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Maurizio Cucchi

Un articolo di Gianmario Lucini

Maurizio Cucchi: la poesia dell'oltre.
 
 
Maurizio Cucchi è nato a Milano nel 1945, dove vive. Si laurea all'Università Cattolica con una tesi su Nelo Risi e Zanzotto. Per anni opera come consulente editoriale, critico letterario e traduttore (Flaubert, Lamartine Mallarmé, Stendhal, Villiers de l'Isle-Adam, Prévert). Si impone alla critica e al pubblico già con la prima raccolta del 1976 Il Disperso (Mondadori &endash; Nuova edizione in Guanda, 1994), di cui scrive Magrelli: "Lenticolare e concentrica, la forza del "Disperso" rimane a tutt'oggi esemplare, nella sua intatta capacità di tradurre la fibrillazione psichica in parola poetica". Nel 1980 pubblica Le meraviglie dell'acqua (Mondadori) e due anni più tardi il poemetto Glenn, (ed.San Marco dei Giustiniani), è premiato al Viareggio. Pubblica poi Dama del gioco e Poesia della fonte ancora per i tipi di Mondadori, nel 1987 e nel 1993. Nel 1996 ha curato, con Stefano Giovanardi, l'edizione di una antologia dei poeti italiani del secondo Novecento, edita nei "Meridiani" Mondadori. Infine il suo ultimo lavoro, L'ultimo viaggio di Glenn, del marzo 1999.
Ai suoi esordi la poesia di Cucchi si caratterizza, più che per ogni altro poeta italiano contemporaneo, per l'ampiezza e il gusto delle descrizioni, delle enumerazioni di oggetti "impoetici", quella sorta di ciarpame che si sedimenta poco a poco nella vita di ognuno di noi, ingombrando gli spazi nei quali viviamo. Ma egli tratta questo materiale in modo molto particolare, come acutamente osserva ancora il Magrelli: "non si pensi, però, a una semplice assunzione di materiali diversi. Al contrario, oggetti in apparenza assai lontani dal mondo dell'autore vengono qui assorbiti all'interno della sua poetica", rendendoli materiale linguistico indispensabile al suo espressionismo (che è una caratteristica molto "lombarda" della poesia del Cucchi). Come egli stesso ci suggerisce nella prefazione a un manualetto di Mario Santagostini, parlando della poesia: "un'esperienza … non passiva ma vitale, "forte", profonda, spesso anche gratificante: un'esperienza di confronto attivo con la vera parola che parla, in un contesto in cui la parola, invece, è degradata, inflazionata, diviene sempre più superficiale e oggetto destinato all'immediatezza del consumo". Questo enumerare scarabattole, monconi di cose superstiti al tempo, si trasforma dunque per il Cucchi in un impegno "etico" della poesia per sottrarsi alla parola consumata e lisa della massmedialità. Ed egli lo fa con ardore e con reattività, sottraendo il verso alla banalità e paradossalmente usando le parole più usuali e i nomi degli oggetti, per costruire versi. A me pare che questa operazione degli esordi, oltre che nuova nella poesia degli anni '70, sia stata anche lucida e intelligente. D'altra parte è nota la sua critica alla poesia di quel decennio (nella rivista L'ozio letterario, n. 7), che denuncia la "nuova ondata degli scriventi versi" che non leggono più nulla (e di conseguenza non sanno più scrivere), come se il rifiuto della tradizione - il gigante Montale gettava allora e oggi ancora la sua ombra - e della modernità che ormai è tradizione, bastasse di per sé stesso a consacrare la scrittura come arte. Cucchi invece, pur nella sua evidente modernità e dunque "diversità" dalla tradizione, tiene con la essa il rapporto stretto del conoscitore e appassionato studioso. Con in suoi cocci, i suoi oggetti trovati in fondo ai cassetti o interrogati nel greve silenzio d'una stanza vuota, i suoi paesaggi urbani e consumati, Cucchi costruisce una trama, quasi un poemetto o una serie di poemetti frantumati, schizzi d'album. In questa scrittura, come nota il Manacorda, "si rivela una più geniale e disperata e miserabile concezione del vivere, di sottintesi, una vita come "magone" che non si riesce a smaltire e che va consumando con amara commozione o con simulata disinvoltura".
