LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Patrizia Ieraci

Patrizia Ieraci è nata il 25 agosto del 1978 a Milano, dove risiede tuttora. Ha vissuto a Messina durante gli anni della scuola, città a cui si sente ancora estremamente legata. Si è laureata in Lettere classiche nel 2005 all'Università Statale di Milano. Ha frequentato un master in Scrittura Creativa all'Università degli studi di Siena. Si definisce una persona timida e introversa che trova nella scrittura la possibilità di esprimersi veramente.

Il saluto.
 
Mi torna in mente ogni volta che al mattino c'è il cielo coperto di nuvole. Non perché quel giorno ci fossero le nuvole, per la verità non mi ricordo com'era il tempo. Il ricordo si associa alla nuvole solo perché il cielo grigio è triste. Infatti è un ricordo triste.
Quel giorno non le ho detto neanche addio.
Non l'ho accompagnata al treno. Lei ci teneva, mi aveva detto, l'unica cosa piacevole di un addio, secondo lei, stava proprio in quell'ultimo saluto al vento mentre il treno si allontana.
Ma a me non piacciono gli addii e non mi sono fatto vedere quel mattino di marzo alla stazione. Lei mi deve avere aspettato invano sulla banchina, poi deve essere salita sul treno e affacciata al finestrino continuando a sbirciare e pensando a che cosa poteva essere successo che mi stava facendo tardare. Non lo sapevo che non l'avrei rivista mai più? Perché non mi sbrigavo a correre a salutarla? Il fischietto del capostazione deve avere dato il via, il treno deve essere partito e quell'ultimo saluto al vento lei deve averlo dato alla banchina vuota.
Se ne è andata per sempre. In fondo lo sapevo che non sarebbe rimasta per molto e sapevo anche che era sposata. La sua vacanza era stata breve, lo sapevo. Per questo non ho versato neanche una lacrima benché mi premesse sugli occhi.
L'avevo amata. Per due settimane l'avevo amata.
In ogni caso quel mattino non ero andato al lavoro, avevo preso un permesso tempo prima quando pensavo che l'avrei accompagnata in stazione. Ne ho approfittato per disegnare un po': non ne avevo avuto il tempo da mesi. Sono rimasto chiuso nel mio tugurio di periferia e mi sono messo davanti al cavalletto. Ho provato a mischiare i colori e a inumidire il pennello. Avevo voglia di dipingere, ma non sapevo che cosa. Ero convinto che bastasse avere l'ispirazione e poi la mano si sarebbe mossa da sola, ma mi sono reso conto di non essere tanto genio, perciò mi sono rassegnato che non avrei combinato nulla se non avessi avuto bene in mente che cosa disegnare. Certo non avrei disegnato lei, sarebbe stato patetico. Lei mi aveva chiesto tante volte di poter posare per me, anche nuda. E che ne avrei fatto nel dipinto? Lo avrei guardato a baciato nelle notti di nostalgia? Ma via!
"Puoi regalamelo." Mi aveva detto.
No, assolutamente, la trovavo una cosa troppo sdolcinata. Finita una storia si passa avanti, insomma, così almeno dovrebbe essere. In realtà per me non era esattamente così semplice. Lei era stata la mia prima donna e avevo quasi trent'anni. "Colpa della timidezza, o degli occhiali." Mi dicevo.
L'avevo incontrata ai giardini pubblici, dopo il lavoro andavo sempre lì a fare un giro in bicicletta, e poi mi sedevo su una panchina a leggere il giornale che al mattino avevo solo fatto in tempo a sfogliare in metropolitana. Di solito sceglievo una delle panchine a ridosso del vialetto affacciato sulla strada. Erano quelle meno ambite per via del rumore e del traffico troppo vicini, perciò erano sempre libere e soprattutto al riparo dall'assalto e dalle urla dei bambini nelle giornate di sole.
Lei era scesa da un taxi, aveva in bocca una sigaretta spenta. Si è messa a frugare con insistenza nella borsa, poi con stizza è passata alle tasche della giacca. Ho intuito qual era il suo problema e le ho detto che io avevo da accendere, se voleva. Lei non ha capito subito da dove era venuta la mia voce. Io mi sono alzato dalla panchina e avvicinato al recinto che separava il parco dal marciapiedi e lei mi è venuta vicino sorridendo. Ha detto un: "Ma grazie."
Ho tirato fuori dalla tasca l'accendino e gliel'ho passato attraverso le sbarre. Lei lo ha preso, si è accesa la sigaretta e me lo ha restituito.
"Lo tenga. Tanto io non fumo più." Mi sono schermito.
Lei ha borbottato: "Beato lei," mentre assaporava il fumo con piacere.
