Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Vittoria Caiazza
Ha pubblicato il libro
Vittoria Caiazza - L'Angelo di cristallo



 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi) 15x21 - pp. 120 - Euro 10,80 - ISBN 88-8356-741-2

Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista nel concorso letterario "J. Prévert" 2004

Predsentazione
Incipit


Presentazione
L'amore intenso, profondo e incorruttibile fra Angelica, bella superba ed orgogliosa, e Gaetano, pover'uomo figlio d'un fattore ma autentico sognatore. Una storia d'amore che nasce tra i colori e i profumi della terra dove la vita è scandita dalle onde del mare e dallo spettacolo affascinante della natura: un ardente sentimento capace di superare pregiudizi ed ostacoli d'ogni sorta a dispetto dei luoghi comuni e delle velenose dicerie fino al magico epilogo.
"L'angelo di cristallo" di Vittoria Caiazza è un romanzo capace di far risaltare la magica atmosfera e gli incanti d'un grande amore che diventa fonte di speranza, un messaggio d'un cuore nobile e generoso che porta con sé un grande fascino, una giusta dose d'orgoglio, un elisir di felicità e gioia della vita.
 

Massimiliano Del Duca


 

L'angelo di cristallo

 I
 
 
Il Paesino a pochi passi dal mare, quel mattino, si svegliò presto.
Era la prima domenica di giugno, la primavera cedeva lentamente il posto all'estate, la natura scoppiava di vita. Il cielo di un azzurro purissimo brillava della luce più chiara; il sole splendeva forte, come se si fosse in pieno agosto; il mare pareva mormorare allegramente. I bambini giocavano a spingersi, a spruzzarsi e a rincorrersi, sollevando l'acqua fresca che bagnava loro le gambe nude. Nella vicina campagna i prati erano ricoperti di fiorellini gialli, il profumo più intenso era sparso nell'aria e le foglie degli ulivi sembravano danzare alla musica del vento, proprio come facevano le farfalle variopinte che passavano da un fiore all'altro o intrecciavano i loro voli armoniosamente, battendo veloci le ali colorate. Non una cosa fuori posto, non una visione che offuscasse la serenità che l'insieme poteva dettare al cuore, pareva che tutto fosse perfetto, il cuore di un poeta sarebbe scoppiato al cospetto per il dispiacere di non poter descrivere nella totalità quella bellezza, quell'armonia che lì regnava, ed incapace di concepire in quell'istante una sola parola le sue labbra si sarebbero chiuse ed una lacrima, pura e lucente come il cristallo, sarebbe discesa dai suoi occhi incantati, una lacrima, unico sfogo di un'anima carica di sentimenti, ma incapace di urlare.
Il sole, anche quel mattino, si era levato ed era sorto piano piano inondando lentamente di luce le strade, filtrando nelle stanze degli uomini attraverso le persiane, giungendo là dove ancora regnava il sonno, per annunciare a tutti l'arrivo del giorno. Poi le campane della Chiesa Madre avevano suonato, ma gli unici rumori che al termine di quel suono poterono udirsi furono le voci degli uccelli che già volteggiavano in cielo ed il gorgoglio dell'acqua della fontana che si trovava nella piazza. Sembrava che il paese intero giacesse ancora addormentato, poi lentamente esso si animò: furono prima socchiusi, poi spalancati balconi e finestre, la luce inondò le stanze in penombra, si aprirono le porte, le voci iniziarono a risuonare, finché, man mano che il sole saliva, le stradine furono piene.
La vita degli uomini si unì a quella della Natura, le povere creature condivisero le sue gioie, ammirarono la bellezza del mare, si strinsero impotenti davanti alla sua grandezza, ma alzarono gli occhi al Cielo e sorrisero. Non si ricordava una mattina così calda da tempo, era come se l'estate fosse già arrivata; il paese intero si riversò fuori, per le strade, in piazza, in campagna. Era domenica, pareva che non ci fosse un volto triste fra gli uomini, ti sembrava di vedere sorrisi e serenità ovunque, la gioia dell'aria favoriva e accresceva quella del cuore.
