Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Rino Passigato
Ha pubblicato il libro
 

Rino Passigato Una storia del Quattromila
Collana I salici (narrativa) 15x21 - pp. 72 - L. 16.000 - Euro 8,26 ISBN 88-8356-167-8

 

 
Prefazione
 
Dopo aver dimostrato di essere un Autore attento ed ispirato con diverse raccolte di poesia, questa volta, Rino Passigato si cimenta con un romanzo di pura fantasia ambientato in un ipotetico luogo alle soglie dell'anno Quattromila.
Non un luogo qualunque ma il locus immaginato e sognato dove nascono e vengono raccontate le avventure di un uomo che vive per l'appunto in tempi immaginari.
In quale luogo siamo? Ubinam gentium sumus? Cicerone si pone la domanda e la risposta è una sola: nel mondo della fantasia. L'Autore dimostra una innegabile capacità di modellare immagini e vicende secondo una interiore visione del mondo circostante con una scrittura sognante ed affabulante e nella trama delle vicende riesce a sovrapporre sensazioni, emozioni e sentimenti senza vincoli limitanti o appesantimenti narrativi.
A volte si considera la fantasia una creazione senza alcun significato nè per la nostra conoscenza nè per il pensiero ma già la filosofia classica con Platone accomunò il valore della fantasia al valore dell'arte e la vide come una intuizione irrazionale di un mondo superiore.
Anche in questo breve romanzo la fantasia è creatrice di una realtà ideale portatrice di elementi positivi e per questo forse più vera della realtà fisica perchè diventa quella dei nostri sentimenti e delle nostre passioni.
Creare un mondo è un atto di pensiero e quindi di responsabilità: i valori fantastici sono stati pensati razionalmente e hanno guidato l'uomo del quattromila nella sua ricerca.
La scelta di Rino Passigato dimostra che la sua evoluzione narrativa non è accidentale come non è fortuita la tensione a creare un coinvolgimento emotivo nel lettore che viene accompagnato man mano nelle diverse vicende umane del protagonista. A questo proposito è significativo l'incipit di "Una storia del Quattromila": Mi svegliavo che il sole era già alto. Il mio giaciglio era dentro una grotta di rocce gialle e grigie...vi avevo portato delle foglie e delle erbe secche e una volta sulla spiaggia echeggiavano le urla che forse riuscivano a dare una momentanea illusione di non essere solo. Il pensiero ricorrente era quello di sentirsi l'unico individuo vivente sulla terra e di essere arrivato chissà da quale luogo: forse la luna o magari una qualunque delle stelle esistenti.
Tutte le situazioni, i pensieri o gli accadimenti conducono ai sentimenti primordiali dell'essere umano nei quali tutti si ritrovano: i protagonisti, gli strani animali incontrati, la donna di nome Frine sono, in fin dei conti, delle immagini simboliche che si alternano con le descrizioni del mondo naturale nel quale ci si trova a vivere chissà per quale destino. Si entra e si esce dal racconto e, anche se a volte le descrizioni dei luoghi o degli animali possono definirsi oniriche, nulla viene tolto alle emozioni: un mondo per sopravvivere non è poi un gioco da ragazzi.
La presenza umana diventa universale con tutte le paure, le incertezze e gli inevitabili incontri come nel caso del primo animale, una rana che sarà chiamata Bria, incontrata all'inizio della storia: una grossa rana, dieci o venti volte il peso di un uomo, un vero anfibio gigante. Si proseguirà poi con pesci volanti, gabbiani e animali marini di ogni specie; ci si inoltrerà in una foresta con funghi e frutta in abbondanza: banane, noci di cocco, ecc...Si raggiungerà un'isola sconosciuta con piante secolari, fiori gialli e rossi dai diversi profumi e l'inevitabile incontro con un serpente grosso come un uomo, lungo una decina di metri; un gregge di pecore che pascola in un prato, si verrà in contatto con altri esseri umani nel villaggio di Nereo e finalmente la magica visione di Frine, una ragazza dal volto bellissimo, con capelli biondi che sembrano di seta, con la quale il protagonista Augeo...