Eravamo rimasti lì a parlare un po', divisi dalle sbarre del recinto. Del fumo, voleva sapere come avevo fatto a smettere di fumare, mi ha raccontato dei suoi innumerevoli inutili tentativi. Poi è scattato qualcosa, quelle sbarre fra noi sono diventate troppo ingombranti, ci siamo incontrati sulla porta del parco. Dopo lei è venuta a casa mia, abbiamo fatto l'amore. Così per due settimane. Lei si faceva trovare alla solita panchina, parlavamo due minuti, poi andavamo a prendere la metropolitana fino a casa mia. Non ero più andato al parco in bicicletta dopo il primo giorno.
All'inizio non lo sapevo che era sposata, non portava la fede. Non sapevo neppure che fosse in vacanza. Non sapevo nulla di lei.
Forse è stata questa vena di incertezza a rendere magica la nostra storia, quasi una sfumatura di irrealtà. Il primo giorno non conoscevo neanche il suo nome. Glielo avevo chiesto all'ultimo come si chiamava, mentre stava salendo sul tram per andarsene.
Ero talmente emozionato che non mi ero posto nessuna domanda. Già mi vedevo a vivere con lei per sempre, magari prendendo in affitto un appartamento un po' più grande del mio monolocale, del resto avevo appena avuto un aumento di stipendio. Avrei anche potuto riprendere a dipingere, perché no? Fare qualche mostra e guadagnare qualcosa. Sentivo che la vita mi inebriava le membra assopite da quella passività disillusa che mi dominava da anni.
Ma mi confessò che era a Milano in vacanza e che era sposata. Aveva anche una figlia.
Avevamo appena fatto l'amore, eravamo stretti sul letto, lei stava fumando. Fu come un secchio d'acqua fredda buttato addosso.
Non avevo voluto vederla per due giorni, non ero andato al parco a incontrarla e avevo spento il cellulare. Poi mi ero ricreduto. Che cosa mi aspettavo? Che l'amore fosse piovuto dal cielo all'improvviso? Tanto valeva divertirsi fino a quando lei non sarebbe tornata da suo marito.
Ritornai a prenderla al parco, come ogni giorno, verso le cinque, il tempo di arrivare dalla periferia.
Lei era sempre imbronciata, lo era sempre stata fin dall'inizio. Anche quando sorrideva aveva un velo d'ombra proiettato sulle palpebre un po' appesantite sui suoi occhi nerissimi.
Prima non ci avevo fatto caso, ma ora forse potevo capire.
"Ti senti in colpa?" le domandavo "Per tuo marito?"
Lei scrollava le spalle e non rispondeva. Mi cercava le labbra e mi baciava. Il velo d'ombra sugli occhi non era scomparso.
Un giorno mi ha chiesto di fare una passeggiata insieme, proprio come una vera coppia di fidanzati. Tanto a Milano non la conosceva nessuno, che bisogno c'era di nascondersi in casa mia come due amanti?
"Ma noi siamo amanti." Ho azzardato.
Lei è scoppiata a ridere. "Hai ragione." Ha soggiunto tornando seria.
Ho deciso di assecondarla e le ho proposto di andare al cinema. Era lo spettacolo del giovedì pomeriggio e oltre noi c'erano solo una coppia di anziani e un giovanotto da solo che si era seduto in una poltrona della scomodissima seconda fila.
Usciti dal cinema siamo andati in un caffè del corso, uno di quelli in cui non mi sarei mai sognato di bere neanche un bicchiere d'acqua al banco col mio insipido stipendio da impiegato, ma non ho rimpianto quello sprazzo.
Mi sentivo felice e anche lei sembrava esserlo. Il velo d'ombra sugli occhi era quasi scomparso ed era anche particolarmente colorita sul viso.
"Deve essere perché al cinema c'era troppo caldo."Ha detto sorridendo quando gliel'ho fatto notare.
Stavo così bene con lei, mi salivano alle labbra mille domande da farle, di suo marito, del perché lo stava tradendo con me.
Ma temevo che quel velo d'ombra sugli occhi sarebbe riapparso. E poi parlarne non serviva proprio a niente. Mi aveva già detto che sarebbe ripartita alla fine di quella settimana e che io ero stato un bel diversivo in una vacanza indimenticabile.
Che senso aveva tutto ciò? Cosa voleva da me? Evadere per qualche giorno dalla routine della sua vita familiare per poi tornarvi più libera e affettuosa che mai? Solo questo? Probabile. E io che non avrei esitato a portarla all'altare, mia madre ne sarebbe stata felicissima.
Mi sono scosso, imposto di tornare alla realtà. Le mie fantasticherie stavano prendendo una brutta piega. L'importante era quella giornata in cui stavo bevendo una tazza di cioccolata con lei in quel caffè.
Due giorni dopo se ne è andata per sempre. La sera prima avevamo fatto l'amore. L'indomani eravamo d'accordo che l'avrei accompagnata in stazione, perciò non c'era stato nessun sapore di addio. Mi ha salutato col solito bacio. Il velo d'ombra, come di consueto, le abbassava le palpebre.
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Agg. 12-03-2007