Le fanciulle quel mattino si erano preparate con la massima attenzione, si erano arricciate i capelli come le donne della città, avevano indossato i vestiti più belli, dai colori chiari, ricchi di leggeri merletti, e nel loro petto il cuore aveva esultato della più innocente e dolce vanità contemplandosi in un vecchio specchio che restituiva loro un'immagine opaca incorniciata ai lati da figurine dei Santi. Impazienti, erano finalmente uscite al braccio della madre o insieme alle amiche, alla fine della Messa avevano passeggiato nella via principale per farsi vedere, spiando e rallegrandosi per ogni sguardo che si posava su di loro.
I giovanotti se ne andavano al mare, sulla spiaggia, insieme agli amici o a passeggiare con la fidanzata; passavano in gruppi a piedi, a volte si vedevano sfilare veloci ed eleganti calessini. I loro volti fiduciosi e allegri pareva rispecchiassero la luce del cielo, era come se intorno a te ci fosse un'esplosione di gioia, se anche tu fossi stato il più triste uomo sulla terra, per un istante, anche per un solo istante, avresti sorriso.
L'esistenza di ciascuna di quelle persone, giovani e non più giovani, si animava per un giorno. Erano persone semplici e buone, la cui unica preoccupazione era quella di giungere al domani, ma sarà stata l'estate vicina dopo il lungo inverno, quel giorno consacrato al riposo e alla gioia, l'aspetto della Natura, qualsiasi cosa, comunque, rendeva quella domenica particolare, e perciò è da qui che io voglio partire.
Non so se ora queste parole sono adatte per dare inizio a questa storia, so che, in verità, non bastano a descrivere quei luoghi e soprattutto la bellezza di quel mare che io contemplo ancora. Perdo ancora il mio sguardo fra le sue onde: perché mi è sempre stato così caro? L'ho capito dopo, perché parlava di me la sua voce, perché il suo canto era il mio canto, il suo lamento era il lamento del mio cuore, che soffriva, e si chiedeva perché soffriva.
Quella mattina, fra tutte le altre persone che abbandonavano le braccia del dio Sonno per tornare al caldo abbraccio del Sole, c'era anche una donna, giovane e bella. Riapriva i suoi occhi profondi, finestra su un'anima forte, sistemava svogliatamente con la mano bianca quanto l'avorio i lunghi capelli scuri, si sollevava dal letto per rimirarsi nello specchio ancora assonnata, dischiudeva le finestre perché anche la luce potesse augurarle il buongiorno. Questa è la sua storia, la storia di una donna bella, superba e orgogliosa, con occhi splendidi, pelle candida e capelli profumati, e di due uomini, diversi fra loro per carattere, ma uguali per la creatura su cui riponevano il loro amore, ed il Paesino pieno di vita che vi ho descritto ne è lo scenario.
 

 
II
 
 
Quella domenica mattina anche un'altra città, distante e diversa da quel paese, aprì gli occhi per guardare quel sole luminoso, anche qui c'era il mare, e della gente e tante vie, ma tutto sembrava più grande e più bello. Il suono delle campane delle tante Chiese formava una sinfonia e inondava la città di una dolcissima musica; sul Lungomare, dal quale era possibile ammirare uno spettacolo così stupendo da togliere il fiato, uomini con carretti vendevano acqua gelata e limonata, bontà di mare crude e saporite; i portoni dei palazzi, i portali delle Chiese, le finestre, i balconi erano spalancati. Camminando in strada potevi sbirciare nelle case ed introdurti segretamente nella vita degli altri attraverso la vista di un soffitto decorato o di una parete colorata. I giardini erano verdi, i cancelli delle Ville erano aperti, gli alberi muovevano lentamente le loro foglie alla brezza che veniva dal mare, le carrozzelle invadevano le strade. Anche qui la vita esultava.
Uno fra i tanti palazzi che affacciavano su una delle tante vie centrali, quel giorno, si era svegliato di buon'ora. Il cortile interno, le scale, i pianerottoli avevano iniziato presto a risuonare delle voci dei suoi abitanti, che a poco a poco lasciarono le loro case per recarsi in Chiesa e assistere alla Messa, o per passeggiare sul Lungomare dorato o sul Corso.