 

Massimo Barile

 
Bria
 
Mi svegliavo che il sole era già alto. Il mio giaciglio era dentro una grotta di rocce gialle e grigie, su un gradino che sporgeva da una parete. Vi avevo portato delle foglie e delle erbe secche, che di tanto in tanto rinnovavo. Quando il sole entrava dalla larga apertura, che si apriva ad una decina di metri dal mio giaciglio, e con i suoi raggi luminosi scintillava sulle sporgenze nodose e scure delle rocce, mi destavo. D'un balzo ero sulla lunga spiaggia di sabbia gialla. Il mare distava circa un chilometro dalla mia grotta.
Appena arrivato all'aperto mi mettevo a lanciare urla a piena voce, che mandavano lunghi e sonori echi; rumori che mi davano la momentanea illusione di non essere solo. Mai riuscii a scoprire come fossi arrivato in quel posto e da dove fossi venuto. Sapevo soltanto che mi trovavo da solo in quella spiaggia lunga e deserta, seminata qua e là di piante minuscole; piccoli arbusti, alti pochi centimetri, che nella stagione del grande caldo si riempivano di frutta.
Ogni mattina, appena svegliato, allungavo le braccia per raccogliere i baci caldi del sole, correvo fino al mare, mi tuffavo dentro, pescavo dei piccoli crostacei, che aprivo per mangiare. Nuotavo per alcuni minuti, risalivo sulla spiaggia e camminavo in mezzo alla piccola vegetazione. Mi fermavo sui mucchietti di sabbia mossa. Sapevo che là sotto erano nascoste le grosse uova, rosse macchiate di puntini scuri. Pesavano tanto che con una mano non riuscivo a tenerle sollevate. Le appoggiavo per terra, vi facevo un buco con una grossa pietra, mi distendevo ed affondavo la bocca in quel liquido giallo e vigoroso. Una vera bontà! Dopo un poco che l'avevo mangiato mi sentivo forte da sollevare un macigno.
Un giorno stavo succhiando da una di queste uova, quando fui sorpreso da dei rumori che si avvicinavano; uno scalpicciare pesante sulla sabbia. Continuai nel mio pasto, ai passi seguì un robusto "cra, cra". Mi fermai, possibile che ci fosse qualcuno! Da anni vivevo in quella spiaggia e mai avevo incontrato anima viva; nessun animale od altro essere a due gambe che mi assomigliasse. Ero sempre solo; di giorno con il sole, di notte con lo sciacquettio del mare e le ombre rischiarate dagli astri del firmamento. A volte pensavo di essere l'unico individuo vivente sulla terra, arrivato chissà da dove; forse caduto dalla luna o da una stella.
Mi girai: a pochi metri, accovacciata sulle zampe posteriori, una grossa rana, dieci o venti volte il peso del mio corpo; un vero anfibio gigante. La schiena a squame e grossi tuberi ossificati. Dagli occhi le cadevano due grossi lacrimoni. Quello che stavo mangiando con avidità era una delle sue uova. Le parlai nel mio linguaggio, fatto allora di suoni rudimentali: "Uh, uuh, aah ...". Quella non si scompose; piangeva e deglutiva. L'osservai bene. Era tanto grande da far paura. Solo le sue zampe erano più alte di me. Un bolide di qualche tonnellata.
Dopo un bel po' mi rispose con un feroce: "cra, cra". Non lacrimava più, aveva due grandi occhi scuri, languidi, la pelle spessa e granulosa, le zampe e la bocca enormi. Per la prima volta fui assalito da un qualcosa di poco gradito, mai avvertito prima. Tremavo tutto, avevo voglia di darmela a gambe, avevo paura che da un momento all'altro quel grosso animale, poco bello, fermo a qualche passo da me, mi schiacciasse con una zampata. Mi venne istintivo di correre alla mia grotta, quel pauroso gigante non ci sarebbe potuto passare, ma non riuscivo a muovermi, avevo i piedi incollati sulla sabbia. Una frequente tremarella assediava tutte le mie membra.
Riuscii ad alzare gli occhi; le enormi zampe, la pelle grigia marrone, grossa, spessa, ossea, il ventre più chiaro, rotondo e largo, un viso su cui troneggiavano due occhi pacifici e buoni. Cominciai a calmarmi. La chiamai: "Bria, Bria". Quella tacque, rimase immobile. Le girai attorno; la schiena era tutta groppi e protuberanze.
