LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

I grandi scrittori del Novecento: Italo Calvino, dalla fertilità fantastica alla
narrativa combinatoria

a cura di Massimo Barile


Ricordo ancora la mia prima lettura di Italo Calvino: Marcovaldo ovvero Le stagioni in città pubblicato da Einaudi nel 1963, prezzo di copertina lire duemila. A quel tempo non avevo ancora dieci anni ma rimasi affascinato ed incuriosito da quel personaggio buffo e melanconico che si ostinava ad andare in cerca della natura in mezzo ad una città fatta di cemento e di asfalto. In quelle favole moderne già intuivo, ancora ragazzino, lo scrittore capace di fermare su un suo personalissimo diario gli avvenimenti quasi impercettibili della vita di una città industriale, ed io abitavo a Milano che ne era il miglior esempio, dove anche la natura era contraffatta, artificiale, ormai compromessa. In quel libro, ogni ragazzo ed anche il lettore che non lo era più, vi trovavano il divertimento pungente spesso presente in Calvino ma, oltre alle divagazioni comico poetiche sulla lotta per la vita, quelle venti favole di Marcovaldo riuscivano a fotografare la realtà assai più complessa attraverso una satira del miracolo economico e della civiltà dei consumi. La forza e l'intelligenza dello scrittore riuscivano a far rimanere quelle favole moderne assai fedeli alla classica struttura narrativa dedicata ai ragazzi con le storielle e le vignette tipiche dei giornalini e quel Bonaventura all'incontrario che prendeva il nome di Marcovaldo non poteva che essere fissato per sempre dalle illustrazioni dell'impareggiabile Sergio Tofano, il grande Sto, creatore appunto del famoso signor Bonaventura.
Vengono alla mente alcune storielle come quella dei Funghi in città nati per caso sulla striscia d'aiola d'un corso cittadino dove il manovale Marcovaldo prendeva il tram ogni mattina ma "fortunatamente" erano in tanti a vigilare su quei funghi spuntati proprio nel cuore della città compreso lo spazzino "antipatico" Amadigi: la lavanda gastrica li salverà dall'avvelenamento grazie alla minima quantità mangiata e si ritroveranno vicini di letto all'ospedale a guardarsi in cagnesco. E poi la storiella del coniglio velenoso: un bel coniglio bianco affetto da una grave malattia che solo per caso non finisce nella pentola dell'affamata famiglia di Marcovaldo o ancora il raccontino La città tutta per lui perché nel mese di agosto tutti andavano in vacanza tranne Marcovaldo che riusciva a guardare la città con occhi diversi, osservava aspetti interessanti, godeva dei suoi colori, rivedeva gli animali, camminava in mezzo alla strada ma ad un tratto ecco una surreale intervista televisiva in qualità di "unico abitante rimasto in città il giorno di ferragosto" e poi via in caotiche riprese con tuffo nella fontana di una stella del cinema: la città di tutti i giorni riprendeva il posto dell'altra città deserta e riscoperta solo per un momento o forse "soltanto sognata".
Così scriveva Calvino: «Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita cittadina: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l'attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse in una tegola, non gli sfuggivano mai: non c'era tafano sul dorso d'un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e la miseria della sua esistenza...».
Quasi a fare da trait d'union con le parole messe in bocca, solo pochi anni prima, al famoso Barone rampante: «Ogni cosa a farla ragionando aumenta il suo potere».
È inutile dire che con il passare degli anni ho letto molto dello scrittore che ha segnato un momento importante ed estremamente originale della narrativa italiana ed europea del secondo Novecento. Italo Calvino ha attraversato le esperienze culturali di mezzo secolo e con uno sguardo acuto ne ha indicato le oscillazioni, i paradossi, le lacune. Ha cercato di rappresentare le incertezze, le contraddizioni, gli impulsi dell'intellettuale contemporaneo. In un saggio critico sul Menabò nel '62 scrive: «Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento migliore per trovare una via d'uscita , anche se questa via d'uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all'altro. È la sfida al labirinto... vogliamo una letteratura della sfida al labirinto ... vogliamo dalla letteratura un'immagine cosmica...». E così scriverà Carlo Salinari a proposito de La giornata di uno scrutatore: «Calvino lancia la sfida al labirinto... descrivendoci il labirinto in cui egli si muove, il groviglio dei problemi a cui non sa dare una risposta sicura, ma anche la sua volontà di non adagiarsi nel labirinto, di continuare a pensare e a lottare per uscirne».