Signore con eleganti cappellini; anziane donne che avanzavano al braccio del figlio vestito di scuro con i capelli lucidi e perfettamente pettinati; bambine coi vestitini che arrivavano al ginocchio e dai quali uscivano fuori le gambette grasse, coi capelli lunghi e le grandi paglie; bambini capricciosi che non volevano dare la mano alla madre e correvano su e giù per le scale giocando a rincorrersi, coi pantaloncini corti e la magliettina alla marinara; giovani che uscivano in gruppi ridendo e scherzando fra loro; ragazze timide che camminavano con gli occhi bassi ed un libro rilegato di scuro fra le mani chiuse in guanti bianchi; altre più ardite che passeggiavano con andatura più spedita, con gli occhi ridenti e brillanti, ed un sorriso gioioso dal quale risaltava il bianco dei piccoli e perfetti denti.
Una vecchia donna si affacciò per le scale e chiamò indietro la nipotina, una bambinetta bella come un angioletto. La fanciullina lasciò le mani della mamma e tornò su dalla nonna.
- Mi ero scordata! - diceva quella, mettendole nelle manine delle monete - Comprati il gelato più grande e più buono. Vai!
Un bacio e la bambina era di nuovo giù per le scale.
Un ragazzo con un superbo paio di baffi, ai quali aveva dedicato presumibilmente venti minuti di attenzione prima di uscire, ed impeccabilmente vestito, stava dritto, in piedi e immobile per non sciupare il vestito, in attesa. All'improvviso i suoi occhi brillarono e si mosse per andare incontro ad una ragazza che scendeva in quell'istante. I due si guardarono, ma non osarono neanche parlarsi.
- Marì! - si sentì da sopra.
La ragazza alzò gli occhi verso sua madre, che stava affacciata per le scale.
- Torna presto, ché dobbiamo mangiare! Non possiamo aspettare a te!
- Non vi preoccupate, signora! - rispose per lei il ragazzo.
- Perché non venite pure voi a pranzo? - rispose da sopra la donna.
- Dì di sì - suggerì supplicante la fanciulla a bassa voce.
Il giovane alzò il viso ridente e rispose di sì.
- Ci vediamo a pranzo, allora! Tornate presto!
Una donna scese da sola e silenziosamente le scale. La portiera, che aveva osservato i due ragazzi andare via, commentò alla signora che sopraggiungeva:
- Quanto sono belli!
La signora si limitò a sorridere con dolcezza mentre sistemava meglio il proprio guanto.
- Dove andate, signò? Anche voi a Messa?
- Certo, voi non venite?
- Ho mandato mia figlia con mio genero. Quest'oggi non sto tanto bene, gliel'ho detto anche a Gesù: "Gesù mio, perdonami, ma oggi non ce la faccio ad arrivare in Chiesa, non ce la faccio proprio". Sapeste, signora, ho un dolore che mi prende tutta la gamba, non posso proprio muoverla. Che sarà?
- Mah, niente di preoccupante. Un piccolo dolore...
- Eh, sì, l'ho detto, niente! Non mi potevo neanche alzare stamattina, poi ho fatto uno sforzo e sono scesa qui in cortile, anche per prendere un po' d'aria!
- Eh, già!
- Con questo caldo! È arrivata l'estate! In anticipo quest'anno... mah, sarà forse questo tempo che mi ha fatto venire il dolore? Voi che dite?
- Può darsi...
- Eh, sì... ma io l'ho detto a Gesù, e Gesù mi capisce...
- Gesù capisce tutti e perdona tutti. Bé, buona giornata!
- Buona giornata, signò! E buona passeggiata!
Era una mattina chiara e calda. Il sole brillava radioso sulla città ed il mare luccicava sotto i suoi raggi. Fuori dal cortile, nella via, mille storie, innumerevoli persone, visi, voci, rumori, risate si confondevano. Vi si riversavano famiglie che uscivano dalle loro case, carri, mendicanti, folli, cani che camminavano lungo il muro scodinzolando e seguendo chissà quale ignoto viso ridente, uomini con le loro preoccupazioni, i loro dolori, le loro piccole gioie che riempivano per un istante di felicità le loro piccole esistenze, la vita girava per quelle vie, esultava in quegli angoli, levava fino al cielo le sue voci, i suoi lamenti, le sue risate.