La poesia di Cucchi ha dunque anche, nella sua prima opera, una forte connotazione etica. Il poeta imbastisce una narrazione, una trama che cerca di irretire frammenti di vita vissuta e nello stesso tempo trasfigurata da una trance un po' delirante, caratterizzata da un linguaggio frantumato, ossessivo, che si muove nello spazio e nel tempo senza regole pur narrando, per certi versi, in spazio e tempo cronologico identificabili. Racconta la vita come esperienza dell'assurdo sovrastata dalla morte e dalla violenza, calandosi nella mentalità del piccolo borghese milanese che ha perduto i nessi con l'esistere e il senso dell'essere. L'ossessione di questo personaggio è la morte, imprevedibile, e sempre scioccante ("Dimmi tu se è possibile. Pochi giorni fa / era lì che faceva i suoi lavori. Pareva pacifico"): Per capire la morte infatti, occorre vivere nella dimensione della morte, accoglierla, farla propria in qualche modo (lo stesso tema di Turoldo, rovesciato ed espresso con una mentalità postmoderna). Nel suo linguaggio ai confini col parlato milanese (Cucchi si avvicinerà, in alcune raccolte successive, anche al dialetto) il nostro personaggio, che assume di poesia in poesia vesti diverse (quasi a sottolineare la matrice comune della spersonalizzazione di un immaginario Io, che è collettivo anche se singolarmente narrante) espone a frammenti e graffiti le sue angosce: la paura ossessiva del sangue ("E poi / la ferita, lo zampillo, l'incerottamento. Mi spiace confessarlo / ma per fortuna che non c'ero"; o ancora "Colta la mira: giusto / giusto a perpendicolo nella pupilla / dell'occhio destro. Sangue. Inevitabile / lo svenimento"); le sue paranoie in un mondo che non gli è più solidale né comprensibile ("Ma io non c'entro, / io non ho fatto niente… l'infarto… lo sa bene… " / E mi toccavo i bottoni della giacca"; e "ma guarda tu quei due che sguardi… adesso si avvicinano… mi pestano… / mi lasciano svenuto sulla strada, a pezzi, sanguinante…); l'ossessione di rimanere a contatto vivo con le cose, quasi avaro delle cose, per surrogare il vuoto dell'inesistenza, come nel poemetto Le briciole nel taschino. Qua e là il poeta dà voce a figure di una sotterranea pena metropolitana, volti ogni giorno incontrati e frammenti che vanno a colpire l'immaginario ma di cui l'immaginario cerca di disfarsene con disgusto E proprio questo rimosso collettivo viene dal Cucchi sciorinato con cattiveria e puntiglio, in una sorta di denuncia che rinfaccia alla sua Milano questo abbandonarsi al tempo industriale e postmoderno che l'abbruttisce, in balia dei suoi riti meccanici e delle sue nevrosi ossessive che distolgono la persona da una consapevolezza e da una solidarietà originaria con la sua umanità e con la sua spiritualità. E dunque ne Il Disperso, il poeta svolge a suo modo un mito del postmoderno, racconta un paradigma, una vicenda originaria di distacco sempre più netto e irreparabile da un qualcosa di cui si sono perdute anche le tracce, un positivo o una età dell'oro che sarebbero antitetici a questa negatività dei personaggi. Riflettendo su questo tema, possiamo facilmente constatare come esso si avvicini a quel filone filosofico che percorre tutto il novecento da Nietzsche in poi, e che dà voce all'angoscia di una umanità senza più idee forti e che, terrorizzata da questa prospettiva, non fa altro che evocare presenze surrettizie, feticci, amuleti, talismani reali e metaforici, per vivere alla giornata. La morte diventa quindi qualcosa di cui disfarsi, un pensiero da non pensare o addirittura impensabile, un'idea che viene sempre rimandata perché incomprensibile, qualcosa sempre di altri e senza nesso con la propria vita.
Nelle opere più recenti invece lo stile di Cucchi si fa più limpido e diretto; il lessico dimesso compare poche volte e cede il passo ad una lingua che cerca una dimensione morbida e luminosa, un ritmo che assecondi un respiro più calmo e pacato; i contenuti si arricchiscono di sentimenti meno concitati e più positivi. Ma è sempre una poesia vissuta, che nasce dall'esperienza diretta e sempre all'ombra dei temi iniziali, a cui il poeta rimane fedele.