 
Durante la seconda guerra mondiale Italo Calvino partecipa alla Resistenza combattendo sulle Alpi Marittime e in quel periodo inizia a dare forma con estrema attenzione alle numerose invenzioni della propria narrativa: dal suo esordio con Il sentiero dei nidi di ragno del 1947, romanzo definito neorealista sulle storie dei partigiani dove invece la guerra e le vicende dolorose sono rivissute come una favola naturale: muove dalla realtà ma la assume immediatamente in una dimensione favolosa. I fatti, gli uomini, i sentimenti sono visti attraverso gli occhi di un ragazzo ora incantati ora più smaliziati. Un ragazzo di strada costretto a convivere con la violenza di un mondo crudele e che, per essere accettato nel mondo degli adulti, arriverà a fare l'eroe rubando una pistola ad un soldato tedesco mentre si intrattiene con sua sorella che fa la prostituta. Scoprirà ben presto il tradimento di un suo falso amico che, oltre a rubargli la pistola, distruggerà il sentiero dei nidi di ragno che era per lui una sorta di paradiso. Una visione lirico fantastica, "l'incantesimo ritrovato nella realtà da una intelligenza senza timori" che si scontra con la caduta di ogni illusione. In seguito scriverà Calvino di questa sua opera: «È un libro nato anonimamente dal clima generale di un'epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva dopo la fine della seconda guerra mondiale».
A guerra finita si trasferisce a Torino dove si laurea in Lettere e collabora con la casa editrice Einaudi: conosce Cesare Pavese, Elio Vittorini, Natalia Ginzburg e partecipa al dibattito culturale. E poi la condirezione con Vittorini della rivista Menabò, i numerosi saggi e gli articoli che si inseriscono nell'ambito del movimento del pensiero contemporaneo grazie ad una indipendenza ed onestà intellettuale mai messe in discussione, gli interventi politici in forma allegorica sempre tesi ad alimentare un confronto sulla funzione e sulla moralità della letteratura.
Si stabilirà poi a Roma dove la sua partecipazione attiva al confronto politico e culturale che si svolge dalla metà degli anni Quaranta agli anni Ottanta, lo porterà ad acute prese di posizione sui problemi e sulle prospettive della narrativa e sulla posizione dell'intellettuale nella società con interventi su diversi periodici.
Dopo i racconti de Ultimo viene il corvo del '49 nei quali ritroviamo ancora il tema della guerra e della Resistenza: ecco che Calvino abbandonerà il richiamo diretto alla storia e inizierà a riflettere sui problemi del nostro tempo attraverso lucide favole di "sapore illuministico": nascerà la trilogia de Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959) che saranno raccolti poi nel volume I nostri Antenati.
Scrivendo storie completamente fantastiche c'era quella spinta ad esprimere la sofferenza di un particolare momento storico, quello della guerra fredda e della tensione, ma anche la voglia di uscirne, di andare oltre una realtà vista come negativa. «C'erano delle immagini che mi giravano per la testa, nate chissà come... da un po' di tempo pensavo ad un uomo tagliato in due per il lungo, e che ognuna delle due parti andava per conto suo ... un colpo di scimitarra, no: meglio un colpo di cannone così si sarebbe creduto che una metà era andata distrutta, invece poi saltava fuori». L'uomo contemporaneo "dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso" rappresentato dal visconte Medardo di Terralba e dagli altri personaggi che fanno da contorno alla narrazione. Le due metà di Medardo, le due contrapposte immagini di disumanità: la metà così cattiva e infelice con quel senso di pietà e la metà buona così compunta con quel velo di sarcasmo: il vero tema narrativo era «una persona che si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze perché senza di questa non sarebbe se stesso».