La portiera dolorante avanzò fin sulla strada e si appoggiò ad un muro contemplando quello scenario.
Un uomo giovane, dal volto dolce e incorniciato da ricci scuri, era affacciato ad una delle finestre interne del palazzo e dopo avere guardato un po' il cielo spostò gli occhi neri sulla donna.
- Donna Raffaella! Donna Raffaella! - chiamò.
Quella sollevò la testa verso la finestra e sorrise salutando con la mano.
- Buongiorno, donna Raffaella!
- Signor Meriggio carissimo!
- Per voi sono sempre e solo Gaetano!
- Don Gaetano carissimo, buongiorno! Come mai ancora in casa? Voi non uscite?
- Tra poco. Devo finire di preparare i bagagli.
- Dove andate di bello?
- Vado via, scendo giù al mio paese.
- Che tristezza, ve ne andate! E quando partite?
- Domani, mi aspetta un viaggio lungo e faticoso.
- Divertitevi, oggi, andatevene al mare.
- Ma anche al paese mio c'è il mare - rispose quello ridendo.
- Ma non è bello come il nostro, e poi guardate che bella giornata! Lasciate stare i bagagli e uscite! Voi siete giovane, che ci fate chiuso in quella stanza?
- Avete ragione!
- Potessi uscire io, potessi! Ma ho un dolore che non mi posso muovere! Eh, se fossi giovane come voi! Avete ancora tutta la vita davanti, uscite e divertitevi!
- Va bene - replicò lui ridendo - Buona giornata, donna Raffaella - e rientrò.
Si voltò verso la stanza in disordine e in penombra e si mise sconsolato una mano fra i bei capelli. Per terminare quel lavoro non sarebbe dovuto uscire quella mattina, ma fuori era così bello che decise di lasciar perdere i bagagli. Afferrò una giacca, che si trovava buttata sul letto, l'indossò e uscì. La portiera gli aveva dato una splendida idea.
Si era diretto senza incertezze al porto, era quello il posto che della città gli piaceva di più. Quando arrivò il sole era ben alto nel cielo e dal mare soffiava un leggero vento che sembrava portare un po' di refrigerio a quel caldo di inizio giugno. Si pose in contemplazione di quelle acque che non avrebbe visto per chissà quanto tempo e ripensò a quelle che bagnavano il suo paesino. Poi si mise a girovagare fra la gente, osservando le navi che arrivavano, quelle che partivano e pensando che il giorno dopo doveva partire lui, non con la nave, no, ma doveva partire. Erano sei mesi che non tornava a casa e quattro anni che viveva a *, ora la doveva lasciare ed anche per lungo tempo, nessun motivo ormai lo tratteneva lì, eppure, quando pensava che questo momento sarebbe comunque giunto, non immaginava che gli sarebbe dispiaciuto lasciare quei luoghi. Aveva sempre invidiato, nelle sue passeggiate al porto, ad esempio, tutte quelle persone che vedeva partire e che immaginava facessero ritorno a casa. Quel giorno si sentì uno di loro e capì che oltre alla gioia, nei cuori di quegli uomini c'era forse anche del rimpianto.
Fu strappato ai suoi pensieri dai rintocchi della campana di una Chiesa che si trovava là vicino. Era mezzogiorno.
I ristoranti e i locali lì intorno erano pieni, contribuivano le navi che erano arrivate, la bellezza di quei luoghi e la splendida giornata. Vi era una confusione inimmaginabile: gente che piangeva, che rideva, che salutava, che gridava, persone che si abbracciavano, si baciavano, partivano, arrivavano, mercanti di oggetti assurdi, di cui avresti dubitato l'esistenza, poveri che cercavano l'elemosina buttati per terra in angoli. Guardie che sorvegliavano se tutto andasse bene, marinai, uomini, donne, bambini che facevano i capricci. Egli adorava questa confusione, contrastava così tanto con l'atmosfera del suo paesino che gli pareva, trovandosi ora qui, che non potesse esistere un posto tanto silenzioso ed era irreale per lui pensare che qualche giorno dopo sarebbe stato, sì, sulle rive del mare, ma che le uniche barche che avrebbe visto sarebbero state quelle dei pescatori intenti a buttare le reti, protagonisti di uno spettacolo che conosceva da quando era bambino.