Cucchi svolge nelle sue raccolte successive il tema del senso collocandolo come cornice generale entro la quale svolge le sue composizioni. Per certi aspetti, non esiste quasi verso di Cucchi che sia leggibile a prescindere da questa particolare sensibilità, che è squisitamente religiosa (pur non volendo connotare questo termine di alcun significato dottrinario o dogmatico, anche se il tema di La luce del distacco, è squisitamente religioso &endash; la pazzia trasfigurata nella santità di Giovanna D'Arco e la santità trasfigurata nella pazzia di una ricoverata in un ospedale psichiatrico). Lo sguardo di Cucchi trascende sempre la dimensione di ciò che racconta, proiettandosi verso un "oltre" - come nei buchi, nei tagli o nei globi di Fontana, o come nella speculazione dei mistici medioevali.
Nella sua opera recente, L'ultimo viaggio di Glenn, questi temi sono elaborati in modo più raffinato e peraltro asciutto. La dissoluzione della materia viene rappresentata in alcune poesie come dissoluzione dell'essere stesso (tema della morte), e a nulla vale il segno, l'incidere, l'affidare a un testimonianza qualsiasi il ricordo del proprio passaggio nel mondo e della propria provvisorietà: nel libro spira un forte vento, un turbine nel quale il lettore viene preso a vortice, una vacuità nella quale egli viene proiettato e che ha l'inquieto di una domanda ineludibile. L'unico sbocco surrettizio è un qualcosa che assomiglia alla memoria foscoliana, un abbandonarsi al ricordo degli altri, e un ricordare quelli che ci precedettero, come modo per espandere il proprio essere nel tempo, sì che possa raggiungere una infinità teorica, o piuttosto una inestinguibilità. Un uomo dunque che sopravvive a se stesso soltanto come segno o come parola, finché i segni di lui sopravviveranno alla disgregazione generale ad opera del tempo: tale è la inconsistenza dell'esserci, che può essere superata soltanto nella relazione e nella solidarietà profonda con gli altri esseri umani: allora sì che questo segno che l'essere lascia di sé, questa sua memoria, trova una incarnazione che lo porta a rivivere in ripercussioni infinite, fin a quando tempo non sia dato.
Anche il linguaggio appare radicalmente mutato, in senso evolutivo. A parte la nitidezza dello stile e l'invidiabile precisione del lessico, Cucchi fa uso di frequenti ermetismi, ambienti e descrizioni di difficile collocazione, personaggi non ben identificati o volutamente appena tratteggiati, ma sempre in una tensione evocativa di spiritualità (fortissima nella doppia identità di Giovanna D'Arco), di emozioni e sensazioni affidate a una dimensione più onirica e immediata, che a volte si trasforma in dubbio d'esistenza, terrore di allucinazione, oscillazione fra disperazione e speranza. Persino nella formulazione sintattica, certe frasi presentano una stupefacente ambiguità e doppi-sensi: possono avere più di un soggetto, o certi termini possono concordare in modo difforme con altri termini a loro volta in opposizione. I pensieri, appena accennati e pur incisivi, permangono nella mente come sorta di graffiti esposti all'inclemenza del tempo, dilavati dalla pioggia, crepati dal sole. Ed è questo materiale che vaga nel nostro inconscio, frutto della nostra non ascoltata intuizione e del nostro rimosso, che il poeta recupera, costruendo versi che hanno una densità e un vigore espressivo di grande effetto.
Infine una nota va spesa per la prosodia di questo poeta, così ricco di musicalità, di ritmo, di allitterazioni, rime interne, una fonoprosodia capace di evocare ambientazioni e sonorità che fanno da sfondo e sostegno sonoro a un parlato che unisce il rigore del lessico alla freschezza dell'ispirazione, così che la forma stessa sembra uscita dalla penna di getto, senza quasi riflettere, come sovrappensiero.
 
Bibliografia:
 
Il Disperso, Guanda, 1994 (Mondadori, 1976)
Le meraviglie dell'acqua (Mondadori, 1980)
Glenn, (San Marco dei Giustiniani, 1982 &endash; premio Viareggio)
Il Figurante &endash; antologia 1971-1985, (Sansoni, 1985 )
Donna del gioco (Montadori, 1987)
La luce del distacco (Crocetti, 1990)
Poesia della fonte (Mondadori, 1993 &endash; Premio Montale)
L'ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999)
Per leggere alcune poesie

 

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Agg. 28 maggio 1999