Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Roberto Silleresi
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Angela Starace 2002, sezione narrativa
Danzando nel buio
 
Lo spettacolo era terminato ed il pubblico tributò un'ovazione ai protagonisti della serata. Il maestro, l'orchestra e quel corpo di ballo, proveniente da Israele, che si era trasfigurato in un repertorio di sardane.
La tournée era finita, con quell'ultima esibizione in Catalogna. Un rapido giro d'Europa, costruito sulle città che accoglievano le principali comunità ebraiche e su uno spettacolo dal respiro etnico, la cui formula alternava la tradizione dell'antica musica giudaica a fedeli omaggi alla danza del Paese ospitante.
Quando il sipario si riaprì, per la seconda volta, i ballerini si disposero a ventaglio e introdussero l'ingresso di Michal, la coreografa.
La donna esile e raffinata, giovanissima per il suo ruolo, comparve dal retroscena con movenze avvedute, come se non volesse uscire dal sentiero di fiori che trapuntavano il palcoscenico.
In realtà stava mascherando il suo portamento claudicante, gli undici, indelebili sfregi che altrettante biglie di ferro, esplose da un Kamikaze palestinese, le avevano lasciato sulle gambe in una nitida mattina di dicembre.
Ogni passo, così misurato, le era innaturale e le provocava una fitta lanciante. Con la stessa, torpida sofferenza si chinò a raccogliere una rosa e la offrì a Vered, la sua grande amica ed ora prima ballerina della compagnia: era un gesto intrinseco, perché Vered, in ebraico, significa rosa e perché quel fiore racchiudeva l'ideale passaggio di consegne tra Michal e la sua compagna.
Il sipario si richiuse, definitivamente, ma la coreografa attese ancora un minuto prima di strascicarsi lungo le scale ed il corridoio che costeggiava i camerini.
Vered l'aspettava davanti la porta del suo spogliatoio personale con la rosa tra le mani: "Grazie" esordì accennando al fiore di cui aveva pienamente compreso il simbolico valore "ma confidavo nel nostro, e dico nostro, successo per vederti finalmente libera dal tuo passato di ballerina!"
Con tono supponente Michal rispose:
"Io non posso concepire la mia vita senza la danza, ma la danza è un arte del corpo. Una coreografa, invece, balla di cuore e di testa. Siete voi che avete dato forma ai miei pensieri ed alle mie emozioni. Mi sento come un pittore che coglie una luce speciale nel paesaggio di ogni giorno, ma non ha mani per mettere sulla tela quell'immagine e allora la spiega al suo allievo, lo segue in ogni pennellata fino a scoprire che la realtà è già mutata da come la voleva raffigurare."
Vered l'aggredì:
"Liberissima di autoflaggellarti di ricordi per tutta la vita; ma nessuno può appropriarsi del tuo dolore!"
"È vero" ribatté Michal con la solita modulazione monocorde "perché le vostre impeccabili movenze sono dettate dalla gioia. Ricordi il giorno dell'attentato quando tu gridavi di alzarmi ed io non potevo muovermi? Ecco, vorrei solo tornare a danzare, ma non sento più nessuna voce, neppure dentro me stessa, che mi incita a farlo."
"Quei suoni non si sono spenti. Tu hai smesso di ascoltarli, dimenticando, come disse il chirurgo che ti operò, che tornare a ballare sarebbe dipeso soltanto da te!"
La coreografa non ebbe modo di replicare: Gali, la più giovane componente del gruppo, l'avvertì, con infantile emozione, che un giornalista la stava attendendo nel foyer.
"Per quale rivista scrive?" Chiese Michal in un mix di insofferenza e curiosità. "Non lo so!" rispose Gali "Ha esibito l'accredito stampa e poi ha chiesto espressamente di te".
Michal zoppicò velocemente fino al vestibolo. Prima di entrare si ricompose, come aveva fatto dieci minuti prima sul palco e decise che l'inglese sarebbe stata la lingua ideale per dare un tono professionale e spersonalizzato a quell'incontro.
La donna si compiacque della sua tattica quando vide che i lineamenti del giornalista tradivano una chiara origine mediorientale. Questi, seduto su una poltrona di velluto, accolse Michal con un sorriso cordiale ma non si alzò e quell'insolenza indispose ulteriormente la donna:
"Mi ha cercato?"
"Solo se lei è Michal Keret, la coreografa dello splendido spettacolo cui ho appena assistito e di cui vorrei raccontare la storia!" rispose il giornalista in perfetto inglese.
