LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Sergio Corazzini: La favola breve d'un povero tenero poeta
Da Dolcezze (1904), Roma, tipografia cooperativa operaia romana.
 

 
Il mio cuore
 
Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove
 
eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s'arrossa
sempre a passioni nove.
 
Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,
 
che la mia penna avrà
uno schianto stridente...
... e allora morirò.
 
 
 

 
 
 
Imagine
 

da P. Bourget

 
La rondine di mare che ieri, mia dolente,
volava sopra il lago, con l'alucce sgomente,
 
erra sempre e la sorte del suo tenero volo?
brutal piombo la colse, e cadde, morta, al suolo?
 
o pur, libera, dopo lungo palpito d'ale,
giunse all'immenso, azzurro Oceano natale,
 
ove ne l'aria, ondeggiano esalazioni amare?...
A me, vedi, la piccola rondinella di mare,
 
stanca, che sfiorava, con l'aluccia sua lieve,
l'onde del lago, troppo, per i suoi voli, breve,
 
a me sembra il tuo cuore instancabile, ardito,
cuore di donna, cuore acceso d'infinito,
 
cuor nostalgico in preda al doloroso senso
di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!
 
 
 

 
 
Giardini
 
O piccoli giardini addormentati
in un sonno di pace e di dolcezze,
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze;
 
o ritrovi di sogni immacolati,
di desideri puri e di tristezze
infinite, o giardini ove gli alati
cantori sanno di notturne ebbrezze,
 
o quanto v'amo! I sogni che rinserra
il mio core, fioriscono, o giardini,
lungo i viali, ne le vostre aiuole.
 
Io v'amo, io v'amo, o fecondati al sole
di primavera in languidi mattini,
o giardini, sorrisi de la terra!
 
 
 

 
 
 
Da L'amaro calice (1905)
Roma, tipografia cooperativa operaia romana.
 
 
 

 
 
 
Invito
 
Anima pura come un'alba pura,
anima triste per i suoi destini,
anima prigioniera nei confini
come una bara nella sepoltura,
 
anima, dolce buona creatura,
rassegnata nei tristi occhi divini,
non più rifioriranno i tuoi giardini
in questa vana primavera oscura.
 
Luce degli occhi, cuore del mio cuore,
tenerezza, sorella nel dolore
rondine affranta nel mio stesso cielo,
 
giglio fiorito a pena su lo stelo
e morto, vieni, ho spasimato anch'io,
vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.
 
 
 

 
 
 
Rime del cuore morto
 
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso
come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t'accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d'incenso.
 
Uomini, io venni al mondo per amare
e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare.
 
Ma l'amor onde il cuor morto si gela,
fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!
Come un'antenna fu il mio cuore umano,
antenna che non seppe mai la vela.
 
Fu come un sole immenso, senza cielo
e senza terra e senza mare, acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve gelo.
 
Fu come una pupilla aperta e pure
velata da una palpebra latente;
fu come un'ostia enorme, incandescente,
alta nei cieli fra due dita pure,
 
ostia che si spezzò prima d'avere
tocche le labbra del sacrificante,
ostia le cui piccole parti infrante
non trovarono un cuore ove giacere.
 
 
 

 
 
 
Da Le Aureole (1905), Roma, tipografia cooperativa operaia romana
 
 
 

 
 
Dai Soliloqui di un pazzo
 
 
 
Sbarrò nell'ombra i grigi occhi perduti:
l'alba coglieva con le dita bianche
le ultime stelle per i cieli muti.
 
Egli pensò che il cuor tremi alle soglie
dell'anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine porte
fin che la pietosa alba le coglie.
«Hai visto tu passare le barelle,
o pazzo insonne, con le stelle morte?»
 
Chiarità di una lama, o tu che fendi
l'ombra maligna: io t'offro il mio cervello
oscuro e tristo per disegni orrendi.
 
Io non ho pace, l'anima è un pantano;
nell'anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte, pietre
vi hanno scagliato con secura mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi sordi
sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.
 
Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite, le idee d'una volta.
 
Mai più, mai più! su le terrene cose
l'occhio non sosta, l'occhio si dispera,
come un'ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all'inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.
 