Verso l'ora di pranzo, dopo aver girato fra la gente, entrò in un ristorante e sedette da solo ad un tavolo, ordinò al cameriere che gli si era avvicinato ciò che desiderava mangiare e si dispose poi alla contemplazione del mare, che si poteva ammirare dalle finestre del locale. All'improvviso un gruppo di persone irruppe nel ristorante e attirò la sua attenzione. Erano giovani uomini più o meno della sua età con donne bellissime e affascinanti, accaldate, che avanzavano ridendo rumorosamente e facendosi aria con i ventagli. Uno dei giovani rispose alle risate di una delle tre donne, l'attirò a sé cingendole la vita e la baciò forte su una guancia. Con loro era entrata una ventata di aria, di profumi che invase tutta la sala, una ventata di vita e di allegria che quelle labbra sorridenti, quegli occhi luccicanti portavano. Sedettero ad un tavolo vicino al suo ed ordinarono subito del vino bianco e dei primi di pesce. Le donne si sbarazzarono degli scialli e dei soprabiti che indossavano rimanendo con dei leggeri vestiti che lasciavano loro ampiamente scoperti il collo e le spalle, mentre le loro graziose teste incorniciate da morbidi capelli si muovevano dolcemente ascoltando ridendo ciò che i giovani dicevano loro. Gaetano guardava quella compagnia affascinato, incantato dalla felicità e dal divertimento che essa sprigionava.
Un cantante vagabondo, sporco, misero, si avvicinò al suo tavolo e cantò accompagnandosi con un vecchio mandolino. Gaetano guardò i suoi occhi, ma dovette abbassare subito lo sguardo, la sua voce però gli toccò il cuore poiché attraverso quella stava cantando la sua anima. Le parole dolenti e imploranti di un innamorato respinto azzittirono anche l'allegra compagnia, che si voltò a guardarlo ammirata. Gaetano quasi non riuscì più a sopportare quella vista, spostò i suoi occhi sul mare, ma non vide quel mare, ne vide un altro, e pensò ad un altro luogo. Quando riposò lo sguardo sul volto triste del vecchio cantante vide una lacrima scendergli lungo la guancia scarna. Allungò nell'aria una mano e lui la riempì, ma lo trattenne un istante.
- Vorrei darvi di più, ma non posso. Non sono un signore. Sto consumando l'ultima follia che posso permettermi - gli disse.
- Tu sei giovane - replicò l'altro voltandosi verso di lui - E sei ricco della vera e sola ricchezza: la gioventù. Non ti devi preoccupare. Il mio pensiero è quello di trovare da mangiare, la tua mente è piena di speranze e tra un istante mi avrai dimenticato, ma non è colpa tua.
- Perché piangevate mentre cantavate? - domandò ancora.
- Pensavo a quand'ero come te - rispose il vecchio lentamente.
Un cagnolino che era entrato con lui e che stava ai suoi piedi lo toccò con una zampa, come per parlargli. Non era un cane di razza col pelo morbido, ma aveva due occhi che strappavano il cuore, era color marroncino anche se nella parte inferiore si avvicinava al bianco.
- Adesso andiamo, adesso andiamo - diceva il vecchio - È il mio bambino che vuole andare - spiegò poi - È giovane anche lui e non riesce a stare fermo. Deve adattarsi a me perché io, invece, sono vecchio.
Un cameriere, sopraggiunto e visto il cane, gli disse di andare via poiché lì i cani non potevano stare. Trascinandosi il vecchio uscì lentamente, come era entrato. Gaetano lo seguì con gli occhi e all'altro tavolo ripresero a parlare. Nel pomeriggio uscì dal ristorante gettando un'occhiata alla compagnia che ancora sedeva e rideva al suo tavolo, e tornò a casa.
 

III
 
 
Gaetano Meriggio aveva lasciato il paese e si era trasferito in città per studiare.
