Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Vittoria Caiazza
Ha pubblicato il libro
 
Vittoria Caiazza - Gente sorda


 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
 
14x20,5 - pp. 210 - Euro 12,00
 
ISBN 978-88-6037-6091
 
 


In copertina illustrazione

di Silvia Raima Caiazza

 


 

Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista

nel concorso letterario «J. Prévert» 2008

  a

Presentazione
Incipit


Presentazione
Questo libro è un viaggio nel cuore di Lucilla, creatura tenera e dolce, innamorata di Beethoven e dell'Amore, di quello con la "A" maiuscola.
E per questa semplice parola di cinque lettere, Lucilla freme, palpita, si emoziona, soffre fin dalla più tenera età, fin da quando, bambina, assiste alla morte di una farfalla che, bellissima e coloratissima, fino a un momento prima svolazzava felice insieme alla sua compagna. A Lucilla piacque credere che quelle due farfalle fossero innamorate e perciò pianse e continuò a piangere tutte le volte in cui la gente intorno a lei rimaneva sorda ai suoi accorati appelli d'amore.
Piccolissima, Lucilla si innamora della musica, da sola scopre le composizioni di Beethoven e ne rimane letteralmente folgorata.
E così, grazie alla sua tenacia ma soprattutto a questa passione attraverso la quale riuscirà ad esprimere e a far comprendere la profondità del proprio sentire, Lucilla diventa una raffinata pianista.
Quando suona il pianoforte, Lucilla incanta, affascina, ammalia ed è proprio durante quella che resterà la sua unica esibizione in pubblico, che Lucilla conquisterà irrimediabilmente il cuore di Giacomo e con lui realizzerà il suo magico sogno d'amore.
Pagina dopo pagina Vittoria Caiazza crea un personaggio femminile di straordinaria sensibilità, ma anche di grande forza ed intensità e si rivela maestra, ancora una volta, nella sua capacità di emozionare attraverso la descrizione psicologica dell'animo della protagonista.
 

Giovanna Altilia

 


 

Gente sorda

 
Parte Prima
 
I
 
 
 