Il mio cortile con un po' di cielo,
con poche stelle, a me sembra uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio stelo.
 
Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell'alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.
 
Tu che mi ascolti non aver pietà,
non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell'oscurità.
 
Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva
così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma viva,
la fronte dolce e pur sanguinolente
e piaghe orrende per le membra ignude.
 
Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.
 
A poco a poco si dissangueranno
le sue ferite per la doglia atroce
infin che un tarlo, - quando? - lentamente
roda i chiodi terribili che sanno
l'ossa dell'uomo e il legno della croce
e spezzi invano quel suo cuore ardente.
 
Chi mi parla dell'anima? Un impuro
ladro, forse, o un abate incipriato?
L'anima è morta ed io ne son sicuro.
 
Come una fonte semplice e tranquilla
donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè! tenere
per la sua sete giovane una stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.
 
Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l'alba alla mia cella triste?
L'inchiodi forse questa grigia bara?
 
Mi ricordo di te, sola; eri bionda,
esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell'oscurità profonda
del mio cuore, t'accorgi per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.
 
Chi tenta l'ombra che stagnò nei trivi
in cui le donne come idee mal certe
più volte si volgean tentando i vivi?
 
Chi veste d'auree stole anche le immonde
case che il fango d'un amplesso cinge?
Chi l'oro ai figli della terra adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più profonde
pupille ferme nell'eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della luce?!
 
 
 

 
 
 
Sonetto della neve
 
Nulla più triste di quell'orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l'anima sua bianchissima e leggera.
 
Maternamente coronò la sera
l'offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.
 
Ma poi che l'alba insidiò co' 'l lieve
gesto la notte e, per l'usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,
 
parve celato come in una bara
l'orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.
 
 
 

 
 
 
La finestra aperta sul mare
 

a Francesco Serafini

 
Non rammento. Io la vidi
aperta sul mare,
come un occhio a guardare,
coronata di nidi.
Ma non so né dove, né quando,
mi apparve; tenebrosa
come il cuore di un usuraio,
canora come l'anima
di un fanciullo. Era
la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata
terribile nel crepuscolo,
spaventosa nella notte,
triste cancellatura
nella chiarità dell'alba.
 
Le antichissime sale morivano
di noia: solamente l'eco delle gavotte,
ballate in tempi lontani
da piccole folli signore incipriate,
le confortava un poco.
 
Qualche gufo co' i tristi
occhi, dall'alto nido
scricchiolante incantava
l'ombra vergine di stelle.
E non c'era più nessuno
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.
 
Sotto la polvere ancora,
un odore appassito, indefinito,
esalavano le cose,
come se le ultime rose
dell'ultima lontana primavera
fossero tutte morte
in quella torre triste, in una sera triste.
 
E lacrimava per i soffitti
pallidi, il cielo, talvolta
sopra lo sfacelo delle cose.
Lacrimava dolcemente
quietamente per ore
e ore, come un piccolo fanciullo malato.
Dopo, per la finestra
veniva il sole, e il mare,
sotto, cantava.
 
Cantava l'azzurro amante,
cingendo la torre tristissima
di tenerezze improvvise,
e il canto del titano
aveva dolcezze, sconforti,
malinconie, tristezze
profonde, nostalgie
terribili... Ed egli le offriva i suoi morti,
tutte le navi infrante,
naufragate lontano.
 
Una sera per la malinconia
di un cielo che invano
chiamava da ore e ore
le stelle, volarono via
con il cuore
pieno di tremore
le ultime rondini e a poco
a poco nel mare
caddero i nidi: un giorno
non vi fu più nulla intorno
alla finestra. Allora
qualche cosa tremò
si spezzò
nella torre e, quasi
in un inginocchiarsi lento
di rassegnazione
davanti al grigio altare
dell'aurora,
la torre
si donò al mare.
 
 
 

 
 
 
Poemetti in prosa
 
 
 

 
 
 
Soliloquio delle cose
 
... Je crois que nous sommes à l'ombre. Maeterlinck
 
Les choses ont leur terrible «non possumus». Hugo
 
Dicono le povere piccole cose: Oh soffochiamo d'ombra! Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più. Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del lungo corridoio in cui non s'accoglie mai sole, come nel vano delle campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto finì.
 
Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il nostro amico direbbe: cuore. Siamo delle vecchie vergini, chiuse nell'ombra come nella bara. E abbiamo i fiori. Egli avanti di andarsene, per sempre, lasciò sul suo piccolo letto nero delle violette agonizzanti. Disperatamente ci penetrò quel sottile alito e ci pensammo in una esile tomba di giovinetta, morta di amoroso segreto. Oh! come fu triste la perdita cotidiana inesorabile del povero profumo! E se ne andò come lui, con lui, per sempre.
Noi non siamo che cose in una cosa: imagine terribilmente perfetta del Nulla.
 
Qualche volta le campane della piccola parrocchia suonano a morto. Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, povere piccole cose sole, se egli fosse qui. Ma è lontano e le campane non tarlano il silenzio per lui, povero caro.
 
Un tempo lo vedremmo e l'udimmo piangere senza fine: volevamo consolarlo, allora, e mai ci sentimmo così spaventosamente crocefisse. Oggi, oh, oggi è un'altra cosa: dove piange? perché piange?
 
Allora lacrimò desolatamente perché una sua piccola e bianca sorella non veniva, a sera, come per il passato, a farlo men solo... o più solo. Così egli le diceva mentre l'abbracciava. E soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla come il ricordo è simbolo di solitudine e di morte». Rievocavano molte liete fortune e molte tristi vicende, anche, ma non troppo di queste si amareggiavano.
 
Una sera il nostro amico attese inutilmente. Attese fino all'ora delle prime rondini e delle ultime stelle...
Oh, egli ci voleva bene: qualche volta ci parlava a lungo, come in sogno. In sogno parlava. Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo, sospeso al muro. Forse aveva paura.
È una così dolce cosa, la paura, appunto perché è dei fanciulli!
 
Noi non dormiamo; noi siamo le eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio.
 
La casa dev'essere molto vasta. Udiamo a tratti delle voci lontanissime e che pensiamo non vengano dalla piccola piazza. Oh, la finestra, se si spalancasse e facesse entrare un poco di sole, un poco di vento! oh, nulla è simile al cuore perduto come il sole che vuole entrare, e tutti i giorni domanda e tutte le sere, triste e bianco, smuore di rinunzia.
Un convento, una chiesa, un lungo muro basso, interrotto da due piccole porte, la cui soglia allora era sempre verde. La neve restava intatta, davanti a quel muro, un tempo interminabile. Il nostro amico diceva che una porta chiusa è figurazione di gran gioia. Noi siamo semplici, non abbiamo mai comprese queste parole, sarà, forse, perché siamo così sole e così sconsolate, da tanti anni, in questa camera chiusa!
 
Oh, gli occhi aperti smisuratamente nell'ombra terribile, sono così simili a noi! Sanno vedere ma non possono vedere.
 
Per quanto ci disfaceremo nel buio come le stelle dietro le nuvole? Per quanto la nostra cecità apparente, ci vieterà il sole, o, forse anche, un poco di dolce luna?
 
Come tante piccole monache in clausura, noi, povere cose, viviamo e morremo. Pietà! Pietà!
 
Quante rughe ci solcano! Siamo vecchie, oh così vecchie da temere la fine improvvisa. E la polvere che noi pensavamo cipria, ci seppellisce cotidianamente come un becchino troppo scrupoloso.
 
Come ci carezzavano le tende, piene di vento a primavera! Ella doveva carezzare così il nostro amico, doveva farlo morire di spasimo, così. Ora, anch'esse, come le vele di una decrepita barca inservibile, chiusa nel vano di un piccolo porto solitario e triste, pendono flosce e vecchie: oggi una loro carezza ci farebbe pensare alle mani di un agonizzante.
 
Un passo. Una mano tenta la chiave... oh, non spasimiamo: è un bambino, è il solito bambino di tutti i giorni, che passa lungo il corridoio per andare chi sa dove; non spasimiamo, è inutile.
 
 
 

 
 
 
Da Piccolo libro inutile (1906), Roma, tipografia cooperativa operaia romana.
 