Anche ne Il barone rampante scritto tra il '56 e il '57 ritroviamo gli stessi temi narrativi pur se il romanzo nasce in un periodo di ripensamento, dove nuove speranze e nuove amarezze si alternano alla ricerca di un rapporto tra la coscienza individuale e il corso della storia. Anche quest'opera nasce da un'immagine che gira e rigira per la mente dello scrittore: un ragazzo che sale su un albero e, di albero in albero, viaggia per giorni e giorni e non torna più giù, rifiutandosi di scendere a terra e passando sugli alberi tutta la vita. Un personaggio che rifiuta di camminare per terra come gli altri, continuamente dedito al bene del prossimo e che vuole partecipare ad ogni aspetto della vita attiva. La consapevolezza che per essere con gli altri veramente, la sola via era «d'essere separato dagli altri, imporre a sé e agli altri quella sua incomoda singolarità e solitudine in ogni momento della sua vita così come è vocazione del poeta, dell'esploratore, del rivoluzionario».
L' "uomo completo", che ne Il visconte dimezzato non era ancora stato disegnato chiaramente, ora si identificava con l'uomo che realizza una sua pienezza sottomettendosi ad una disciplina volontaria e ancor più lo scrittore iniziava ad immedesimarsi ed identificarsi nel barone Cosimo di Rondò «cercando un'epoca passata per situarvi la storia... mi ero lasciato catturare dal fascino del Settecento e del periodo di rivolgimenti tra quel secolo e il seguente» ed ecco che la vicenda si configurava con "connotati culturali ben precisi" diversificandosi dal racconto fuori dal tempo del Visconte dimezzato con quell'intreccio di favoletta per bambini dallo scenario e dai personaggi appena accennati. Nasceva in Calvino l'attrazione per una scrittura composta da immagini settecentesche, con date e correlazioni con avvenimenti e personaggi famosi, sullo sfondo un paesaggio che seppur immaginario era descritto con precisione quasi a «preoccuparsi di rendere verosimile perfino l'irrealtà della trovata iniziale». «Insomma, avevo finito per prendere gusto al romanzo, nel senso più tradizionale della parola». Ma il barone poteva essere considerato come un eccentrico che cercava di dare un significato universale alla sua eccentricità ed è per questo che Il barone rampante non esauriva il problema perché «il problema dell'uomo odierno non era più nella perdita d'una parte di se stessi ma della perdita totale, del non esserci per nulla».
L'uomo che non ha più rapporto con ciò che gli sta intorno, l'uomo inesistente che mano a mano si identificava con l'immagine di un'armatura che cammina e dentro è vuota de Il cavaliere inesistente del '59. Questa volta l'epoca storica è quella dei paladini di Carlo Magno e il cavaliere Agilulfo è il guerriero che non esiste, l'"inesistenza munita di volontà e coscienza", e lo scudiero Gurdulù il suo contrapposto "l'esistenza priva di coscienza" ma era necessaria una figura dove l'essere e in non essere lottassero all'interno della stessa persona ed il giovane paladino Rambaldo poteva incarnare colui che cerca le prove dell'essere.
Gli ingredienti con altre aggiunte inevitabili erano pronti per essere immessi in un racconto che doveva rappresentare un divertimento per l'ipotetico lettore: la fatica dello scrittore nel raccontare con distacco fu risolta con il personaggio della monaca scrivana come se fosse lei a narrare. Nella prefazione Calvino scriverà: «Siete padroni d'interpretare come volete queste tre storie... Ho voluto farne una trilogia d'esperienze sul come realizzarsi esseri umani: nel Cavaliere inesistente la conquista dell'essere, nel Visconte dimezzato l'aspirazione ad una completezza al di là delle mutilazioni imposte dalla società, nel Barone rampante una via verso una completezza non individualistica da raggiungere attraverso la fedeltà ad un'autodeterminazione individuale: insomma tre gradi d'approccio alla libertà. Tre storie che dovevano "stare in piedi come storie" con le loro immagini, con il "gioco delle interrogazioni e delle risposte" suscitate nel lettore: una sorta di "albero genealogico degli antenati dell'uomo contemporaneo».
I tre famosi racconti fanno sicuramente parte di una narrativa fantastico favolistica ma contengono riferimenti storici e significati morali: v'è dentro l'uomo contemporaneo: "diviso e irrecuperabile in un mondo di due verità" nel visconte dimezzato; "costretto a simulare l'evasione nella natura e nell'avventura" nel barone rampante; "ridotto a pura finzione esistenziale" nel cavaliere inesistente.
 