Suo padre era un fattore, lavorava nella proprietà di un ricco signore del paese, Bernardo Lieto, che, conoscendolo da molto tempo ed essendo i due vecchi amici, gli aveva affidato un grande campo di ulivi che partiva dalle porte del paese e giungeva quasi fino ai pressi della spiaggia. Il signor Lieto visitava le sue proprietà di tanto in tanto e durante quelle visite il fattore gli mostrava gli alberi, i raccolti, i registri, alla fine il padrone se ne andava soddisfatto elogiando il suo fedele amico e tornando a farsi rivedere dopo qualche tempo, giungendo di solito sempre di sorpresa, all'improvviso.
La famiglia Meriggio abitava appena fuori dal paese, là dove iniziava la campagna, in una casetta non molto grande, ma bella e accogliente, circondata da un giardinetto che la madre di Gaetano curava personalmente e recintata da una cancellata. Tutt'intorno c'erano gli ulivi verdi e dopo di quelli, lontano, il mare. Gaetano ricordava che da bambino la madre non lo faceva mai uscire dopo che pioveva poiché, nonostante la stradina che portava alla loro casa fosse in perfetto stato, pure era sempre piena di pozzanghere e lui si sporcava sempre di fango. Allora rimaneva imbronciato e in silenzio dietro le finestre a guardare gli alberi ed il cielo che si schiariva e spiando il sole che tornava dopo le nuvole. Alle sue spalle la sorellina, Fortunata, una bambina paffutella e bruna, con i lunghi capelli che le scendevano sulle spalle, suonava un vecchio pianoforte un po' scordato sul quale si trovavano una lampada ed un paio di antichi ritratti incorniciati, rappresentanti i loro nonni. Fortunata suonava sempre le stesse cose, canzoncine che le aveva insegnato la sua maestra o leggeva su spartiti che le signorine del paese le avevano regalato, poiché in verità quel luogo non abbondava né di libri né di musica e chi poteva se li faceva mandare dalla città. Il signor Meriggio riusciva a procurarsi qualche nuovo romanzo e qualche partitura per la figlioletta durante l'anno e glieli regalava in occasione del Natale o di qualche compleanno. Così la fanciulla poté suonare qualche pezzo di Clementi ed una sonata di Mozart, che imparò con un'attenzione ed una diligenza da amanuense, suonandola all'infinito ogni giorno, per ripeterla poi nel silenzio generale, tutta emozionata, quando c'erano visite a casa.
Il signor Meriggio dentro non c'era quasi mai, usciva il mattino presto insieme ai suoi uomini, che abitavano nelle case vicine, ed a Lorenzo, suo figlio maggiore, che aveva l'abitudine di portare con sé fin da quando egli era ancora un bambino, e andava a lavorare, tornando poi quando tramontava il sole. D'inverno gli altri due bambini, Gaetano e Fortunata, restavano in casa a studiare sotto il controllo della mamma, seduti uno accanto all'altra sopra dei cuscini su delle sedie ad una scrivania grande di legno scuro, qui facevano i loro compiti, le loro letture e poi disegnavano con le matite colorate. Quando lasciavano la scrivania andavano a giocare con Pitagora, un bel persiano grigio, che aveva sonnecchiato fino a quell'istante davanti al fuoco, il gatto dapprima li ignorava, quindi cominciava a giocare con loro, sdraiato sul dorso, a pancia all'aria, cercando di prendere le loro manine con le sue zampette, finché non si stancava e lentamente dondolando se ne andava. I due bambini restavano seduti davanti al fuoco a divertirsi come potevano, con i visetti rossi per il calore ed i vestitini impregnati dell'odore del caminetto. Seduti sul grande tappeto rosso giocavano con delle palline, con delle bambole, con degli animali finti finché non s'arrampicavano su una poltrona e uno nelle braccia dell'altra si addormentavano. Quando c'era la bella stagione, invece, seguivano il padre. Li portava, verso metà mattinata, Silvestro, un fedele domestico, che stringeva fra le sue le loro manine, e, al centro fra di loro, s'inoltrava nella campagna fra gli alberi d'ulivo con una vecchia paglia in testa. A quell'ora i lavoratori si riposavano per un po', il signor Meriggio stava seduto fra i compagni a bere del vino e quando vedeva i bambini in lontananza si alzava e li guardava sorridendo. I fratellini lasciavano le mani di Silvestro e correvano fra le braccia del padre, poi andavano da Lorenzo, lo tiravano per le braccia, gridavano, e alla fine, quando lui si alzava, giocavano tutti e tre insieme, inseguendosi, nascondendosi, rincorrendosi. Fra gli alberi gli uomini avevano tracciato dei sentieri, ma quando i bambini