Provai una voglia matta di salirci sopra. Mi feci coraggio e piano piano allungai le mani su una di quelle sporgenze. Lei non si mosse. Mi tirai su a forza di muscoli, appoggiando i piedi sulle scaglie che sporgevano all'infuori. Piano piano, un poco alla volta riuscii a sistemarmi al centro di quel grosso schienone.
Fu allora che la rana, come se obbedisse al mio desiderio, si alzò sulle quattro zampe e spiccò un salto lungo ed alto. A me parve di volare, tanto era grande quel salto.
Seduto ed aggrappato fortemente alle protuberanze della schiena, mi abbandonavo a quei voli.
Erano qualcosa d'inspiegabile e meraviglioso. Sentivo l'aria vorticare nelle orecchie, sotto di me vedevo la spiaggia fuggire. Venivo trasportato per decine e decine di metri, al tonfo della caduta, mi tenevo aggrappato ancora più fortemente per non cadere. A volte mi pareva di non potercela fare, di stramazzare al suolo.
Un grosso fulmine attraversò il cielo, che s'era fatto scuro e caddero dei goccioloni di pioggia. Com'era bello sentirsi addosso quel fresco sciacquio, vedere i lampi attraversare veloci il cielo coperto da neri nuvoloni e sentire il rumore dei tuoni! Ad ogni salto mi pareva di toccare le nuvole. L'acqua cadeva sempre più fitta e violenta, mi bagnava il volto, il corpo nudo, mi correva per la schiena, per le spalle, il petto, giù fino all'ombelico, mi gocciava dalla folta chioma tanto da farmi chiudere gli occhi. Non ci vedevo più. Sentivo gli scrosci taglienti dell'acqua, il respiro profondo di Bria. Mi tenni sempre più stretto alle sporgenze squamose della rana, accompagnando i rumori della pioggia con urla di piacere.
Ci fu un intervallo, in cui la pioggia calò d'intensità e potei riaprire gli occhi: il cielo, il mare, la spiaggia erano un solo ammasso di buio, a quando a quando illuminato da sprazzi di saette... Mi piaceva. L'antipatico sentimento di paura, provato poco prima, se n'era andato dalla mia mente per far posto ad un certo che d'entusiasmo e piacere assieme; il brivido di volare sulla schiena di Bria, la stravaganza di quegli scrosci spessi e frequenti...
La rana entrò in una grandissima grotta. Mi passai le mani sui capelli, sul torace; era tutto fresco, liscio e pulito. Bria si accucciò, emise un tranquillo: "Cra, cra" per invitarmi a scendere dalla sua schiena. Lanciai lo sguardo fuori dalla grotta; le furie impetuose del temporale erano passate. Alcuni raggi audaci stavano rompendo le nuvole, bagnando di riflessi d'oro le gocce d'acqua sulle pianticelle, le piscine abbondanti sulla spiaggia. E tutta quella vegetazione, prima tanto insignificante, pareva d'argento ed era punteggiata dalle bolle gialle e rosse delle bacche.
La rana si piegò all'indietro, facendomi scivolare per terra, spinse poi con le zampe anteriori una grossa pietra, e, girandosi sui fianchi, entrò nella fessura che si era aperta.
"Bria, Bria"; chiamai. Lei si fermò metà dentro e metà fuori dall'apertura. Mi guardò con due occhi dolci, mi rispose con un affrettato "cra, cra" e sparì dentro a quel buco.
Cominciai a muovermi per la grotta, con timore e curiosità assieme. Tra gli incavi delle rocce trovai delle erbe, simili a muschi. Erano commestibili. Ne mangiai a sazietà.
Poco più avanti, sulla parete della grotta, illuminata dalla breve luce che arrivava dall'entrata, una lapide; delle parole, dei numeri. Il mio linguaggio era fatto di pochi versi, quella era una lunga scritta, lasciata da uomini intelligenti ed emancipati.
Me la ricordo pressappoco così: "Qui, nel 3020 d.C. dimorarono gli ultimi dei terrestri". Chissà quanti anni erano passati da allora! In realtà non ero in grado di sapere che anno fosse. Più sotto c'erano ancora queste parole: 'Siamo gli ultimi scappati alle energie antibiologiche, alle radiazioni letali create dall'uomo e fuggite dalle sue mani'.