Grande rilievo assume anche il profondo impegno di Calvino come raccoglitore e riscrittore di fiabe italiane che è degno di essere posto a caposaldo dell'indagine sullo scrittore: questa sua tensione a riportare alla luce e a seguire le tracce di altre letture trova la sua espressione nella raccolta delle Fiabe italiane del 1956. Per due anni Calvino lavorerà intensamente per raccogliere la tradizione fiabesca sparsa nelle regioni italiane e vi si dedicherà con entusiasmo fino a dire, subito dopo aver ultimato l'imponente raccolta: Le fiabe sono vere. La preminenza e l'importanza assegnata al tema della fiaba, seppur con una personale riscrittura, offre la piena e fedele immagine di uno scrittore depurato da ogni "connotato negativo" di eccessivo intellettualismo anzi amplifica la travolgente passione di Calvino per la letteratura e rimane per sempre a sigillo della sua forza lirico fantastica: «Le fiabe sono una spiegazione generale della vita, nate in tempi remoti e serbate nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna».
 
Dalla radice allegorico-favolosa passerà a racconti allegorico-satirico-realistici con una narrativa d'impegno sociale come in Una nuvola di smog e ne La speculazione edilizia del 1957 con la condanna della brama di denaro nell'uomo odierno e la distruzione della natura tema poi ripreso nel Marcovaldo con forme favolistiche. Ancor più accentuato sarà l'impegno civile con La giornata di uno scrutatore, 1963 in cui uno scrutatore finito nelle elezioni in un seggio del Cottolengo di Torino sente venir meno la sua fede progressista davanti all'umanità degradata di quel posto e scopre in sé la grande forza dell'amore verso gli altri esseri umani, chiunque essi siano.
Ad un certo punto, non ancora sazio, si volgerà alla fantascienza con Le cosmicomiche del 1965 dove si proietta nella preistoria nel tempo della formazione dell'Universo e inventa un misterioso fumettistico personaggio Qfwfq al quale è affidato il compito di registrare le impressioni su una realtà tanto diversa da quella attuale. Nei racconti di Ti con zero del 1967 si accentua ancora di più il linguaggio matematico scientifico e ritroviamo un mondo di segni nel quale non c'è posto per l'uomo: «...non c'è nessun futuro, non c'è niente che ci aspetta, siamo chiusi tra gli ingranaggi di una memoria che non prevede altro lavoro che ricordare se stesso... Viviamo prigionieri nell'immobilità ridotti ad una comunicazione primordiale ed essenziale fatta solo di segnali luminosi».
 
Ma Calvino torna all'uomo con Le città invisibili del 1972 dove Marco Polo riferisce al gran Kan Kublai sulle città dell'impero da lui visitate. Viste da uno straniero le città, che hanno tutte nomi di donne, acquistano agli occhi del gran Kan la parvenza di città inesistenti e scoprirà il motivo di tale sensazione: perché Marco Polo ne parla facendo costante riferimento alla sua Venezia, la città lontana e sempre amata. Quasi a voler tener vivo il suo ricordo immetterà in ogni resoconto un frammento che le ricorda Venezia. Il finale è suggestivo: «noi viviamo già nell'inferno ma anche in esso si possono trovare spazi di vita accettabile».
Vedremo più avanti l'importanza che rivestono le "città invisibili" di Calvino.
Nel ripercorrere l'esperienza narrativa di Calvino ci si rende conto che soprattutto quando inizia a scrivere storie fantastiche non si pone ancora problemi teorici sull'idea d'immaginazione, come farà in seguito, ma l'unica certezza è l'immagine visuale che sta alla base di ogni suo racconto. Come nella famosa trilogia: l'uomo tagliato,da una cannonata, in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un ragazzo che s'arrampica su un albero e poi passa da un albero all'altro senza più scendere a terra; un'armatura vuota che si muove e parla come ci fosse dentro qualcuno.
L'idea del racconto parte da una immagine con i suoi significati che si affaccia all'orizzonte e appena assume una sua consistenza viene sviluppata in una storia. Nascono poi altre immagini che formano analogie ed allora si deve dare un senso compiuto alla storia. «Dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che assume sempre più importanza: prima come ricerca d'un equivalente dell'immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell'impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Il racconto è per me unificazione d'una logica spontanea delle immagini e di un disegno condotto secondo un'intenzione razionale». Fin dagli inizi il suo lavoro di scrittore ha sempre teso ad inseguire il "fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo". Quella sua predisposizione e predilezione per l'avventura e la fiaba non erano altro che una ricerca d'una energia interiore, d'un movimento della mente.
 
