gli studi regolari (mai e poi mai, si disse, diventerò contabile, e al diavolo i consigli dello zio prete); poco dopo comincia a pubblicare sonetti su riviste locali e già nella prima metà degli anni Novanta è redattore del Don Chisciotte. Da allora, non smette più di scrivere i sonetti e le favole per cui è acclamato prima a Roma, poi in Italia, poi in Europa e infine anche in Argentina, dove nel 1924 riceve un'accoglienza trionfale. Ciò nonostante la preoccupazione per il bilancio familiare, vero chiodo fisso della piccola borghesia risparmiatrice, non lo abbandonò mai: quando venne nominato senatore a vita per altissimi meriti nel campo della letteratura, venti giorni prima di morire, il suo primo commento rivolto alla fedele governante Rosa fu: "semo ricchi".
Trilussa dava voce al sentimento e alla mentalità piccolo borghese perché tale era egli stesso; la sua satira non risparmiava nessuno perché era lui per primo a non risparmiarsi: "da allora in poi nasconno li dolori / de dietro a un'allegria de cartapista / e passo per un celebre egoista / che se ne frega de l'umanità". Mascherare le proprie emozioni (La maschera è il titolo della poesia da cui sono tratti i versi appena citati), nascondere una lacrima tra le risate, togliere il velo ai buoni sentimenti e alle ideologie di tutti i colori, rivoltare i buoni propositi per scoprire che "fratellanza" fa sempre rima con "panza": questo faceva Trilussa con i suoi versi e le sue favole. Aristocratici, intellettuali, politici, preti, gente del popolo: come s'è detto ce n'era per tutti. Durante una campagna elettorale i socialdemocratici affissero sui muri di tutta Roma i versi de La cornacchia liberale, una poesia che finisce così: "Oggi che la coscenza nazzionale / s'adatta a le finzioni de la vita / Oggi ch'er prete è mezzo libberale / e er libberale è mezzo gesuita / se resti mezza bianca e mezza nera / vedrai che t'assicuri la carriera"; detto fatto, un'ora dopo i liberali rispondevano con un'altra affissione, quella de Er compagno scompagno: "- No, no: - rispose er Gatto senza core - / io non divido gnente co' nessuno: / Fo er socialista quanno sto a diggiuno / ma quanno magno so' conservatore!". Se il senno di poi ce lo consentisse, si potrebbe giudicarli versi intessuti di malafede e di cinismo. Ma, ahinoi, non possiamo riconoscervi che una verità, per quanto spicciola, sinora mai smentita: la coerenza non fa parte, in genere, del corredo cromosomico degli uomini politici. A elezioni finite, chi fosse il vincitore poco importa, ecco Er ministro novo: "Mò va gonfio, impettito, a panza avanti: / nun pare più, dar modo che cammina / ch'ha dovuto inchinasse a tanti e tanti / Inchini e inchini: ha fatto sempre un'arte! / Che novità sarà pe' quela schina / de sentisse piegà dall'antra parte!". Il vetriolo di Trilussa corrode anche i paramenti sacri: "Don Pietro, er presidente, fa la storia / de come vanno l'organizzazione; / dice: - Co' li tranvieri va benone, / co' li scopini è stata una vittoria. - / Poi parla de le cariche sociali, de l'elettori, de l'affari sui, / e de banche e de sconti e de cambiali. / De tutto parla meno che d'Iddio, / e forse er Cristo penserà fra lui / - Se so' scordati che ce so' pur'io!-".
Il mondo di Trilussa è un mondaccio, la gente "gentaglia e gentarella": gli uomini sono ipocriti come quel bottegaio che un momento prima era decisissimo a chiamare la polizia e un momento dopo è tutto inchini e sorrisi per il cliente che gli ha saldato il debito; hanno la memoria corta come quell'innamorato che dopo qualche tempo risponde, a chi gli domanda della donna del cuore, "e chi si ricorda più"; le donne sono false come quell'unica cantante di caffè concerto che non mette la veste corta non per onestà, ma per non mostrare le gambe storte; vanitose come quella nonna che, a ripensare alla pietra preziosa offerta da un amante rifiutato in gioventù, ancora si morsica i gomiti. L'amore? è la testa del satiro nascosto in mezzo alla mortella a Villa Medici: "Pareva quasi che ner vede a noi / ridesse e borbottasse fra de lui: / - N'ho visti tanti e tanti come voi / innamorati fracichi, ma poi / ognuno è annato pe' li fatti sui!-". Un mondaccio che vive tutto intero nei sonetti, genere prediletto dal grande Belli e ripreso con somma perizia tecnica da Trilussa: è ancora d'Amico a riconoscergli "la facoltà di concepire in sonetti, di ridurre il mondo e la vita a sonetti, di padroneggiare la quadrata e stupenda forma del sonetto come cosa propria, e farne un mezzo d'espressione assoluto e perfetto. Chi, dopo il Belli, ha saputo come Trilussa adattar così spesso entro la ferrea cornice del sonetto quadri tutti essenziali, senza superfluità né ritagli né sforature, con quei versi precisi e cadenzati nei quali la frase combacia nativamente e logicamente con la misura dell'endecasillabo?". Abilità di compositore che gli hanno riconosciuto anche altri: da Renato Serra, finissimo cultore e intenditore di poesia che nel 1913 scriveva: "Trilussa ha anche una bravura e un sapore di verseggiatura che sfugge di solito nel gioco dei motti a cui il pubblico bada; ma è qualità d'artista" a Borgese, autore nel 1909 di una vera e propria stroncatura nella quale tuttavia ammetteva, quasi a denti stretti, che "Trilussa è artista di piccola ma sicura forza". La stessa "bravura di verseggiatura" si ritrova nelle favole, che sono però concepite in forme più libere rispetto al sonetto dal momento che metri e strofe diversi si mescolano tra loro; cambiano anche i personaggi, che non sono più uomini ma animali, ma la sostanza rimane la medesima.