Osservai incuriosito più volte quelle parole, le impressi nella mia memoria vergine e non ci feci caso alcuno. Per me esistevano solo il mare, il cielo, la spiaggia con le sue piante minuscole, la grotta, dentro cui dormivo e la voglia di gridare di gioia alla luce del sole, alle saette dei temporali, ai bagliori della luna.
Rimanevo per delle ore sulla battigia, percorso da brividi di stupore ad inseguire i cavalloni del mare in burrasca; s'alzavano, si rincorrevano, s'afflosciavano, si stritolavano sulla spiaggia. Il loro rumore tenero e scrosciante, violento e dolce!
Avevo incontrato un altro essere vivente, Bria, una rana gigante. Ora lei s'era eclissata dentro a quelle rocce. Ero rimasto solo davanti alle lapidi scolpite da chissà chi e chissà quanti anni prima e le rocce coperte di muschi ed erbe. Attesi. Cercai dei pezzi di pietra appuntiti; sotto le lapidi, dove la parete era più liscia, disegnai una rana gigantesca, un disegno elementare, come meglio riuscii a fare.
Mi guardai in giro; silenzio e solitudine, di Bria non c'era più traccia alcuna. Ad un certo punto, la parete della grotta fu scossa da un tremito, caddero dei sassi. Ristetti immobile ad attendere cosa stesse accadendo. Dopo di quella leggera scossa tutto tornò normale.
Pensai di cercare la mia amica. Piano piano, timoroso m'affacciai alla larga fessura, per la quale lei era passata. Vi allungai lo sguardo; buio e silenzio cavernoso. Rimasi incerto per alcuni istanti, dopo dei quali corsi fuori della grotta a cercare la pianta infiammabile. Camminai qua e là per la spiaggia, dietro una piccola duna di sabbia scorsi dei ramoscelli spogli, grigi e polposi. Erano quelli che cercavo. Ne raccolsi alcuni e li portai con me nella grotta. Cercai due sassi del fuoco, li sfregai ed accesi un rametto. Una piccola fiamma bluastra si rifletteva sui cristalli delle rocce. Mi portai dietro parecchi ramoscelli spenti e, facendomi luce con quello acceso, passai attraverso la fessura e feci la strada, che poco prima aveva percorso Bria.
Quella piccola fiammella mi permetteva di vedere solo qualche metro intorno a me. Ero circondato da rocce grigie e marroni, secche, aride. Avanzavo con il cuore gonfio di desiderio di ritrovare la mia amica. Forse quella era la sua casa. Entrai per un passaggio, che c'era sulla parete di destra, largo una decina di metri ed alto chissà quanto. Nessuna traccia di vita, neanche vegetale; solo rocce aride di colore giallo; parevano la sabbia della spiaggia indurita. Mi girai indietro; in lontananza una breve lama di luce che passava attraverso la fessura d'entrata. Davanti a me solo buio e silenzio.
Camminavo vicino alla parete di destra, quando incontrai un'incavatura. Vi entrai; una stanza rettangolare di pochi metri.
Vi erano disegnati molti segni di croce. Quello che mi tenne con il fiato sospeso fu una statua, chiusa nelle rocce, gialla come le pietre stesse. Alzai la fiammella della luce e guardai; un volto umano, due gambe, due seni, un sesso liscio. Di sicuro un essere vissuto anni ed anni prima di me; mi assomigliava, solo che aveva due grossi seni e gli organi del sesso appiattiti. Che strano!
Più sotto un'altra di quelle sculture fuse con la roccia.
Curiosai: questa era del tutto uguale a me; il torace liscio e muscoloso, gli organi del sesso ben pronunciati. Di sicuro erano esistiti uomini di due sessi diversi; il primo fragile e mingherlino, il secondo robusto, con fattezze del tutto simili alle mie.
Sentii provenire dalle altre cavità della caverna dei rumori, che si ripetevano in echi profondi ed atoni. Pensai a Bria. L'avrei ritrovata. Uscii da quell'incavatura quadrata, stupito per ciò che avevo appena visto; due esseri umani simili a me, fossilizzati nella roccia.