Quando ero piccola mi narravano una storia.
Era un racconto che ha, poi, attraversato tutte le età della mia vita ed ora che sono vecchia, ora che è finito per me il tempo di ascoltare, ho deciso di narrarla io quell'antica storia che ascoltavo d'inverno, la sera, prima di addormentarmi. Le parole ripetute tante volte, il cui suono mi cullava, m'infondevano gioia, ma anche tristezza, poiché insegnavano tre tristi verità della vita: l'indifferenza, l'incomprensione e la solitudine; ma erano pur sempre insegnamenti e come tali li ho utilizzati più avanti. Fingerò di avere davanti a me, stasera che mi sento tanto sola, un uditorio di bambini attenti, sedutimi intorno, proprio come io da bambina sedevo vicina a chi parlava; fingerò che siano proprio loro, come io una volta, a richiedere con insistenza le mie parole e racconterò, lentamente e pacatamente, la storia che conosco più che se fosse la mia, la storia di Lucilla.
Lucilla aveva un grande amore, incominciava sempre così la narrazione.
Lucilla aveva un grande amore: Beethoven. Allo stesso modo in cui un pittore ama le luci di Caravaggio ed un appassionato di letteratura adora i versi di Leopardi, così Lucilla, che era una grande pianista, piangeva se udiva le note di Beethoven. Se fosse stato per lei non avrebbe suonato altro che i suoi pezzi e li eseguiva con insuperabile bravura, tanto che ancora oggi il pubblico degli appassionati e degli intenditori ricorda il nome di questa donna sottile e silenziosa, che pareva trasformarsi e animarsi di nuova vita se soltanto sedeva davanti alla tastiera di un pianoforte. Queste erano le prime notizie che apprendevo sul fantasma che mi avrebbe tenuto compagnia nell'infanzia.
Lucilla era nata nel 19.. a C., un posto piccolo, ma grazioso, in una casa molto bella le cui finestre affacciavano su una stradina alberata che di primavera si riempiva di colori e che d'inverno si tingeva di bianco per la neve che arrivava portata dal vento che soffiava dalle vicine montagne. Sto parlando di tanti anni fa, ma riesco ad immaginare facilmente quel luogo come poteva essere allora, con persone vestite secondo la moda del tempo, automobili in modelli antichi, giardini ed alberi là dove ora ci sono palazzi, strade e Chiese in attesa di assistere al futuro.
La famiglia di Lucilla aveva acquistato quella casa qualche mese prima della sua nascita, cosicché la sua felice venuta alla luce, in una fredda sera di dicembre, due anni dopo quella di un bel maschietto, era stata come un evento che aveva in qualche modo inaugurato e benedetto quel luogo. Le stanze erano grandi e ariose, c'era tanta luce d'estate, forse troppa per i gusti di sua madre, e c'era tanto vento e tanta buona aria. Lucilla imparò a camminare in quella casa ed in quelle belle stanze disse le sue prime parole. C'era un quadro nella sala da pranzo, che rappresentava una nave in balia del mare in tempesta; seduta a guardare quell'immagine rappresentata in modo così impressionante, imparò a dire "barca", "mare" e "nave". Distesa sul suo lettino, con i giornalini ed i primi libri che le venivano regalati, imparò ben presto a leggere.
Era una bambina tranquilla e timida. La domenica il papà la portava alla Villa Comunale insieme al fratello, Alberto. Qui le comprava i palloncini colorati, le bolle di sapone, i giocattoli a batteria con i pesciolini che dovevano essere pescati e le girandole che si muovevano ad ogni soffio di vento. Dalla terrazza della Villa si ammiravano tutte le colline e le montagne circostanti, in lontananza il mare. Alberto e Lucilla si rincorrevano fra le stradine in mezzo agli alberi, mentre il padre sedeva sulla panchina di pietra a leggere il giornale, poi andavano al laghetto e davano da mangiare ai cigni bianchi e neri le molliche di pane. Di sera, d'estate, se si passeggiava nella Villa, si vedevano volare a bassa quota i pipistrelli. Quando la domenica, dopo quei giochi e quelle passeggiate, si ritiravano a casa, il padre passava dalla pasticceria a comprare dei dolci il cui sapore Lucilla avrebbe ricordato per tutta la vita. Erano dolci alla panna ricoperti da zucchero a velo, dolcissimo, che restava sulle mani e sulle labbra quando li mangiava o deliziosi cannoli alla siciliana con la ricotta fresca. A casa la madre aveva preparato un ricco pranzo, spesso la domenica veniva a mangiare da loro anche la zia e la sera il padre la riaccompagnava a casa.
Nel periodo di Natale, Lucilla usciva di sera con la madre, andavano sul Corso a girare per i negozi, caldi e illuminati. Lucilla adorava il Natale, le luci, gli addobbi, i regali, pensava che dicembre fosse il più bel mese dell'anno. Si cominciava a sentire il sapore della Festa sin dalla fine di novembre e per il giorno dell'Immacolata in casa erano pronti il Presepe e l'Albero, sotto il quale sarebbero stati messi i regali da scartare la notte del 25. L'otto, per festeggiare, si preparavano le frittelle e si riunivano i parenti.
