LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
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Michele Crocco
 
 

RICORDI D'ESTATE
 
Che bella sorpresa ho trovato in soffita, insieme a scatoloni pieni fino all'inverosimile di cianfrusaglie da buttare. Sono le foto del casolare dei miei nonni, in un paesino calabrese nei dintorni di Cosenza, dove fino a qualche tempo fa trascorrevo le vacanze estive in compagnia dei miei genitori, anche loro calabresi, ma trasferitisi per lavoro a Milano, un anno dopo la mia nascita. Mi mancano quei posti, ma ora il lavoro e la vita frenetica che faccio qui mi assorbe completamente; mi sento un po' in colpa, però, per aver messo da parte le mie origini in questo modo, cosa che non avrei mai creduto possibile da bambino, quando contavo i giorni che mi separavano dall'arrivo dell'estate, e quindi anche dal ritorno in Calabria.
 
Lì avevo tanti parenti ed amici che rivedevo con gioia, quasi ogni anno. Solo una volta non tornai giù per l'estate, e fu quando mio padre si ammalò; fu un'estate tristissima, con mamma sempre a piangere in cucina e papà che faceva finta di essere allegro per tirarci su di morale, ma con scarsi risultati. Io ero all'oscuro di tutto, questo almeno credevano i miei, e questo feci credere loro per non turbarli ulteriormente; e questa situazione fece si che in casa non si parlasse quasi mai, per evitare di affrontare l'argomento tabù, e così lunghi silenzi imbarazzati avevano sostituito le parole. Non seppi mai di preciso la malattia che mio padre aveva avuto, ed in seguito non mi interessò più, visto che fortunatamente guarì: fu facile per me capirlo, perché non vidi più mia madre piangere da sola in cucina, e mio padre non doveva più fingere di essere felice, perché lo era davvero.
 
Quella fu l'unica estate in cui non ritornai in Calabria, per il resto le mie vacanze estive le trascorrevo sempre lì.
 
Ricordo ancora com'era bello fuggire per qualche mese dal grigio e dal caos di una metropoli come Milano, e tuffarsi corpo e mente in un posto dove tutto aveva un aspetto più umano, dove i rapporti fra le persone erano più importanti degli affari, e dove le tradizioni conservavano il loro vero valore.
 
Ogni anno al momento di partire compravo tanti dolcetti e figurine dei calciatori da portare a cuginetti e amici, che apprezzavano sempre tanto. Partivamo tutta la famiglia con l'auto che papà aveva acquistato usata, e che si ostinava a definire un affare, anche se nel tempo in cui quell'auto era stata nostra, era quasi sempre dal meccanico, per "piccolezze, come succede ad ogni auto", questa era la risposta imbarazzata di mio padre quando mamma glielo faceva notare. Quando arrivavamo al casolare da nonna, ad attenderci c'erano tutti quanti: nonna e nonno, zio Alberto e zia Giulia, con i figli Nicola e Paola, zio Mario e zia Teresa, e le tre figlie Jessica, Nunzia e Sara, e tutti i vicini di casa, amici dei miei genitori, anch'essi felici di rivederci. Gli uomini erano quasi tutti in pantaloncini corti e magliette a mezze maniche, mentre le donne indossavano delle vesti svolazzanti tutte colorate. Nicola, il mio cuginetto preferito, aveva sempre il pallone in mano, ed io vedevo già da lontano che fremeva per fare una partita. Sembrava sempre una festa, dove noi eravamo gli ospiti d'onore. Con gli occhi lucidi per via della gioia, salutavamo tutti e li ringraziavamo per quella meravigliosa accoglienza, capace di emozionarci ogni anno allo stesso modo.
 
La sera cenavamo all'aperto, nel cortile davanti casa, alla luce dei lampioni che mio padre aveva piazzato lì insieme a mio nonno: eravamo in tanti fra parenti ed amici, tutti insieme a ridere e a ricordare i vecchi tempi. Gli anni successivi alla malattia di mio padre, qualcuno, di tento in tanto gli chiedeva, in tono serio e preoccupato, come andasse "quella cosa". Lui, con sincera gioia, rispondeva con fare scherzoso: "Penso proprio che non vi libererete di me molto presto!". Allora tutti iniziavano a ridere fragorosamente, quasi sollevati dalle parole di mio padre, e nonna, con il viso commosso, iniziava, da buona cristiana qual'era, a ringraziare una serie infinita di santi, e se per mia sfortuna, mi trovavo nelle sue vicinanze in quel momento, mi afferrava stretto a sé, stringendomi in un fortissimo abbraccio, anche se io sapevo, che era il figlio, mio padre, il destinatario del suo affetto in quel momento. Poverina, chissà quanto aveva sofferto! Comunque la serata continuava in un clima di gioia ed allegria sincera: era una festa!
 