Camminai, ad un certo punto mi trovai la strada sbarrata da un'alta parete rocciosa. Pensai per dove potesse essere passata Bria. C'erano dei fori piccoli, attraverso cui io stesso sarei passato a fatica. Sull'angolo ne notai uno largo ed alto qualche metro. Vi entrai. Nella nuova caverna le rocce non erano più brulle; vi era seminata qua e là qualche piccola pianticella verde, gialla, polposa con su delle bacche. Mi venne voglia di mangiarne qualcuna; ma non le conoscevo, temetti che fossero velenose.
Camminai per un bel po', facendomi luce con il ramoscello acceso che tenevo in mano. Della mia amica nessuna traccia. Pensai alla strada che avevo percorso, avevo paura di perdermi in quelle cavità buie e senza uscita. Per il cibo mi sarei potuto arrangiare con le pianticelle che crescevano sulle pareti. Ma bere...
Non avevo incontrato nessuna polla d'acqua, i rami del fuoco sarebbero durati ancora qualche ora. E poi? Ci sarebbe stato il buio, senz'acqua, smarrito in un mondo sotterraneo... Sconcertato, impaurito ero lì lì per tornare indietro, quando udii dei versi del tutto simili a quelli che faceva la mia amica.
Lanciai il mio urlo di richiamo: "Uuh, uuh". Un tonfo e Bria mi capitombolò davanti. Finalmente l'avevo ritrovata. Mi sentii rifocillato; non pensai più alla paura, all'acqua che non trovavo, alla via d'uscita. Mi chiesi subito come la rana ci vedesse in quel buio. Guardai i suoi occhi vitrei, buoni, grossi come un melone; vi partivano due consistenti raggi rossi; parevano due fanali. Seguii la loro direzione; cadevano sulle pareti della caverna, illuminandole d'una piacevole luce rossa. Potei ammirare quelle rocce grigie, gialle con chiazze di colore blu cobalto.
Ero sempre più entusiasta delle mie scoperte: le statue umane fuse con la roccia prima, ora i due occhi portentosi di Bria. Dopo un poco questa cominciò a spostarsi lenta e pesante sulle quattro zampe, ad ogni suo movimento dovevo fare un corsettina per tenerle dietro. Accesi un altro ramo della luce; il primo s'era consumato.
Continuai a seguire Bria, che intanto era entrata in una cavità larga e spaziosa. Dei "cra,cra" teneri, sottili. Guardai; due ranocchi della mia statura stavano saltando sulla groppa della madre. Lenta, docile si mise a dondolarli piano piano, si fermava, poi riprendeva a cullarli.
La scena durò per un bel po', quindi la rana si avviò lentamente con i suoi due marmocchi sul dorso alla volta della caverna principale, quella larga, da cui eravamo entrati. Si fermò davanti ad una sporgenza di roccia liscia e quadrata. La spinse, la pietra si sollevò e ne uscì un rigagnolo d'acqua. Bria curvò la schiena, i due piccoli bevvero.
Ero stupito, trasognato, divertito. Avevo trovato degli altri esseri viventi e di certo ne esistevano ancora di specie diverse. Pensavo che in qualche parte della terra sarebbero potuti esistere degli esseri umani, simili a me ed a quelli che avevo scoperto nella caverna fossilizzati.
I piccoli scesero dal dorso materno e si misero a saltellare avanti ed indietro. Si fermavano qua e là per mangiare qualche foglia dalle pianticelle che crescevano sulle rocce. Fui colpito da dei fiori, fatti a forma di bolle tonde, con petali rossi addossati ed un polline azzurro, polveroso. La mia amica ne staccò uno e me lo diede. Era d'un sapore dolce e delicato, qualcosa di veramente buono.
La rana era diventata impaziente. Si muoveva avanti ed indietro, emetteva del nervosi "cra, cra". I piccoli intanto s'erano allontanati. All'inizio avevo pensato che fosse per questo; ma poi intuii che non voleva che la seguissi. Si mosse piano piano, girandosi a quando a quando per guardare cosa facevo.
Mi ero fermato. Avanti un centinaio di metri lei passò attraverso ad una fessura della roccia. Non riuscivo più a vederla. Gonfio di curiosità, appoggiai per terra il rametto della luce e piano piano, a tentoni, attento a non far rumore, inciampando talora su qualche sasso, arrivai fino all'apertura, dentro della quale la mia amica era sparita.