Lo spiritus phantasticus secondo Giordano Bruno era «un mondo o un golfo, mai saturabile, di forme e d'immagini» e Calvino credeva fermamente che attingere a questo golfo della molteplicità potenziale fosse indispensabile per ogni forma di conoscenza. «La mente del poeta funziona secondo un procedimento d'associazioni d'immagini che è il sistema più veloce di collegare e scegliere tra le infinite forme del possibile e dell'impossibile. La fantasia è una specie di macchina elettronica che tiene conto di tutte le combinazioni possibili e sceglie quelle che rispondono ad un fine, o che semplicemente sono le più interessanti, piacevoli, divertenti».
In una società bombardata da una quantità d'immagini tale da anestetizzare anche il cervello più attivo qual è la sorte dell'immaginazione individuale? In un mondo dove «la memoria è ricoperta da strati di frantumi d'immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo» è ancora possibile una via di fuga dal diluvio delle immagini prefabbricate per salvare il potere individuale di evocare immagini?
Il pericolo avvertito da Calvino è la perdita di questa facoltà umana: «Il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme» su una pagina bianca d'un libro, in sintesi, di "pensare per immagini".
L'esperienza della formazione di Calvino è già quella d'un figlio di un'epoca intermedia che anticipa l'inflazione della civiltà delle immagini: «Il mio mondo immaginario è stato influenzato dalle figure del Corriere dei Piccoli degli anni Venti, allora il più diffuso settimanale italiano per bambini. Parlo di una parte della mia vita che va dai tre anni ai tredici, prima che la passione per il cinema diventasse per me una possessione assoluta che durò per tutta l'adolescenza. Anzi, credo che il periodo decisivo sia stato tra i tre e i sei anni, prima che io imparassi a leggere». A quel tempo il Corriere dei Piccoli ridisegnava i cartoons americani senza le famose nuvolette che venivano sostituite con delle frasi sotto ogni cartoon ma per un ragazzino che non sapeva ancora leggere bastavano le figure.
La madre aveva cominciato a comprare, a collezionare e a rilegare le annate di questo giornalino già prima della nascita del figlio. «Passavo le ore percorrendo i cartoons d'ogni serie da un numero all'altro, mi raccontavo mentalmente le storie interpretando le scene in diversi modi, producevo delle varianti, fondevo i singoli episodi in una storia più ampia, scoprivo e isolavo e collegavo delle costanti in ogni serie, contaminavo una serie con l'altra, immaginavo nuove serie in cui i personaggi secondari diventavano protagonisti. L'occupazione favorita era fantasticare dentro le figure e nella loro successione: quest'abitudine è stata senza dubbio una scuola di fabulazione, di stilizzazione».
La stessa operazione, compiuta molti anni dopo, di ricavare delle storie dalla successione delle misteriose figure dei tarocchi, interpretando la stessa figura ogni volta in maniera diversa, ha le sue radici in quel farneticare infantile sulle pagine piene di figure. Quella sorta di "iconologia fantastica" de Il Castello dei destini incrociati con quell'idea di adoperare i tarocchi come una "macchina narrativa combinatoria" era nata dopo che Calvino s'era posto a guardare i tarocchi con attenzione, con l'occhio di chi non sa cosa siano (come con le figure del Corriere), ed ecco che ne nascevano le identiche suggestioni, associazioni ed interpretazioni secondo appunto un'iconologia immaginaria. Aveva iniziato con i tarocchi di Marsiglia (non molto diversi dai tarocchi ancora in uso in gran parte d'Italia come carte da gioco): cercava di disporli per creare una serie di scene che avessero l'idea di un racconto. Quando le carte affiancate a caso offrivano una storia che poteva avere un senso era il momento di scriverla e tante ne scrisse. La Taverna dei destini incrociati (la seconda parte del libro) è stata scritta in questa fase. Ma mancava un ordine alla pluralità dei racconti perché venivano soventemente cambiate le regole, le strutture e le soluzioni narrative e aumentava il numero delle carte che si impossessavano di altre storie alle quali non voleva rinunciare.
Quando l'editore Franco Maria Ricci invitò Calvino a scrivere un testo per il volume sui tarocchi viscontei (miniati da Bonifacio Bembo per i duchi di Milano verso la metà del XV secolo) lo scrittore si rese conto che il mondo delle miniature quattrocentesche era completamente diverso da quello delle popolari marsigliesi. In questo caso costruì il quadrato magico intorno al quale prendevano forma le altre storie ed in breve tempo il testo era completato. Ma con i tarocchi popolari marsigliesi era un altro discorso. L'operazione risultava assai ardua: di certo v'erano solo alcune storie che le stesse carte avevano imposto per prime quasi ad attribuirle significati più profondi ed erano già scritte ma non esisteva ancora uno schema unitario anzi più lo scrittore studiava possibili soluzioni più si perdeva dentro quei racconti incrociati.
«Così passavo il giorno a scomporre e ricomporre il mio puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi, a quadrato, a rombo, a stella, ma sempre c'erano carte essenziali che restavano fuori e carte superflue che finivano in mezzo...». Iniziava ad imporsi l'idea che il gioco aveva un senso compiuto solo se soggiaceva a "regole certe": non era possibile continuare a scrivere e riscrivere le storie e le figure misteriose sembravano formare un labirinto.
«Passava qualche mese senza che ci pensassi più e tutt'a un tratto mi balenava l'idea che potevo ritentare in un altro modo, più semplice... Ricominciavo a comporre schemi, a correggerli, a complicarli: m'impelagavo di nuovo in queste sabbie mobili, mi chiudevo in una ossessione maniaca. Certe notti mi svegliavo per correre a segnare una correzione decisiva, che poi portava con sé una catena interminabile di spostamenti. Altre notti mi coricavo col sollievo d'aver trovato la formula perfetta; e al mattino appena alzato la strappavo».
Alla fine ecco lo schema generale de La Taverna dei destini incrociati: un quadrato con settantotto carte nel quale alcune carte si presentano in tutti i racconti. La pubblicazione di questo complesso e faticoso lavoro fu vista come una sorta di liberazione perché quella "assidua frequentazione del repertorio iconografico medieval-rinascimentale" aveva prodotto ormai una sorta di fastidio nello scrittore: il volume doveva contenere anche un terzo testo Il motel dei destini incrociati dove alcuni sopravvissuti ad una catastrofe misteriosa trovavano rifugio appunto in un motel distrutto dove era rimasto solo un foglio di giornale mezzo bruciacchiato: la pagina dei fumetti. Ormai ammutoliti dallo spavento i personaggi raccontavano le loro storie passando da una strip all'altra. Tutto rimarrà solo un semplice abbozzo di un'idea perché questo tipo d'esperimenti aveva esaurito la sua funzione creatrice. Calvino scriverà: «Era tempo di passare ad altro».
 