giocavano ne seguivano altri e poiché il terreno era scosceso, scendevano tenendosi dai rami e poggiando i piedini sulle radici che fuoriuscivano dalla terra e che formavano dei gradini naturali. Lorenzo era il maggiore e si sentiva il più responsabile, interpretava la parte del ragazzo più serio, ma quando si metteva a giocare con i fratellini era più bambino di loro. Era nato cinque anni prima di Gaetano e gli somigliava moltissimo, ma gli occhi scuri di Gaetano erano più dolci di quelli verdi del fratello; dopo di lui la madre aveva avuto un altro bambino, che era morto subito dopo il parto. Per la differenza di età che intercorreva fra i due fratelli e la minima che c'era, invece, fra Gaetano e Fortunata, solo due anni, si era venuta creando fra di loro una maggiore complicità, entrambi vedevano nel fratello maggiore un protettore, quasi un sostituto del padre, e Gaetano lo ammirava quando, nelle calde giornate estive, lo vedeva lavorare con le maniche della camicia rimboccate sui gomiti o a torso nudo, con i lunghi capelli castani che a ricci gli scendevano fino alle spalle bagnati dal sudore che gl'imperlava la fronte.
I due bambini erano terribilmente vivaci, facevano scherzi, giocavano finché per la stanchezza non si addormentavano. Nelle belle giornate erano raggiunti nel loro giardinetto dai bambini delle case vicine e qui scoppiavano liti, si facevano dispetti, tenevano fra di loro il broncio e poi tornavano a giocare più amici di prima. I bambini giocavano a fare la guerra con i soldatini che ognuno si portava da casa e davano a quegli esseri inanimati nomi che avevano sentito pronunciare a casa dai genitori. Le bambine si sedevano in cerchio e giocavano con le bambole dai capelli a boccoli e dai vestitini ornati di merletto. Una volta Gaetano, mentre muoveva sull'erba la statuina del suo generale e impartiva agli altri gli ordini, alzò gli occhi e vide una bambole vera, che si muoveva e lo guardava, in piedi, a poca distanza da lui.
Era arrivato il padrone, com'era da loro chiamato, don Bernardo era sceso dal calesse e stava parlando con sua madre. Egli teneva per mano una bambina con dei lunghi boccoli scuri intrecciati con dei nastri, gli occhi verdi, un vestitino azzurro che le arrivava fin sotto le ginocchia e con delle gonfie maniche bianche che la coprivano fino alle manine, le calze bianche ed un bel paio di scarpette nere lucide. Aveva l'età di Fortunata, otto anni, e Gaetano pensò che fosse bellissima. Era Angelica Lieto, la figlia minore del padrone. Quella fu la prima volta che Gaetano la vide e, timido com'era, nonostante facesse parlare il generale Bonaparte, dovette abbassare gli occhi sotto il suo sguardo. Don Bernardo lasciò la figlioletta là nel giardino per raggiungere i lavoratori nel campo, la signora Meriggio accompagnò la bella signorina da Fortunata e dalle sue amichette e le bambine si misero a giocare tutte insieme.
La signorina Angelica tornò spesso con il padre, ed i bambini giocavano insieme a nascondersi, a scavalcare ed a saltare i muretti, ma quando lei perdeva o sbagliava si arrabbiava e scoppiava a piangere. Se qualcuno si avvicinava per vedere cosa le fosse successo scappava via e si nascondeva dietro un albero, coprendosi il viso bagnato con le mani e rifiutandosi di farsi rivedere. Gaetano l'osservava da dietro gli ulivi e non osava avvicinarsi a lei perché aveva paura dei suoi capelli raccolti in ricci e dei suoi vestitini leggeri e belli, respirava il profumo che la circondava anche quando lei se ne andava, un giorno le toccò per sbaglio la mano e se ne pentì. Pensava che sorridesse in modo meraviglioso, le sue piccole labbra rosa si schiudevano, i suoi occhi brillanti si accendevano di una luce bellissima, la sua risata era argentina, era come ascoltare una melodia sentire la sua voce bambina impartire ordini e dare consigli poiché ella era pur sempre la padroncina, alla quale Gaetano e Fortunata dovevano obbedire. Fortunata era buona e docile per natura e accettava di buon grado i capricci dell'amica, ma alle volte non la sopportava e scoppiavano buffe liti infantili; Gaetano, invece, era soggiogato da lei e l'accontentava sempre, qualunque cosa volesse. Alle volte, nelle belle giornate primaverili, aveva il capriccio di non uscire di casa e mentre Fortunata, scocciata, la lasciava nella piccola sala da pranzo del palazzetto dei Meriggio e usciva in giardino a giocare, Gaetano le sedeva silenziosamente accanto in attesa che dicesse a cosa voleva giocare.