Il bagliore dei suoi occhi rischiarava discretamente quell'antro spazioso; le pareti che cadevano a picco, qualche sporgenza, dei pezzi di pietra seminati qua e là per terra. Tutto d'un solo colore rosa cenere. Lei era accucciata sopra un piccolo buco del suolo e spingeva con forza. Piano piano, a fatica riuscì a far cadere dentro al buco un uovo gigante, simile a quello che avevo mangiato sulla spiaggia. Si sollevò, con gli arti anteriori prese una grossa pietra e la sbriciolò, sbattendola per terra. Così fece con altri sassi, fino a che ebbe formato un bel mucchietto di terriccio, con il quale coprì l'uovo. Era sudata e lacrimava.
Pudore, vergogna e paura che potessi mangiarle l'uovo mi spiegavano perché lei si fosse appartata.
Piano piano tornai al mio posto, ripresi in mano il ramo acceso ed attesi. Non tardò ad arrivare. Era contenta, si scuoteva tutta, formulava degli allegri "cra, cra". Si piegò sulle zampe per permettermi di salire in groppa. In pochi lunghi passi fummo all'aperto, un salto e mi trovai sulla riva del mare.
L'immensa distesa azzurra si allargava lucciolante di crespe iridescenti, qualche scoglio solitario bucava la tranquillità dell'acqua. Io ero immobile sul dorso della rana, mi tenevo aggrappato alle pronunciate sporgenze. Osservavo il mare e pensavo se di là dell'orizzonte ci potesse essere un'altra terra, abitata da esseri umani o da altri animali. Cosa non avrei pagato pur di saperlo!
Fui distolto dai miei pensieri da un brusco salto della rana, lungo, sopra la superficie del mare. Cademmo in mezzo all'acqua. Girai lo sguardo a destra e a manca; non vedevo più la spiaggia; davanti, dietro, solo acqua azzurra, trasparente, infinita. Sotto di noi ancora acqua azzurra, qualche minuscolo anfibio che scivolava veloce attorno la pancia della rana: pesci mai visti prima, che non sapevo esistessero. Dilatavano le piccole branchie. Erano belli: la coda azzurra, i riflessi d'oro od argentei.
La rana pedalava veloce sulla superficie del mare. Guardavo stupito quelle bellezze, quando fui vinto dalla stanchezza e mi appisolai.
 
Nel fondo dell'oceano
 
Mi svegliai nel fondo del mare, sopra una roccia corallina. Bria mi stava applicando sul viso delle grandi foglie spugnose, grosse, spesse, bianche, a bolle blu, che producevano ossigeno, permettendomi di respirare. I miei occhi ci vedevano perfettamente.
Ero nel fondo dell'oceano. Sopra di me stavano nuotando le specie più disperate di pesci. Mi alzai in piedi. La mia amica saltava, si tuffava, si muoveva avanti e indietro; si trovava a suo agio in quel posto. Mi mossi, camminando sopra una roccia azzurra, corallina, meravigliosa.
C'erano piccole piante e pesci minuscoli che entravano ed uscivano dai buchi delle pietre. Parevano farfalline verdi, iridescenti. Correvano a coppie, avanti ed indietro, aprivano la bocca per inghiottire dei granelli di polline portati dalla corrente. Sopraggiunsero due grossi anfibi, le ali simili a quelli d'una manta. I piccoli pesci corsero a rifugiarsi come meglio poterono nelle crepe azzurre delle rocce. Come arrivavano prendevano il colore delle pietre, diventando così invisibili. Qualcuno finì nelle fauci dei grossi anfibi.
Ero incuriosito, stupefatto. Di tutta la fauna marina, che qualche minuto prima scorrazzava avanti ed indietro, non erano rimasti che i due anfibi feroci; due pipistrelli giganti, le ali squamose, due occhi rossi infernali. Facevano paura soltanto a vederli.
Appena s'accorsero di me, si fermarono. Poi uno dei due, quello dalle ali screziate di grigio, mi diede un poderoso colpo con la coda. Caddi tramortito; quello mi fu subito sopra con la bocca spalancata, due denti bianchi grossi ed aguzzi. Pensai al peggio. Tremai, ebbi la forza di mettermi supino. Il bestione viscido, nero, gli occhi rossi, mi era sopra. Allungai le mani verso l'alto per allontanarlo. Quello intanto si era fermato, e non so se con le grosse branchie o con la bocca faceva un rumore simile ad un sommesso colpo di tuono e sbatteva le ali. Era qualcosa di inverosimile e pauroso.