In Calvino la limpida istanza fantastica si è sempre collegata ad un profondo impegno letterario che, nel corso della sua esperienza, come abbiamo visto si è modificato e focalizzato su varie tematiche: dai primi racconti sulla storia partigiana, alla trilogia fantastico favolistica degli antenati dell'uomo contemporaneo, ai racconti di impegno sociale, alla favola che diventa allegoria o apologo e più tardi si avvicinerà all'esplorazione fantascientifica delle cosmicomiche, al linguaggio matematico scientifico, al "realismo araldico" delle favole didascaliche del Castello dei destini incrociati collegandosi alle avanguardie letterarie.
Il suo sguardo infatti non è mai chiuso o limitato ideologicamente ma si rivolge sempre alla storia nel suo divenire: e la storia non conosce steccati perché invade e contamina ogni ristretto campo ideologico. In Calvino "l'arte diviene conoscenza ed informazione", momento della ragione dialettica senza rinunciare alle istanze fantastiche: la fantasia come stimolante della ragione. La sua stessa disposizione naturale alla favola non offre spazi al moralismo ma assume una moralità globale ed universale con quella forza affabulante della vita nella sua molteplicità: "il gioco fantastico si stempera in una più ampia allegoria esistenziale".
 
La peculiarità saliente di Italo Calvino è stata quindi la capacità di utilizzare molteplici tematiche e di usare una varietà di forme anche se, a ben guardare, fanno tutte riferimento ad una visione fantastica sempre accompagnata da una profonda cultura e da una chiarezza intellettuale.
L'intelligenza di Italo Calvino come scrittore fantastico, come affabulatore, come critico e saggista, come favolista e ricercatore di fiabe italiane, come lettore attento dal De rerum natura di Lucrezio a El jardin de los senderos que se bifurcan di Jorge Luis Borges: nel suo mestiere di narratore lirico-metafisico-allegorico-ironico-fantastico sempre capace di creare ogni volta qualcosa di nuovo senza porsi dei limiti, distaccato da una certa narrativa italiana sempre uguale a se stessa, mai assecondando le mode e raccontando sempre ciò che più lo aveva interessato e coinvolto.
Il lavoro complesso di Calvino può essere posto come simbolo della narrativa contemporanea e non è un caso che qualche anno fa si siano raccolti in volume alcuni dei più interessanti saggi critici sulla sua opera dai quali emerge la forza narrativa dello scrittore e la sua dimensione di intellettuale moderno.
Ci si interroga con frequenza sulla sorte della letteratura e del libro nell'era tecnologica ed è interessante riportare l'opinione offerta dallo scrittore: «La mia fiducia nella letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici».
 
Italo Calvino ha esplorato molte vie e compiuto diversi esperimenti letterari ma è stato sempre uno scrittore attento alle trasformazioni del nostro tempo, un intellettuale attivamente presente con scritti di carattere teorico nel fecondo dibattito culturale, un narratore capace di unire il fantastico ed una analisi razionale della realtà. Con il rigore intellettuale che lo contraddistingue cerca sempre di indagare la realtà sia nei suoi aspetti quotidiani e più semplici e sia nelle molteplici implicazioni a carattere universale. La sua opera con quella peculiare molteplicità di temi e di forme è lì a testimoniare il suo costante impegno conoscitivo e la sua costante ricerca di un «ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine».
 