"C'erano trenta ballerini in scena" lo provocò Michal "e, tra loro, almeno due talenti destinati ad esibirsi nei teatri di tutto il mondo nel giro di pochi anni e lei pensa che la protagonista di questa serata sia la sottoscritta!"
"Io non sono un critico artistico" spiegò il cronista "spetta a loro decretare il trionfo della vostra esibizione e predire un luminoso futuro ai giovani artisti. Io sono solo un free-lancer, cerco storie singolari da vendere al miglior offerente, e mi sembra che una coreografa ebrea, per di più claudicante ma capace di allestire un'inappuntabile interpretazione di danze catalane, possa rappresentare un punto di partenza ideale per un articolo."
"Come lo sa?" chiese Michal, confusa dalla rivelazione del suo stato.
Per tutta risposta il giornalista si levò in piedi e percorse un breve tratto del foyer zoppicando vistosamente.
"Diciamo che ho una certa esperienza in materia!" Esclamò sorridendo e rimettendosi seduto. "Posso riconoscere uno storpio quando s'impone di camminare normalmente dai lineamenti alterati, dalle contrazioni muscolari, dal profumo, intriso di dolore, che emana ogni suo gesto. Per anni ho cercato anch'io di nascondere il mio stato, frutto di un incidente automobilistico per arrivare, davanti a tutti, sul posto dello scoop. Fino a quel giorno ero stato un brillante inviato.
L'alternativa era diventare un redattore, un assemblatore di pagine, come io chiamo i giornalisti da scrivania. Ho deciso di emigrare, di mettermi in proprio ed ho smesso di correre contro il tempo. Lascio che le cose seguano il loro corso naturale e cerco solo di cogliere l'attimo per ripercorrerle a ritroso perché il passato ha il ritmo che scegliamo noi. Quando ho capito tutto questo, ho anche scritto il mio primo articolo da free-lancer. Era la mia storia, neanche tanto romanzata, eppure me la pagarono profumatamente.
Adesso vuol parlarmi di lei?"
Michal era frastornata dalla razionale autobiografia di quell'uomo e si ritrovò ad esordire con un banalmissimo:
"Mia madre mi iscrisse alla prima scuola di danza classica quando avevo solo cinque anni…"
All'inizio il racconto di Michal era un condensato di luoghi comuni, per di più esposto tra mille titubanze. Tuttavia il giornalista non intervenne mai. Incoraggiava la donna con un perenne sorriso di curiosità e ciondolava ritmicamente la testa in avanti e indietro in segno di comprensione.
Il calcolato silenzio del suo interlocutore aveva un certo effetto manipolatore: Michal non si rese conto che stava svelando la sua vita ad uno sconosciuto quando si addentrò in quei ricordi che, fino a pochi istanti prima, avrebbe desiderato rimuovere.
A quindici anni abbandonò il tutù e le scarpette di raso per dedicarsi, con adolescente incoscienza, alle danze etniche.
L'insegnamento classico, combinato ad un talento naturale, fecero della ragazzina riccioluta, dai capelli lunghi e scuri, un interprete ineguagliabile, alla quale critici predicevano, senza fatica, un futuro radioso.
Le luci della ribalta si spensero una limpida mattina di dicembre sotto il Monte degli Olivi a Gerusalemme. Un kamikaze palestinese, col suo carico di odio ed esplosivo, si scagliò contro un autobus di coloni. Michal e Vered erano solo di passaggio, dirette, come facevano cinque pomeriggi la settimana, alla scuola di danza.
Uno sciame di schegge impazzite si abbatté sulle ragazze: Vered ne uscì miracolata, Michal con tredici biglie in corpo, undici nelle gambe e due nella schiena che tolsero ogni sensibilità ai suoi arti inferiori.
Michal antepose al terrore per l'attentato quello di aver perso gli strumenti per ballare. Solo al risveglio dall'anestesia, cercando di inarcare i piedi in un esercizio che ripeteva ogni giorno, provò un dolore crudelmente liberatorio che le restituì l'interezza del suo fisico.
Dopo sei mesi di fisioterapia comprese che interezza non significava integrità.
Nelle prime sedute, dottori ed infermieri, la fissavano negli occhi e promettevano che sarebbe tornata a piroettare sul palcoscenico. Poi il loro sguardo cominciò a vagare, e con diagnosi sibilline, riversavano sulla forza di volontà le menomazioni dei suoi muscoli, delle sue ossa, dei suoi nervi.