L'altro era fermo qualche metro più indietro. Non mi rendevo conto di cosa stesse per succedere; ero tramortito, pieno di paura. Ero lì lì per svenire, quando il grosso anfibio si girò su se stesso e raggiunse la campagna. Mi alzai in piedi. I due pesci erano uno accanto all'altro, sbattevano ora la coda ora le ali, ora si mettevano muso contro muso e si lisciavano.
La mia amica intanto era tornata e si era accovacciata accanto a me. Mi rincuorai. Il fondale era azzurro e rosa, duro, corallino, interrotto qua e là da dei brevi canali. Non vedevo nessun tipo di vegetazione sottomarina. Era la prima volta che mi trovavo nel fondo del mare; ma posso dire che era qualcosa di meraviglioso. Mi muovevo facilmente come se il peso del mio corpo si fosse dimezzato e quello che trovavo più strabiliante era che respiravo come un anfibio, grazie alle foglie applicatemi da Bria.
I due brutti pesci si mossero, ventilando le ali. Li seguimmo, io camminando sul fondo, la mia amica nuotando leggera. Oltrepassammo una foresta di piante acquatiche, gli alti fusti gialli, le foglie lunghe e strette, simili ad aghi di pino, bianche come la neve. Il fondo era diventato sabbioso, grigio, qua e là vi uscivano delle piccole bolle d'acqua; evidentemente sotto vi erano dei nidi di crostacei.
Poco lontano dallo strano bosco sottomarino, adagiato sul fondo, c'era il grosso relitto di una nave. I pesci alati vi entrarono da una porta. Li seguimmo. Dentro era quasi buio; ma grazie agli occhi di Bria ed ai bagliori bianchi del bosco, potevo vederci: dei teschi, degli scheletri umani, una gabbia toracica con dentro tante uova della forma e della dimensione d'un dito circa.
I due pesci vi si fermarono sopra. Uno vomitò una bava verdognola, gelatinosa, simile a liquido di bile, che coprì completamente le uova e si sparse per terra. I due pesci si tirarono indietro. Le uova cominciarono a muoversi, a prendere vita; s'erano formati dei piccoli vermiciattoli, che si spostavano rapidi. In poco tempo quella turba schifosa aveva invaso la stanza.
Raggiunsi Bria, che mi stava attendendo fuori dal relitto. Possibile che quei pesci con le ali, in un primo stadio della crescita, avessero avuto quella forma! Pensavo ed intanto mi girai a curiosare; eravamo a qualche decina di metri dal relitto, dietro di noi c'era la folla delle piante dalle foglie bianche.
Uno dei pesci alati s'era avvicinato ai vermi e li stava inghiottendo. Erano tantissimi, brutti, nauseanti, ancora coperti dalla bava verdognola. Li mangiava. L'altro pesce cercava di allontanarlo a colpi di coda. Saziatosi, l'anfibio chiuse le ali e si adagiò in un angolo. I piccoli esserini gli furono subito addosso, gli coprirono la pancia, gli immobilizzarono le ali. Il compagno intanto se n'era andato per conto suo. Il pesce cercò di scuotersi; ma un vero esercito di quei piccoli vermi lo aveva ormai coperto, sopraffatto, alcuni gli avevano occupato la testa; tutto il corpo era invaso da una miriade di vermiciattoli, che vi si affondava sopra, si muoveva, lo soffocava.
Si udì un suono simile ad un lungo fischio, poi un rumore come un rutto. Gli occhi del pesce da rossi diventarono turchini, poi grigi, si spensero e tutto quell'ammasso cadde senza vita al suolo. Bria assistette alla scena vicino a me e poco lontano s'erano fermati anche due grossi pesci. Erano qualcosa di eccezionale; verdi e trasparenti che si potevano vedere dentro; una grande lisca lunga tutto il corpo, un cuore che pompava un liquido nero in un circuito di arterie e vene. Morto il pesce con le ali, i due grossi anfibi trasparenti si allontanarono, lasciandosi dietro una scia luminosa.