Un mattino la signora Meriggio stava sistemando sul tavolo in delle graziose scatoline dei nastri bianche lavorati, quando lei si voltò Gaetano allungò la mano e prese una di quelle scatole e quel pomeriggio stesso gliela regalò. Chiunque si sarebbe innamorato di quei nastri, ma Angelica, quando aprì la scatola e li vide, si arrabbiò e gli gridò che non lo voleva più vedere. Lui rimase stupito a guardarla correre via, mentre i nastri giacevano per terra, chiedendosi, in silenzio, mortificato, perché avesse reagito così.
Da quel giorno la bambina, quando veniva, continuò a giocare con lui, ma era sempre scostante e lui sempre più timido.
All'età di quindici anni s'innamorò di una ragazza come lui, della quale non aveva paura. Era la figlia di un lavoratore di suo padre, sottile, alta e chiara. L'unico timore che provava davanti a lei era di non piacergli, perciò si rivolse a che gli ispirava più fiducia, suo fratello Lorenzo. Egli gli parlò con grande sicurezza e soddisfazione, assumendo arie da grande uomo di mondo, amato da milioni di donne e intoccabile dai sentimenti. Egli offrì volentieri al fratellino dei consigli, gli disse ciò che doveva dire e fare, interpretò al posto suo gli sguardi casuali che la fanciulla lasciava cadere su di lui. Gaetano rimaneva entusiasta per una settimana se lei gli sorrideva, eppure non durò molto, non era in realtà che un'infatuazione. Ben presto al suo cospetto non provò altro che ammirazione per la bellezza, ma non c'era più quel batticuore, quell'emozione che provava prima e che continuava ancora a provare se per caso all'improvviso in piazza, al paese, vedeva la signorina Lieto. Gli pareva che il suo sguardo fosse più luminoso di quello della altre fanciulle, il suo sorriso era così radioso che non aveva paragoni. Egli era allegro, simpatico, vivace, ma davanti a lei perdeva d'un tratto la sua baldanza, restava immobile, incapace di dirle anche una sola parola, la guardava in silenzio e più passava il tempo, più gli sembrava che lei fosse irraggiungibile, troppo lontana da lui. La teneva rinchiusa di nascosto nel suo cuore e palpitava felice quando una modesta ragazzina, con la testa coperta da un grande fazzoletto, gli sorrideva. Era entrato nella Primavera della Vita.
Il grande uomo di mondo, intanto, Lorenzo, passava da un amore all'altro, come una farfalla che vola da una fiaccola all'altra e anche lui, come una farfalla, rimase, alla fine, bruciato. Visse una bella e poetica storia d'amore con una ragazza della sua età, fatta di sorrisi, sguardi e sospiri, e conclusasi con la promessa di un eterno amore ed il matrimonio di lei con un altro. Alle volte tali storie si leggono nei libri e qualcuno pensa che perciò siano false, ma nulla è più vero di un tale Amore, vero, bello e sincero proprio perché si accontenta di un sorriso, uno sguardo ridente, una stretta di mano furtiva, una lacrima sorpresa sul viso di chi si ama.
Anche Gaetano piangeva di nascosto, sognava e sorrideva a qualche bel visino voltato dalla sua parte, la vita gli sorrideva, era come se fosse sempre estate, gli sguardi delle fanciulle, gli scherzi con gli amici, gli istanti passati a studiare insieme a Fortunata erano tutta la sua esistenza.


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Ins. 30-08-2004