Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Roberto Silleresi
Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Città di Melegnano 2006, sezione narrativa

 
«L'eclisse»



L'ECLISSE Emmanuel sedeva sulla riva del fossato che circondava la baracca adibita a chiesa, sforzandosi di fissare l'eclisse anulare che bruniva il cielo in quella mattina di maggio. Aveva sangue ashanti e credenze animiste. Gli era proibito partecipare alla celebrazione di Don Timoteo e, sebbene in preda ad una paura ignota, avrebbe atteso la fine della messa per confidarsi al missionario nel silenzio della cappella.
«Padre - gridò trafelato il ragazzo, appena entrato - ho visto il sole nero!».
Con la quiete del predicatore, mentre piegava i paramenti sulle quattro assi dell'altare, Don Timoteo rispose:
«È un'eclisse, un evento naturale come la pioggia e il vento. Solo meno frequente!».
«Quando in cielo accade qualcosa di strano - ribatté Emmanuel - non è mai buon segno!».
«Se avessi partecipato alla messa avresti compreso. - spiegò il sacerdote - Ho dedicato l'omelia ad illustrare l'eclisse: l'evangelista Marco, raccontando della morte di Cristo, scrisse che, giunta l'ora sesta, si fece buio su tutta la terra sino all'ora nona. Era un'eclisse...».
«Ed ha accompagnato la crocifissione del tuo dio!», lo schernì Emmanuel.
«Non dimenticare - lo ammonì Don Timoteo - che Gesù è risorto tre giorni dopo, sconfiggendo ogni morte. Tu, invece, non hai abbastanza coraggio per affrontare l'eclisse e preferisci nasconderti ad attendere il ritorno ineluttabile del sole!».
Il ragazzo tacque e il sacerdote non spezzò quel silenzio saturo di dubbi e riflessioni. Tornò a riordinare l'altare per la messa dell'indomani. Passarono diversi minuti prima che Emmanuel chiedesse:
«Padre, quanto dista il cielo?».
Don Timoteo capì che non avrebbe dovuto rispondere come un prete. Emmanuel non comprendeva concetti spirituali come l'anima o il paradiso: era solo un giovane pastore della Costa d'Avorio che usava gli astri per portare il gregge al pascolo e ritrovare la strada verso il villaggio.
Così il missionario s'inventò una fiaba per alimentare la fantasia primitiva del ragazzo. Una genesi dove l'uomo era stato condannato a vivere sulla terra perché spaurito dagli eventi del cielo e ad invidiare, per sempre, la libertà degli uccelli, le uniche creature capaci di toccare il firmamento.
La risposta fu troppo esauriente, oppure mortificante per Emmanuel che non trovò altre domande. La sua mente si era focalizzata sul sole nero che percepiva tra le assi schiodate della chiesa.
Fissò il tremolio di un cero ed avvertì un'emozione rassicurante. Ad eclisse terminata, prima di tornare al villaggio, avrebbe chiesto a Don Timoteo la candela per stringere tra le mani quel rincuorante messaggio di luce.
Il sacerdote s'accorse che il dialogo con il giovane pastore era giunto ad un punto morto: occorreva una sensazione forte per distrarre Emmanuel nel tempo che ancora li separava dalla fine dell'eclisse. Don Timoteo aprì il logoro bauletto di cuoio che usava come tabernacolo e n'estrasse una bustina di carta sgualcita:
«Vuoi una cioccolata?», chiese ad Emmanuel, mostrandogli il contenuto dell'involucro «Senza sole, fa piuttosto freddo qui dentro!».
Il giovane ashanti rimase sbigottito:
«Padre, è proibito detenere cacao. I ribelli hanno occupato tutte le coltivazioni per controllarne la raccolta ed il commercio. Ho saputo di fratelli uccisi perché ne avevano rubato una sola manciata!».
Don Timoteo sorrise: «In questa bustina c'è meno cioccolato di quanto tu possa tenerne in un pugno. E poi, l'eclisse ci è amica: nessun ribelle avrà il coraggio di muoversi in una mattina così buia!». Il missionario era invece conscio del rischio che stava correndo. Sapeva benissimo che, finita l'eclisse, le truppe dei rivoltosi avrebbero ispezionato i villaggi dei contadini per punire chi avesse approfittato dell'oscurità per rubare i semi che venivano stesi ad asciugare al sole.
All'inizio di questo secolo anche in Costa d'Avorio, primo produttore mondiale di cacao, si stava consumando uno dei tanti conflitti civili che avrebbero modificato l'assetto politico del continente africano.
Il governo dei cristiani del sud, per quanto ufficialmente riconosciuto dalla diplomazia internazionale, era ormai in balia dei reparti dissidenti dell'esercito, dislocati nella parte settentrionale del paese e con una forte componente musulmana. Questi, infatti, esercitavano il dominio sulla nazione grazie all'occupazione di tutte le zone di coltivazione del dolce oro nero ed alla presa in ostaggio della popolazione civile: migliaia i contadini espulsi o deportati in autentici gulag per la lavorazione del cacao.
Questo ingranaggio d'odio, davanti al quale perfino le organizzazioni umanitarie apparivano impotenti, ridusse in uno stato di semi-schiavitù anche la famiglia di Emmanuel, padre, madre ed otto fratelli, che, per anni, aveva tratto un dignitoso sostentamento dalla coltivazione del cacao.