Dissacrare, smontare, smascherare. Trilussa prende spunto dalle favole di La Fontaine per rovesciarne il finale riportandolo alla sua ben nota morale. Così La cecala d'oggi canta tutta l'estate incurante dei saggi consigli della formica e quando arriva l'inverno confida all'amica: "mò ciò l'amante: me mantiè quer Grillo / che 'sto giugno me stava sempre appresso. / Che dichi? L'onestà? Quanto sei cicia! / M'aricordo mi' nonna che diceva: / Chi lavora cià appena una camicia, / e sai chi ce n'ha due? Chi se la leva"; la ranocchia, dal canto suo, memore di quella antica progenitrice che a furia di gonfiare il petto era scoppiata, riflette: "Nun è possibbile ch'io possa / diventà come lui [il bove]: ma che me frega? / A me m'abbasta d'esse la più grossa / fra tutte le ranocchie de la Lega". Dopo aver riveduto e corretto le favole della tradizione Trilussa si slanciò nell'invenzione originale con una vera parata di fuochi d'artificio: polli, oche, somari e cavalli, piccioni e aquile, sorci e gatti, leoni, pecore e maiali, tutti intenti a disquisire, a sentenziare, a litigare nel comune segno del tornaconto, della "panza". Tutti portatori di una filosofia che potremmo chiamare della Maria Tegami, il fortunato personaggio scaturito dall'inesauribile fantasia trilussiana che sulle colonne del Travaso commentava fatti della cronaca e della politica con "velleità letterarie inversamente proporzionali alla mancanza di cultura"; tale fu il successo degli articoli che l'editore li raccolse in un volumetto, da regalare ai lettori, che si apriva con una Autobiografia dell'autrice: "A sette anni - scriveva Maria Tegami - Trilussa - venne un signore dall'America col barbone vestito di nero che era mio padre. Fui messa in collegio a S. Dionisio dove ci sono rimasta fino a diciotto anni. Mia madre mi veniva a trovare un giorno sì e uno no, con uno grasso e calvo, che era pure mio padre. Molte volte baciavo quell'uomo dalle gratelle del parlatorio avanti alla superiora e mi pareva che nell'amplesso superficiale lui non fosse paterno come si deve. [ ] Io pure comprendevo che l'affare non era liscio e un giorno che lui venne solo ci dissi a bruciapelo: Ma è proprio vero che tu sei mio padre? Lui, che si vedeva davanti una bambina che ci faceva un discorso così serio, diventò rosso, tossì e mi rispose: No, bambina. Io sono un perito agrimensore".
Smascherare, smontare, dissacrare. Il lavoro di Trilussa non era, in fondo, diverso da quello che contemporaneamente stavano facendo altri artisti in teatro. E il teatro, per Trilussa, era una vera passione, variamente dimostrata sia dall'attenzione che il poeta riservava alle illustrazioni (piccole caricature che sono vere e proprie "messe in scena" dei suoi versi), sia dalla composizione di macchiette per il teatro (per Maldacea e Petrolini, ad esempio; di Trilussa era anche il monologo La vispa Teresa che, recitato da Dina Galli, ebbe enorme successo in tutta Italia), sia dalla stessa composizione dei versi che spesso hanno la forma di un dialogo che non è difficile immaginare recitato sulla scena. Nel 1927, poi, probabilmente stufo della pesante cappa di conformismo imposta dal regime fascista, Trilussa costruì con un amico la "Baracca delle favole", un teatro di burattini di cui egli tirava i fili e per cui inventava gli scenari più stravaganti. E a questo punto come non ricordare che uno dei pochi successi scolastici del piccolo Carlo Alberto Salustri fu una composizione che aveva per tema "lo spettacolo della strada", nella quale il bambino paragonava le marionette ai candidati alle elezioni, constatando che in un caso come nell'altro c'è sempre un burattinaio che muovendo i fili tiene desta l'attenzione del pubblico? Non deve sorprendere, quindi, che l'interesse per l'immagine, così vivo in Trilussa, lo conducesse al cinema: lì, immaginava, c'era il futuro dell'immagine e della comunicazione. Nel 1914 scrisse una sceneggiatura per un film, ovviamente di grande successo, e nello stesso periodo intratteneva cordiali rapporti con Antonio Lumière, che lo invitò a fare un viaggio a Napoli. Dall'immagine al suono, per chi ha l'occhio lungo come l'aveva all'epoca Trilussa, il passo è presto fatto: ciò nonostante sorprende la sua passione per gli strumenti della musica popolare, proprio quella che, oggi chiamata "etnica", suscita l'entusiasmo di tanti intellettuali. Così come estremamente moderne suonano certe sue dichiarazioni sulla necessità, per l'uomo, di non rinchiudersi dentro i confini di una sola attività e, per lo scrittore, di non considerare mai l'arte un mestiere. Come le api, appunto, volava di fiore in fiore, e tra le sue frequentazioni troviamo Marconi, Mascagni, D'Annunzio, Mondadori, d'Amico, Leoncavallo.