Ecco via via che nella sua narrativa in un dato momento un certo numero di elementi si combinano dando vita ad una serie di situazioni e vicende collegate tra loro: ne Il castello dei destini incrociati abbiamo le figure dei tarocchi, in Se una notte d'inverno un viaggiatore sono i capitoli di un libro con i relativi lettori, ne Le città invisibili infine sono le città dell'impero di Kublai Kan. Una narrativa combinatoria fatta di testi brevi dove Calvino riesce a realizzarsi al meglio: infatti la sua opera è composta in gran parte di brevi storie "short stories" come nelle Cosmicomiche e Ti con zero e in alcuni casi giungendo all'apologo come ne Le città invisibili.
E proprio in questo libro, uno dei più meditati, Calvino lascia spazio ad ogni direzione, ad ogni possibile scomposizione e ricomposizione di questo catalogo di ipotetiche città che sembrano "emblemi": «Forse più che le parole è stata la suggestione degli emblemi ad attrarmi... ho sempre preferito gli emblemi che mettono insieme figure incongrue ed enigmatiche come rebus».
Le città invisibili non è altro che un resoconto dei viaggi attraverso le città dell'impero dove ogni città ha un nome di donna: ecco allora prendere vita Diomira con le sue sessanta cupole d'argento, Dorotea con le quattro torri d'alluminio, Fedora metropoli di pietra grigia, Anastasia con i suoi canali concentrici, Eufemia la città commerciale, Olivia la città dei prodotti di ogni genere e dei guadagni, Leonia la città dei rifiuti, Despina città di confine tra due deserti, Isaura con i suoi mille pozzi insediata sopra un profondo lago sotterraneo, e poi Zenobia che sorge su alte palafitte con case di bambù e zinco e Zobeide la città bianca con le vie che girano su se stesse come in un gomitolo, per finire con Armilla senza muri, nè soffitti, nè pavimenti ma solo tubature dell'acqua in verticale; infine le città con peculiari e misteriose caratteristiche come Zora che ha la proprietà di restare nella memoria, Zirma una città ridondante che si ripete in continuazione perché qualcosa arrivi a fissarsi nella mente del visitatore, Cloe dove nessuno si conosce nè si saluta e gli sguardi "sfuggono".
Non v'è dubbio che la predilezione di Calvino è per le forme geometriche, per le simmetrie, per le serie, per la combinatoria, per le proporzioni numeriche. La stessa tensione tra "razionalità geometrica e groviglio delle esistenze umane" è quella dell'ambiente delle città. Nelle città invisibili Calvino ha potuto concentrare su un unico simbolo tutte le sue riflessioni, le sue esperienze, le sue congetture: ha costruito una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri in una successione che non implica una gerarchia ma una rete entro la quale si possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni "plurime e ramificate". Nelle Città invisibili questa tendenza geometrizzante calviniana si risolve nella conoscenza del Kublai Kan delle città del suo impero che si riduce quasi alla combinatoria "dei pezzi di scacchi d'una scacchiera" e tutte le sue conquiste non sono altro che un emblema del nulla, la fissità suggestiva d'un catalogo d'emblemi. Ma ad osservare attentamente ogni tassello di legno che riproduce la scacchiera si possono leggere una quantità di cose indescrivibili: da qui lo sforzo delle parole per render conto, con la maggior precisione possibile, dell'aspetto sensibile delle cose perché «siamo sempre alla caccia di qualcosa di nascosto o di solo potenziale o ipotetico, di cui seguiamo le tracce che affiorano sulla superficie del suolo». Da un capitolo all'altro le notizie geografiche che un melanconico Kublai Kan riceve da un Marco Polo visionario, assumono un resoconto di viaggi attraverso città invisibili che non trovano posto in nessun atlante, non hanno dimensione storica, non hanno una mappatura cartografica, non si sa a quale passato o presente o futuro appartengano.
Questo viaggio mentale si svolge all'interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città e a "soffrirle".
 