I campi furono confiscati e tutto il nucleo confinato nella misera missione di Don Timoteo con la pretesa inverosimile di trasformare una terra sterile in una rigogliosa piantagione.
Con la sua esperienza, il missionario aveva già compreso come queste azioni mascherassero solo lo sfondo religioso di una guerra, finalizzata a soggiogare le popolazioni indigene ed i cristiani e garantire il totale controllo economico sulla regione.
Don Timoteo armeggiava con due tazze di latta sul fornello da campo posto in quella che chiamava, enfaticamente, la sagrestia, nonostante fosse solo uno spazio di quattro metri quadrati inchiodato alla chiesa coi ritagli delle assi usate per l'edificio principale.
Lo faceva distrattamente: si chiedeva come avrebbe potuto spiegare i concetti di libertà e fratellanza ad un ragazzo che viveva in un paese dove l'odio era scaturito dall'adorazione di un altro dio, solo perché celebrato in luoghi e con riti diversi.
Non doveva essere una lezione di catechismo: per questo Don Timoteo, con le scodelle di cioccolata, portò diversi articoli ingialliti che aveva gelosamente conservato in una sorta d'intermittente contatto tra la missione ed il resto del mondo.
Li mise sotto gli occhi di Emmanuel mentre questi sorseggiava la bevanda con aria colpevole:
«Osserva queste fotografie - disse Don Timoteo - e di quelle che sceglierai, ti racconterò la storia».
Le fotografie che Emmanuel cominciò a sfogliare avevano un denominatore comune: erano tutte ritratti di eroi quotidiani il cui nome non sarebbe mai entrato nei libri di storia.
Il ragazzo si soffermò sull'immagine dello studente cinese che aveva fermato l'avanzata dei carri armati dell'esercito in Piazza Tien-an-men e sul volto del dalai lama bambino in fuga tra i monti più alti del mondo per ritornare al proprio rifugio in India.
L'eclisse si era conclusa da diversi minuti, quando Don Timoteo finì di soddisfare la curiosità di Emmanuel. Lo accompagnò alla porta a constatare la ritrovata normalità del cielo e lo invitò a tornare al suo villaggio.
«Padre,» rispose il giovane «io prendo questa candela accesa e tu mi accompagnerai verso casa fino a quando non si spegnerà!».
Emmanuel prese mille cautele ed il sacerdote dovette scortarlo fino al rassicurante ingresso del villaggio prima di tornare sui suoi passi. Don Timoteo, paradossalmente, si compiacque della propria preveggenza quando scorse la polvere sollevata dalle jeep dei ribelli sulla carovaniera principale. Nello spazio antistante la chiesa trovò un cellulare e, con la schiena appoggiata alla porta, un giovane sergente del quale il missionario ben conosceva la farneticante arroganza.
Il sottufficiale teneva in mano le tazze di latta in cui Don Timoteo aveva servito la cioccolata e le batteva ritmicamente tra l'una contro l'altra, con un gesto che ricordava i pugili negli attimi precedenti il combattimento.
«Queste cosa sono?» chiese il sergente con ricercata provocazione.
Il sacerdote osservò l'interno delle scodelle che aveva deliberatamente lasciato sul tavolo della sagrestia e rispose: «Direi due tazze non risciacquate!».
All'insolente risposta del missionario, il ribelle alzò una delle tazze per colpirlo ma Don Timoteo non si scansò e la sua immobilità bloccò a mezz'aria il fendente del soldato.
Il sergente ordinò allora alla pattuglia di caricare il prete sul furgone. A Don Timoteo, seduto sul pianale del cellulare, coi polsi chiusi dalle manette, sfuggì un sorriso al pensiero della sua imputazione: "detenzione e spaccio di cacao" ma una violenta frenata della camionetta lo distolse da quell'auto-ironica interpretazione della realtà.
Emmanuel si era piantato al centro della carovaniera, aspettando l'arrivo degli automezzi ribelli per bloccarne il passaggio.
Quando le prime jeep erano entrate nel villaggio per l'ispezione, aveva sperato che Don Timoteo fosse giunto alla chiesa prima dei rivoltosi; ma i riferimenti alla cattura del missionario, che i militari sbandieravano per intimorire le famiglie del villaggio, gli avevano tolto ogni illusione.
Emmanuel, volgendo la schiena alle pattuglie musulmane, si era messo a correre lungo le scorciatoie di terra che collegavano il villaggio alla carovaniera principale; nella sua mente era volutamente impressa l'immagine dello studente cinese che aveva fermato l'avanzata dei carri armati dell'esercito in Piazza Tien-an-men.
Riuscì a precedere la colonna degli automezzi in prossimità dell'incrocio principale che dirigeva verso la capitale. Il ragazzo risalì la fila delle camionette militari e, giunto al cellulare, si aggrappò alle sbarre e gridò a Don Timoteo:
«Padre, quanto dista il cielo, adesso?».
Colpito alla nuca dal calcio di un fucile, Emmanuel non udì la risposta del missionario, né il diminutivo con cui lo chiamò per la prima volta:
«Ora è molto più vicino, figliolo, molto più vicino!».
Il giovane era riverso sul ciglio della strada, si era fatto nuovamente buio ai suoi occhi ma non era l'eclisse.
Soltanto il buio amaro degli sconfitti.

Roberto Silleresi

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Città di Melegnano 2006
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 Ins. 19-09-2008