Bria guardava attenta. La folla di piante, che era a pochi metri da noi, ad un certo punto cominciò a piegarsi ed a scuotersi, facendo cadere una buona parte delle foglie, grossi aghi bianchi che coprirono l'acqua fino ad impedirci di vedere. Bria osservava ferma con le zampe anteriori alzate. Quando quel fiottare di foglie bianche, simili ad aghi di neve, si fu diradato, i grossi tronchi cominciarono a muoversi. Pareva che mi corressero dietro. Non credevo ai miei occhi. Il fondale sotto ai fusti si sollevava e ne uscivano le radici , simili a lunghe zampe, su cui le piante poggiavano e venivano avanti; sempre più vicine, sempre più addosso.
Cercai di fuggire; ma ero circondato da quella strana foresta, che mi chiudeva sempre di più, piegando i fusti, allungando i rami verso di me, come se mi volesse acchiappare. Un pauroso spostarsi d'una moltitudine di alberi, circondata da uno sfarfallio di foglie bianche.
Cercai di correre con quanto fiato avevo in corpo. Inciampai su un'anguilla grossa come un serpente. Non riuscii a rimettermi in piedi. Quei giganti muti, freddi, si avvicinavano imperterriti, ormai erano a pochi metri; sarei potuto finire inghiottito da quella folla senz'anima. Respiravo male, le foglie spugnose si stavano esaurendo. Con il fiato che mi restava chiamai Bria. Un tonfo e me la trovai davanti. Con una zampa mi caricò sulla schiena e mi portò lontano da quella foresta mostruosa.
Nell'acqua non si vedeva che quella pioggia spessa e frequente di foglie bianche. Ero sul dorso della mia amica e stavamo salendo verso la superficie. Di sotto la folla di piante si muoveva, invadendo tutto il fondale; il relitto della nave era scomparso, le rocce coralline, le alghe, i muschi erano stati inghiottiti dalla folla di fusti grigi e bianchi. Sopra di me intravedevo l'oro del sole, che si rifrangeva sull'acqua dell'oceano, tingendola di mille colori: il giallo, il verde, il rosso.
Finalmente mi trovai all'aria, sulla schiena della rana, che nuotava verso levante. Mi dolevano le orecchie, il naso sanguinava, avevo la testa intontita. Le foglie spugnose, che avevo sul viso e sul collo, si sciolsero all'istante. Un liquido verde cominciò a scendermi sulle spalle; mi faceva caldo, molto caldo.
La rana nuotava instancabile, io mi tenevo aggrappato alle sporgenze della schiena, cercando di non addormentarmi. Dopo circa un ora mi passò il malessere. Allungai la vista; una distesa azzurra senza fine. Mi girai indietro. Quanta strada avevamo percorso dopo la riemersione? Chissà dove mi avrebbe condotto la mia amica! Avevo fame e sete. Mi venne voglia di bere quell'acqua limpida. Ne raccolsi con le mani chiuse a coppa.
Bevvi; era amara.
Il cielo era pieno d'azzurro e dell'oro del sole. Chissà da quanto tempo eravamo in quel mare! Io potevo restare qualche giorno senza mangiare e non sentirne il bisogno. Avevo sete, la bocca amara e crampi allo stomaco. Guardai avanti nella direzione verso cui stavamo andando. Dei puntini neri nel cielo, che, come si avvicinarono, riuscii a distinguere bene. Erano dei gabbiani. Li osservai; piroettavano per l'aria, allargavano le ali, le fermavano, cadevano a picco fin sulla superficie del mare e tuffavano il becco per catturare qualche pesce.
Più avanti, lontano lontano, una macchia scura, che con il passare del tempo si colorava verde; erano delle palme ed altre piante. Stavamo per approdare su un'isola piena di vegetazione.
Bria mi depositò a terra, spiccò uno dei suoi salti e sparì.
M'incamminai da solo per una distesa seminata di alberi e cespugli, che via via s'infittivano. Era una foresta. Vi trovai funghi commestibili ed un'infinità di frutta; banane, ciliege, noci di cocco... Mi riempii la pancia e potei anche bere in un fiume che passava là in mezzo. Ero solo; comunque in quell'isola avevo visto dei gabbiani e chissà quali altri esseri vi avrei incontrato.
 

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