L'ultima ipocrisia fu di mettere a disposizione la stanza della riabilitazione per ospitare gli allenamenti del corpo di ballo: una bimba sgraziata costretta all'improponibile confronto con lo stile e la maturità dei suoi compagni. Un corpo ingombrante che zavorrava la naturale evoluzione artistica della "sua" troupe.
"Fu allora che decisi di propormi nel ruolo di coreografa." concluse Michal "L'estremo appiglio per restare aggrappata al mondo della danza. Non sempre il passato ha il ritmo che scegliamo noi. I miei ricordi ballano ancora al tempo del rimpianto."
Era la battuta finale: il giornalista spense il registratore tascabile in cui aveva raccolto ogni passo dell'intervista e chiese a Michal se poteva avere un fotografia che la ritraesse in costume di scena.
"Provi nel camerino di Vered" sviò la donna. "Ha l'abitudine di tappezzarlo con vecchie istantanee!"
"Un'ultima regola" disse il cronista "Prima di venderli, sottopongo sempre i miei pezzi all'approvazione della persona che ho intervistato. lo spedirò al suo indirizzo di posta elettronica tra qualche giorno."
"Si attenga ai fatti" lo ammonì Michal, "e scriverà solo della viltà di questo corpo, signor…"
"Hamza Kheir" rispose con un inchino d'imprevedibile galanteria "nato a Betlemme, Cisgiordania, ed ora apolide della carta stampata."
Il cronista uscì dal foyer, probabilmente diretto al camerino di Vered. Michal era disorientata dalla disinvoltura con la quale, nell'arco di pochi minuti, l'uomo aveva ostentato prima il suo handicap e poi le sue origini arabe.
In un attimo percepì tutta l'ambiguità del comportamento di Hamza, ma non trovò la forza di seguirlo. Si sentiva soffocata dalla stessa sensazione d'incognito che aveva provato nel giorno dell'attentato quando le sue gambe sembravano rifiutare ogni comando.
Da quella sera, il computer portatile di Michal rimase costantemente acceso. Navigava in Internet, specialmente di notte, alla ricerca di ispirazioni per la danza e saltabeccava nei siti di medicina per cogliere l'annuncio di qualche nuova terapia che potesse risvegliare i suoi movimenti. Ma con la coda dell'occhio fissava l'angolo in fondo, a destra dello schermo, sussultando ad ogni accensione del simbolo di ricezione di posta elettronica.
Cancellò decine di e-mail prima di leggere le parole di Hamza:
"Ho scritto questo articolo attenendomi alle sue istruzioni, ma non ho potuto evitare di contrapporre alla viltà del suo corpo quella della mia anima. Non venderò questa storia al miglior offerente. Il nostro incontro può diventare il crocevia del nostro futuro. Alla fine dell'articolo, se saprà ancora scoltare la voce del suo cuore, potrà rispondere all'unica domanda che non ho avuto il coraggio di farle."
Sotto queste frasi, una foto ritraeva Michal e Vered in body e scaldamuscoli durante gli allenamenti di jazz-dance.
A cornice di quell'istantanea, l'articolo:
Mio fratello è morto in una missione suicida. Una limpida mattina di dicembre, nel nome di Gerusalemme, la sposa contesa che nessuno potrà mai impalmare, ha conficcato un'autobomba dentro una corriera di coloni israeliani: dieci morti e trentaquattro feriti.
Tra i sopravvissuti una donna: il suo nome è Michal, un'intima ispirazione per la vita attraverso la danza. il suo futuro è andato in frantumi insieme ai vetri dell'autobus: con le gambe sciancate dall'esplosione, oggi, come coreografa, può solo delegare i suoi sogni al corpo di ballo dove era cresciuta.
L'ho incontrata in Spagna, all'ultima tappa di una tournée europea…
Michal giunse alla fine dell'articolo senza capire se aveva letto un'intervista o una lettera, se era stata la vittima o la protagonista della subdola maestria giornalistica di Hamza.
Per questo passarono molti giorni prima che trovasse la risposta.
Per l'epilogo indossò il body della fotografia e caracollò debolmente sulle punte nel pallido riflesso del monitor..
Sedette alla tastiera e scrisse poche frasi, lucide e scarne come una poesia.
"Il mio rabbino ripete sempre che la verità prima libera e poi consola. Se questo vale anche per lei, non ha bisogno del mio perdono. Il mio corpo è troppo saturo di dolore per chiedere al mio cuore di spargere sale sulle ferite altrui, perché continuino a bruciare senza marcire. Possano le nostre preghiere innalzarsi un giorno dallo stesso lato del Muro del Pianto."
Michal chiuse il file e lo rimandò-intatto-al mittente.
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 Ins. 10-01-2003