Si è parlato di eccesso di intellettualità, di una operazione che si risolve più che altro sul piano dell'eleganza intellettuale che di una reale forza espressiva, di una invenzione continua di forme ammiccanti e fruibili da un vasto pubblico più che di una creazione di nuove forme: tutto ciò è ben ravvisabile nei pareri discordi della critica ma credo che l'intera opera di Calvino sia il frutto di una naturale evoluzione di uno scrittore che si è sempre concentrato su singoli aspetti dell'esperienza umana, della vita del'era moderna e della cultura scandagliando nelle zone più profonde, architettando strutture assai complesse, studiando manoscritti e testi antichi ed allo stesso tempo volumi di biologia e fisica, documentandosi con eguale entusiasmo così sulle carte da gioco marsigliesi come sul poeta latino Lucrezio.
Tutta la sua opera riflette la realtà della convivenza umana: dalle vicende della guerra raccontate quasi col sapor della favola naturale, allo scenario dei giochi di ragazzi con Zeffirino che armeggia tra gli scogli scovando polpi e granchi, dai boschi popolati da cacciatori, ai racconti cittadini comico-parossistici di Marcovaldo, alle ironiche e melanconiche avventure galanti dei racconti degli "amori difficili" con la bella signora che facendo il bagno al largo si accorge d'aver perso il costume, o l'impiegato che passa la notte con una bella signora o i due giovani sposi che dovendo lavorare, lei di giorno e lui di notte, non si incontrano quasi mai.
Calvino tende a trasformare tutto in un "gioco della vita", in una definizione caricaturale di stati d'animo ma lascia sempre intravedere lo spiraglio di un fondo sensibile ed amaro: la difficoltà di comunicare tra gli esseri umani, la critica all'incapacità dell'uomo di armonizzarsi con la natura, con la società, con se stessi.
Calvino parla di sé, del suo incessante bisogno di affrontare sempre nuovi problemi che si parano davanti agli occhi: il suo laboratorio narrativo crea di continuo racconti poetici, libri teorici, storie fantastiche.
La virtù letteraria nasce da una severa disciplina della mente, temperata dall'ironia e dal fantastico, e da una consapevolezza della parzialità e provvisorietà di ogni metodo d'indagine e di conoscenza. La sua sensibilità estrema nei confronti di ogni sollecitazione della scienza e del mito, la sua predisposizione ad una visione lucida della contraddittoria esperienza umana, la sua idea di arte come conoscenza: ecco le colonne portanti del suo lavoro. Agli occhi di Calvino, tra i valori che nel lento declino della civiltà rischiano di disintegrarsi, v'è quello irrinunciabile che tutti li riassume: «Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d'opporre l'unica difesa che riesco a concepire: un'idea della letteratura».
Così aveva scritto Calvino nell'ultima delle lezioni americane dedicata alla "Molteplicità" che avrebbe letto all'Università di Harvard se le tenebre non lo avessero avvolto in quell'ultima estate del 1985: «Chi siamo noi ? Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d'esperienze, d'informazioni, di letture, d'immaginazioni? Ogni vita è un'enciclopedia, una biblioteca, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. Magari fosse possibile un'opera concepita al di fuori del self, un'opera che ci permettesse d'uscire dalla prospettiva limitata da un Io individuale... per far parlare ciò che non ha parola, l'uccello che si posa sulla grondaia, l'albero in primavera e l'albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica... Non era forse questo il punto d'arrivo cui tendeva Lucrezio nell'identificarsi con la natura comune a tutte le cose?». Null'altro da aggiungere.
 
«Alle volte cerco di concentrarmi sulla storia che vorrei scrivere e mi accorgo che quello che m'interessa è un'altra cosa, tutto ciò che resta escluso dalla cosa che dovrei scrivere; il rapporto tra quell'argomento determinato e tutte le possibili varianti ed alternative, tutti gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere. È un'ossessione divorante, distruggitrice... per combatterla cerco di limitare il campo di quel che devo dire, poi a dividerlo in campi ancor più limitati, poi a suddividerli ancora, e così via. E allora mi prende un'altra vertigine , quella del dettaglio del dettaglio del dettaglio, vengo risucchiato dell'infinitesimo, dall'infinitamente piccolo, come prima mi disperdevo nell'infinitamente vasto».
Ecco ritornare quel valore dell'esattezza che per Calvino vuol dire tre cose: un disegno dell'opera ben definito e ben calcolato; l'evocazione d'immagini visuali nitide, incisive, memorabili; un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell'immaginazione.
«Preferisco scrivere perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico ad essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno ad eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto».
 
"La fantasia è un posto dove ci piove dentro": e la pagina di Calvino è senz'altro dominata da uno straripante gusto inventivo, da una fertilità fantastica, da una vera e propria propensione al divertimento per l'intrecciarsi continuo di fantasiose trovate senza dimenticare la vocazione fantascientifica di alcune esperienze.
Pur nell'abbandono all'estro le favole di Calvino portano sempre con sé una gamma di significati relativi alla condizione umana: ha sempre mantenuto l'interesse per la realtà ed ha trascritto quella realtà attraverso la mediazione della favola e dell'ironia. Le stesse raccolte di racconti con le situazioni e le vicende della vita d'oggi sono da leggersi con questo spirito e tenendo conto di questa vocazione di Calvino. Dall'uomo contemporaneo diviso mutilato ridotto a pura finzione esistenziale della trilogia del Visconte, del Barone e del Cavaliere, alle avventure cittadine di Marcovaldo, ironiche e colme di trovate, al racconto della vita alienata di due giovani sposi, alla visionarietà delle città invisibili: l'uomo sempre discute se stesso, si interroga, percorre direzioni imprevedibili e nel percorso può scomporre e ricomporre la molteplice realtà seguendo il filo della sua ragione:
«Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini che viene moltiplicata con una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini prive di ricchezza di significato. Una nuvola d'immagini che si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria».
La critica alla omogeneizzazione dei mass media, la denuncia della perdita di forza del linguaggio sempre più generico ed anonimo: da qui riuscire a condensare l'immagine ed il movimento che da essa scaturisce nella parola. Attraverso una paziente ricerca accostare i concetti nel modo più efficace.
«Tra i valori che vorrei fossero tramandati: una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell'ordine mentale e della esattezza, l'intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia».
 
 

Massimo Barile



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