Poi, a fine serata tutti a letto, e naturalmente io e mio cugino Nicola dormivamo insieme, dividendoci un lettino singolo che c'era in una delle tre camere per gli ospiti che c'erano in quella casa. In camera con noi c'erano anche mamma e papà, che invece dormivano nel letto matrimoniale; sia loro che i genitori di Nicola, sapevano che durante il mio soggiorno lì, era impossibile che io e lui ci separassimo. Ed era bello la notte, prima di addormentarsi, passare del tempo a chiacchierare sottovoce per non disturbare i miei, ed a sognare di diventare calciatori dell'Inter o scienziati o esploratori, mentre pian piano gli occhi si chiudevano e dolcemente il sonno ci sorprendeva, conservando intatta la speranza del domani, bello e affascinante agli occhi di due bambini.
 
La mattina ci svegliavamo verso le 8, ancora un po' intontiti, ma subito pronti ad affrontare un'altra splendida giornata. Nonna ci faceva trovare la tavola imbandita con sopra tante delizie: c'erano due tazzone di latte con dentro il miele, vanto di mio nonno, perché fatto dalle sue api; c'erano i biscotti che nonna aveva fatto con la ricetta appresa da sua nonna, le marmellate di fragole o pesche, fette di pane caldo, perché appena uscito dal forno. E poi i succhi di frutta e altri tipi di dolci, sempre fatti da mia nonna, perché lei amava cucinare, specialmente per i nipoti. Ci alzavamo dal tavolo con lo stomaco pieno, ma sapendo che la giornata avrebbe offerto tante occasioni di consumare le calorie in eccesso.
 
Con Nicola raggiungevamo il nonno al fiume, dove stava lavorando la terra. Lo trovavamo seduto su un masso ad ammirare lo scorrere incessante delle acque, e sul suo volto si poteva leggere una certa emozione, quasi come se fosse stata la prima volta che vedeva il fiume. Quando poi si accorgeva della nostra presenza, si alzava e ci veniva incontro per accarezzarci sulla testa e prenderci per mano, e iniziavamo un giro nel campo coltivato, con lui che fungeva da cicerone, e ci spiegava con amore e tanta pazienza pianta per pianta, tutte le qualità che avevano e cosa bisognava fare per lavorarle correttamente. Si vedeva che era felice, che quello era il suo piccolo regno, e che non lo avrebbe cambiato per tutto l'oro del mondo. Ed io condividevo quella sua gioia silenziosa. Quella era un'immagine destinata ad imprimersi indelebilmente nella mia memoria.
 
Dopo pranzo era nostra abitudine fare una bella "pennichella" all'ombra degli alberi. Era un vero piacere stare distesi a godersi quel freschetto, con le temperature torride che c'erano in quel periodo. Confesso, un po' malignamente, che il piacere aumentava quando pensavo agli amici che erano rimasti a Milano, chiusi in quella cappa afosa che diventa la città in estate per via del caldo e dello smog.
 
Quando non riuscivo a dormire mi dedicavo alla lettura di qualche libro, in particolare romanzi d'avventure. Ricordo, durante la lettura de "L'ISOLA DEL TESORO" di Stevenson, donatomi da un'amica di mia madre, come la mia mente si divertisse ad immaginarmi al posto del giovane Jim Hawkins alle prese con pirati pericolosi e tesori da ritrovare. Leggere era senza dubbio la mia più grande passione, e i libri erano i regali da me più graditi. Qualche volta le scrivevo io stesso delle storie.Mi rinchiudevo da solo nella cantina dei nonni, e al lume di una candela, e, con l'odore del vino tutto intorno iniziavo a scrivere storie avventurose, storie cavalieri coraggiosi, pronti ad affrontare i terribili mostri che minacciavano il regno o la bella di turno. Alla fine delle mie storie il bene aveva la meglio sul male e tutti vivevano felici e contenti: un finale ingenuo ma per me, allora, era l'unico che vedevo.
 
Nel mese di Luglio ricordo che si svolgeva (e si svolge tutt'ora) la festa dedicata al santo protettore del paese: per una settimana all'anno il piccolo paesino si animava, arrivavano le bancarelle, le giostre, si celebravano messe e processioni in onore del santo, ed ogni sera in piazza c'era uno spettacolo, tutto con lo scopo di far divertire la gente che avevano l'occasione di incontrarsi per le strade e stare un po' insieme. Io e Nicola ci divertivamo tanto in quella settimana. Erano due i posti dove passavamo le serate: il chiosco con i dolci e la giostra. Con noi c'erano i nostri genitori che ci tenevano d'occhio, anche se erano di continuo accerchiati da qualche vecchio amico che non vedevano da tanto. Proprio i miei genitori sono il ricordo più bello che di quelle feste: una sera fu chiamato ad esibirsi un gruppo musicale che cantava vecchi successi di cantanti famosi. Mentre la band stava eseguendo una bella e romantica canzone di Claudio Baglioni, vedo mamma, che poco distante da me, si volta verso mio padre e, guardandolo negli occhi le ristringe forte al petto. Lui l'abbraccia con dolcezza e la bacia delicatamente sulla fronte. Quella serata la ricordo ancora come la prima volta in cui ho visto l'amore.
 