Proprio il già citato d'Amico, per primo, sottolineò le affinità che parevano legare alcune trovate trilussiane e certi lavori teatrali, ricordando in particolare Morte degli Amanti, di Luigi Chiarelli, Danza su di un piede di Rosso di S. Secondo e Quando si è qualcuno di Pirandello; a queste se ne potrebbe aggiungere una venuta parecchio tempo dopo, La grande magia di Eduardo, nella quale la trovata della moglie in scatola (che il marito crede di tenere lì custodita per non doverne ammettere il tradimento) sembra in qualche modo richiamare L'illusione trilussiana: "Er vecchio dava segni de pazzia. / Me disse: - In quela scatola de latta / ciò chiusa drento l'anima ch'ho fatta / pe' la biondina ch'è scappata via".
E ancora smontare, smascherare, dissacrare. Niente sembra abbastanza sacro per Trilussa. Salvo l'idea della divinità: per quanto si accanisse contro i preti, nulla nei versi di Trilussa appare gratuito, volgare e offensivo nei confronti di Dio. La Fede di Trilussa è qualcosa di semplice e complicato al tempo stesso: "Credo in Dio Padre Onnipotente, Ma / - Ciai quarche dubbio? Tiettelo per te. / La Fede è bella senza li 'chissà', / senza li 'come' e senza li 'perché'".
Sono versi come questi che hanno guidato alcuni critici, non molti per la verità, alla riscoperta di un Trilussa un po' diverso da quello, ben più noto, le cui cifre restano il sarcasmo e la morale piccolo borghese. Molte poesie nascevano dalla cronaca, addirittura per la strada (come raccontava lo stesso poeta. Ma non le scrivi subito? gli domandavano. Non hai paura di dimenticarle? Quelle che dimentico non meritavano di essere ricordate, era la lapidaria risposta) e i riferimenti all'attualità che noi non cogliamo più erano ben chiari per i lettori che affollavano le vie di Roma, ridendo e dandosi di gomito per la vittima del giorno; oggi quei versi hanno un respiro diverso, parlano di cinismi e ipocrisie che non hanno tempo.
Proprio la sua attenzione per la cronaca, il suo "cavalcare" la cronaca, sembrarono creare un contrasto piuttosto vistoso con la quasi totale assenza di poesie ispirate ai fatti della prima e, più tardi, della seconda guerra mondiale. Ciò che, del resto, gli fu rimproverato da molti critici. In realtà qualche poesia c'è, come Il Natale di guerra o La ninna-nanna de la guerra che, a riprova del cordone ombelicale che lega Trilussa ai romani, molti anni dopo sarebbe stata musicata da Claudio Baglioni. Leggere ora quelle poesie vuol dire provare un brivido di commozione; vien da pensare, oggi, che l'atteggiamento di Trilussa di fronte allo strazio dei bombardamenti e dei massacri ("Sur vecchio campanile der convento / nun c'è la rondinella pellegrina / che canta la canzone der momento: / però, in compenso, romba e s'avvicina / un trimotore da bombardamento" presagiva nel 1938) non fosse dettato da facile scetticismo piccolo borghese, da un generico ed epidermico orrore del macello, ma da una disperazione più larga e da una compassione eterna per il piccolo, meschino essere che è l'uomo. Da una malinconia, da un'infinita tristezza per la giustizia e la verità che non ci sono e non ci saranno mai senza che gli uomini cessino ugualmente di immaginarle, di sognarle, di sentirsi pronti per dare loro consistenza in terra. Da questi sentimenti nasceva il Trilussa lirico, quello che confessava quasi sottovoce di conservare gelosamente sul comodino i Canti di Leopardi; nascevano quegli scorci gentili fatti di diminutivi e di esili figurette, quei versi sospesi insieme alla biancheria splendente al sole o arrossati di tramonto; quelle rapide aperture a un sé sempre mascherato (non dimentichiamo La maschera) che fa capolino in una sera d'estate; quei malinconici parchi e scialletti consunti stretti intorno a spalle magre; tutte immagini che sono come un piacere de senti' dolore nella favola che tutti conosciamo: "Pe' conto mio la favola più corta / è quella che se chiama Gioventù: / perché c'era una vorta / e adesso non c'è più. / E la più lunga? è quella de la Vita: / la sento raccontà da che sto ar monno, / e un giorno, forse, cascherò dar sonno / prima che sia finita".
 
Olivia Trioschi
 
 
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ins 26 giugno 2000