 
 

 
 
 
Per organo di Barberia
 
I.
 
Elemosina triste
di vecchie arie sperdute,
vanità di un'offerta
che nessuno raccoglie!
Primavera di foglie
in una via diserta!
Poveri ritornelli
che passano e ripassano
e sono come uccelli
di un cielo musicale!
Ariette d'ospedale
che ci sembra domandino
un'eco in elemosina!
 
II.
 
Vedi: nessuno ascolta.
Sfogli la tua tristezza
monotona davanti
alla piccola casa
provinciale che dorme;
singhiozzi quel tuo brindisi
folle di agonizzanti
una seconda volta,
ritorni su' tuoi pianti
ostinati di povero
fanciullo incontentato,
e nessuno ti ascolta.
 
 
 

 
 
 
Desolazione del povero
poeta sentimentale
 
I.
 
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?
 
II.
 
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
 
Oggi io penso a morire.
 
III.
 
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d'amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
 
IV.
 
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l'aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
 
V.
 
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
 
VI.
 
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
 
VII.
 
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.
 
VIII.
 
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.
 
 
 

 
 
 
Da Libro per la sera della domenica (1906)
Roma, tipografia cooperativa operaia romana.
 
 
 

 
 
 
L'ultimo sogno
 

per Alfredo Tusti

 
Io sono giunto alla città
nel mezzo del bosco.
Batto ala porta, nessuno domanda,
batto a tutte le porte
della città muta; non odo
che fontane cantare
canzoni senza ritornelli
a la Monotonia.
 
Io grido: «non saprò
domani tornare
per la stessa via!
Sono un fanciullo bianco
ed è fiorita per i miei capelli
una ghirlanda!
Le mie piccole mani sono pure
come quelle dei santi di cera;
amo le creature
non so che una povera preghiera».
 
Le fontane cantano sempre
nella città muta dei sogni.
 
Io mi allontano
e la mia veste bianca
se la dividono i rovi,
e la mia ghirlanda s'è mutata
in una corona di spine,
le mie piccole mani sanguinano
senza fine
e l'anima è triste come
li occhi
di un agnello che sia per morire.
 
E le fontane cantano
dietro le bianche porte.
 
Ah! sono io dunque colui
che non dormirà più
che non sognerà più
fino alla morte?
 
 
 

 
 
 
Da Vita letteraria, 28 giugno 1907
 
La morte di Tantalo
 
Noi sedemmo sull'orlo
della fontana nella vigna d'oro.
Sedemmo lacrimosi in silenzio.
Le palpebre della mia dolce amica
si gonfiavano dietro le lagrime
come due vele
dietro una leggera brezza marina.
 
Il nostro dolore non era dolore d'amore
né dolore di nostalgia
né dolore carnale.
Noi morivamo tutti i giorni
cercando una causa divina
il mio dolce bene ed io.
 
Ma quel giorno già vanìa
e la causa della nostra morte
non era stata rinvenuta.
 
E calò la sera su la vigna d'oro
e tanto essa era oscura
che alle nostre anime apparve
una nevicata di stelle.
 
Assaporammo tutta la notte
i meravigliosi grappoli.
 
Bevemmo l'acqua d'oro,
e l'alba ci trovò seduti
sull'orlo della fontana
nella vigna non più d'oro.
 
O dolce mio amore,
confessa al viandante
che non abbiamo saputo morire
negandoci il frutto saporoso
e l'acqua d'oro, come la luna.
 
E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.
 
 
 

 
 
 
Poesie Sparse , S. Corazzini
 
 
 

 
 
Tutta l'anima mia, tutte le pure
 
Tutta l'anima mia, tutte le pure
gioie godute nella giovinezza;
ogni mia più soave tenerezza,
tutte le mie speranze malsecure
 
nelle loro precoci sepolture,
l'eterna immensurabile tristezza
che il mio cuore dissangua ma non spezza
offerte alle mortali creature.
 
Anima, come vano, come vano
l'amor tuo, come triste il disinganno!
 

Sergio Corazzini


Sergio Corazzini: La favola breve d'un povero tenero poeta di Massimo Barile

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