Di tanto in tanto papà ci portava al mare. Ricordo che impiegavamo circa un'ora per arrivare, e che, ovviamente, Nicola era in macchina con noi. Durante il tragitto eravamo impazienti, e nonostante le minacce di mio padre di fare dietrofront se non la finivamo di disturbare, noi continuavamo a chiedere "ci vuole molto?" con una tale insistenza da risultare veramente fastidiosi! Ma quando, finalmente arrivati, papà spegneva il motore dell'auto, noi filavamo di corsa dritti in acqua, in barba alle raccomandazioni dei nostri genitori che ci dicevano di aspettare. Giocavamo a schizzarci o con la palla,o facevamo a gara a chi trovava sott'acqua la pietra più bella. Ricordo zio Alberto, che con tanta pazienza, si metteva lì ad insegnarmi a nuotare, o per lo meno a non sprofondare, impresa tutt'altro che semplice, data la mia scarsa predisposizione al nuoto. Gli adulti giocavano a carte sotto l'ombrellone, anche se la loro attenzione era per lo più rivolta a ciò che combinavamo io e Nicola, che eravamo quasi sempre in acqua, ma che scattavamo appena vedevamo arrivare il ragazzo che vendeva le ciambelle con sopra lo zucchero, che adoravo. I nostri genitori, invece, facevano colazione con i panini che la nonna aveva preparato per noi, ed erano ripieni di vari tipi di salami e formaggi. Quando poi, arrivata la sera, lasciavamo la spiaggia per far ritorno a casa, l'entusiasmo che avevamo avuto fino a quel momento lasciava il posto alla stanchezza, ed infatti il viaggio di ritorno lo passavamo dormendo. Quando arrivavamo a casa mamma era costretta a trascinarmi di peso sotto la doccia, e poi, dopo una rapida e leggera cenetta, filavo subito a letto dove mi addormentavo immediatamente.
 
In quei giorni si andava spesso anche in Sila. Ho sempre pensato che potendo scegliere un luogo ideale dove trascorrere la mia vita in pace ed armonia, quei monti meravigliosi, dove lo spirito può alimentarsi con la maestosità e la tranquillità di paesaggi da favola, sarebbero stati il luogo giusto. Era stupendo fare dei pic-nic al fresco degli alberi, avendo come sfondo e avendo come sfondo le acque del lago Cecita, mentre si assaporavano i prodotti tipici di quelle terre, acquistati, magari, direttamente dal contadino che li produceva. Ricordo che era un vero sacrificio per me la sera abbandonare quei posti, lì dove lasciavo ogni volta un pezzo del mio cuore; e ricordo ancora l'invidia che provavo verso gli abitanti di quel luogo, che avevano l'immenso privilegio di godere di quel spettacolo per 365 giorni l'anno.
 
Ma a casa la nostalgia passava presto, visto che c'era tanto da fare e da vedere. Alcune sere (quasi sempre per la verità), mentre i grandi chiacchieravano all'aperto, noi bambini ci radunavamo davanti casa per giocare a nascondino o a rincorrerci l'un l'altro, indifferenti alle urla dei genitori che ci raccomandavano di fare attenzione a non farci male, cosa che avveniva di frequente. Ricordo quell'atmosfera così bella, così fantastica nella sua semplicità. C'era, però, in mezzo a quell'idillio, una nota stonata, ed era il momento di ripartire, alla fine di Luglio, perché papà finiva le vacanze e doveva tornare a lavoro. Tutti gli anni sembrava arrivare sempre troppo presto quel momento, e ricordo come se fosse ora, la tristezza che aleggiava su di noi man mano che il giorno che mio padre aveva stabilita si avvicinava. Gli ultimi giorni poi, ogni cosa che facevamo o dicevamo, ci portava a pensare alla partenza, e via puntuali con le lacrime. Poi arrivato il giorno "fatidico" sembrava che nella casa ci fosse un lutto, viste le facce tristi e gli occhi lucidi che avevano tutti. La macchina di papà era sempre strapiena al ritorno per via dei tanti doni che ricevevamo, soprattutto da parte dei nonni, che ci riempivano dei prodotti propri, che avevamo mangiato durante quel periodo e che a Milano ci sarebbero mancati di sicuro. Nonna, dopo avermi fatto centinaia di raccomandazioni, prima di partire, mi infilava in tasca sempre dei soldi, per comprarmi il gelato, diceva lei, ed il viso le si illuminava di un sorriso abbagliante. Partivamo, e Nicola ci seguiva per un po' correndo dietro l'auto, e salutando con le mani in aria, prima di fermarsi vinto dalla stanchezza. Da lontano lo vedevo asciugarsi le lacrime, mentre io in macchina lo imitavo. Attraversavamo una Cosenza deserta in quel periodo ed imboccavamo l'autostrada, direzione Milano, per riprendere la solita vita, almeno fine alla prossima estate...
 
Guardo le foto, mentre con una mano tolgo la polvere accumulatasi sopra, quasi ad accarezzarle, come se fossero dei bimbi. Le osservo con un misto di tenerezza e nostalgia, mentre dolci lacrime solcano le mie guance.
 
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Ins. 19-01-2005