Le ore a scuola scorrevano lente, nei giorni che precedevano le due settimane di vacanze, poi il 23, dopo gli auguri scambiati in classe tra professori e compagni, si usciva con due o tre ore di anticipo e cominciava Natale. La sera si andavano a vedere i Presepi nelle Chiese, si passeggiava sul Corso, si andava al Cinema oppure si restava a casa e allora si giocava a tombola e a carte. Lucilla vinceva sempre perché era piccola ed era bello farla vincere, così raccoglieva soddisfatta le monetine luccicanti in mano e andava a riporle nel salvadanaio. Poi sedeva nella sala da pranzo a contemplare le luci dell'Albero e del Presepe, che si accendevano e si spegnevano ed a pensare ai regali che avrebbero ricevuto. Nella Grotta il posto del Bambino era ancora vuoto, sarebbe stato riempito tra poco. Il Presepe era costruito sempre su un pesante tavolo di legno che veniva posto contro un angolo di parete vuoto, che nel resto dell'anno veniva occupato da una poltroncina in pelle ed una pianta. Sembrava così spoglia quella stanza quando venivano tolti gli addobbi! Lucilla lo diceva sempre alla mamma, avrebbero dovuto trovare qualcosa che occupasse meglio quell'angolo. Fuori soffiava il vento gelido; sentendolo urlare dietro i vetri del balcone, Lucilla non aveva paura; le piaceva fin da allora la voce del vento e quella della pioggia poiché aumentava il senso del calore e di protezione che provava in casa. Si avvicinava ai vetri e vedeva gli alberi muoversi, le carte volare, la gente ripararsi coi baveri dei cappotti alzati o i cappucci dei giubbotti in testa. Lei indossava vestitini di lana, calze pesanti, eleganti scarpine ed il vetro le rimandava la sua immagine come se fosse quella di un'altra persona che lei stesse guardando da fuori.
La notte di Natale si cantava "Tu scendi dalle stelle", quel canto le restava nella mente e nel cuore quando, dopo che Gesù era nato, i regali erano stati scartati ed i parenti se n'erano andati, lei si coricava nel suo bel letto caldo, canticchiava ancora fra sé e sé quelle parole addormentandosi, magari stringendo una bambola o un orsacchiotto che aveva appena ricevuto in dono. L'ultimo dell'anno ascoltava a mezzanotte i botti, vedeva tingersi il cielo di tanti colori e suo padre se la sedeva sulle ginocchia e le faceva bagnare le labbra con lo spumante per buon augurio. Poi lentamente tutto tornava alla normalità e dopo la notte della Befana i bambini si preparavano a tornare a scuola e a riprendere a studiare.
In Primavera, spesso, la domenica si andava a fare le gite in Sila, nei boschi. Si arrivava dopo più di un'ora di viaggio, a maggio e a giugno quelle strade si coloravano del giallo delle ginestre; era bella la luce che giungeva attraverso le foglie degli alberi, quando si passeggiava nei boschi o si stava seduti per terra. L'aria aveva un buon odore, si poteva correre e giocare. Le casette a due piani di legno erano circondate da meravigliosi giardini che si riempivano di rose selvatiche, le ricordavano le case delle favole, quelle delle fate, delle fanciulle destinate a diventare principesse; si sentivano gli uccelli cantare, se si alzava la testa e si guardava attentamente si potevano vedere gli scoiattoli correre sui rami. C'era una casa che le piaceva in particolare, ogni volta che ci passava davanti la guardava desiderando entrarvi. Era di legno, dipinta di rosso e di bianco, a due piani, sul tetto spiovente spiccavano i comignoli dei caminetti. Se l'immaginava come doveva essere d'inverno, tutta circondata di neve, o d'estate, con la Natura in festa attorno. Le finestre erano piccole e sempre chiuse, le stanze del piano di sopra dovevano essere piuttosto mansarde. Non c'era mai nessuno in quella casa nascosta fra gli alberi, sulla quale i raggi del sole arrivavano dopo aver attraversato i rami e le foglie, e Lucilla si chiedeva perchè mai chi possedeva quella bella casa non ci andasse ad abitare. Forse quelle mura nascondevano un segreto o forse una tristissima storia.
Durante una di queste gite Lucilla vide volare in mezzo alla strada due farfalle, bellissime e colorate, giocavano a girarsi intorno, a intrecciare il loro volo, sembrava che stessero facendo una danza, parevano davvero ballare; lei pensò che fossero innamorate. Una macchina, uscita dal nulla, passò a forte velocità e ne uccise una, l'altra rimase a volare su quel luogo come per cercare la compagna che non c'era più, quasi non avesse capito ciò che era accaduto, e poi se ne andò. Lucilla scoppiò a piangere disperata.
D'estate la sua famiglia se ne andava al mare, dove aveva una casa; lei amava il mare, le piaceva stare in acqua, giocare e nuotare. Una volta giocando rischiò di affogare, andò giù e non riuscì più a risalire, travolta dalla forza delle onde, ma fu salvata dal padre. L'episodio le restò in mente solo come un brutto sogno e già dal giorno successivo tornò a giocare in acqua. Ma aveva paura dei pesci e di dove il fondo del mare era più profondo e scuro; così anche quando fu grande, pur ritenendo questa paura sciocca e immotivata, non si allontanò mai molto dalla riva nuotando. Il pomeriggio giocava col fratello e con degli amici nel giardinetto sotto casa, correvano, s'inseguivano, si nascondevano e più volte lei cadeva, come cadono tutti i bambini giocando. Si faceva male alle ginocchia e doveva tornare a casa a farsi medicare dalla mamma, che, sapeva già, l'avrebbe sgridata per la sua disattenzione. Andavano in bicicletta, giocavano al pallone e talvolta uscivano con i genitori la sera per andare a prendere un gelato e fare una passeggiata sul lungomare.
La sera i ragazzi più grandi con l'aiuto dei genitori organizzavano dei piccoli falò sotto le stelle sulla spiaggia, Alberto, Lucilla e i loro amici si aggregavano. Lucilla, durante quelle serate, che le parevano interminabili, sedeva da sola sulla sabbia in disparte, a guardare il cielo. C'erano tante stelle luccicanti, le sarebbe piaciuto conoscerne il nome. Suo fratello e gli amici giocavano e cantavano, lei non parlava con nessuno e non poteva andarsene perché aveva paura di camminare da sola al buio per la strada che la separava da casa e che attraversava una grande pineta piena di mimose a marzo, ma che lei ora temeva. Poi qualcuno le porgeva un tovagliolino con dentro una patata bollente appena tolta da sotto il fuoco. Lentamente riusciva sbucciarla, dopo essersi bruciata le dita, e a mangiarla: era buona, anche se non c'era sale per darle più sapore.
A San Lorenzo cadevano le stelle, si faceva a gara a chi ne vedeva di più ed in silenzio si esprimevano i desideri.
Un'estate la madre le comprò un vestitino verde con dei fiori bianchi che le arrivava fin sotto le ginocchia. Le piaceva tanto quel vestitino e lo voleva sempre indossare; un pomeriggio stava passeggiando sotto casa, poteva avere nove o dieci anni, ed incontrò un bambino che abitava lì vicino e che lei conosceva. Si salutarono e poi lui se ne andò via ridendo fra sé e sé. Lucilla si mortificò perché pensò che ridesse del suo vestito. Lo rincontrò dopo anni, quando ormai entrambi erano ragazzi, si riconobbero, ma non si salutarono, lui la guardò un istante e poi riprese a giocare a pallone, lei rimase in silenzio ricordando quel lontano pomeriggio estivo.
Era quella la storia di ogni anno, eppure ogni anno era sempre diverso. Si accorse della monotonia delle estati solo quando divenne grande, come succede sempre quando si cresce, ma allora era piccola e tutto, perfino ciò che era brutto, le pareva nuovo e affascinante.
Era una bambina come le altre, forse un po' più timida e solitaria. Aveva una strana sensibilità e talvolta reagiva in modo incomprensibile. Una volta incontrò un vecchietto con un cappello in testa per difendersi dal forte sole e un viso molto dolce, tanto dolce da sembrare triste. Era un po' incurvato e avanzava aiutandosi con un bastone, il suo volto era solcato da innumerevoli rughe. Il vecchietto le passò accanto, le sorrise e la salutò, poi continuò per la sua strada. Lei rimase talmente colpita dal suo sguardo che scoppiò a piangere come se fosse disperata.
Una sera d'autunno uscì con la mamma ed il papà ed entrò in un negozio di mobili antichi. I genitori erano interessati ad un tavolinetto tondo, a tre piedi, che avrebbero poi acquistato quella sera stessa.
Incantata da quell'austerità, da quell'immobilità che regnava nell'aria, da quelle luci magiche che illuminavano ogni pezzo, Lucilla si liberò dalla mano della mamma e volle camminare da sola.
- Non toccare niente, mi raccomando! - le disse la mamma, e lei, fedele a quel consiglio, camminò attenta a non urtare nulla, guardando soltanto, finché gli occhi non le caddero su un mobile di legno scuro, lucido, poggiato contro una parete. Incantata da quella visione Lucilla avanzò, lo aveva già visto altrove, ma mai bello in quel modo, non ne ricordava neanche il nome in quell'istante. Giunse davanti e pensò che sarebbe stato benissimo nell'angolo vuoto della sala da pranzo. Quando allungò la mano e lo toccò il mobile suonò, un suono solo che durò finché non ritirò la mano.
- Lucilla! Ti avevo detto di non toccare niente! - la sgridò la madre.
- Mamma, che cos'è? - chiese Lucilla indicando il mobile.
- È un pianoforte.
- Me lo prendi?
- No, amore mio - fece la mamma, riprendendola per la mano e portandola via dal piano - Non ci serve perché nessuno lo sa suonare.
- Ma è bello! - insisteva lei.
- E poi te lo prendo - disse allora la madre per tenerla buona - Ora non si può perchè questo signore dice che stasera non è in vendita. È vero?
- Sì, signora - rispose sorridendo il commesso.
Lucilla era sul punto di piangere, non lo fece perché promise a se stessa che quel mobile così strano sarebbe stato suo, anche se la mamma non avesse voluto. Quando, pochi minuti dopo, uscì dal negozio, guardò come ultima cosa il pianoforte, ma era una bambina, la mamma le comprò una bambola e un'ora dopo Lucilla aveva già dimenticato tutto.

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Ins. 04-10-2008