SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
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Michela Torcellan
Michela Torcellan
È nata a Venezia ma risiede a Siena, è archeologa medievista e giornalista. È stata redattore di Archeologia Viva edito da Giunti di Firenze e poi di riviste letterarie e storiche. Dopo Sangue corsaro, racconto di fantapolitica edito da LPE di Padova, ha scritto il romanzo Racconti longobardi, Firenze Libri 2000, unico romanzo storico ambientato nell'alto Medioevo, e molti racconti pubblicati nelle antologie dei premi letterari Il Prione di La Spezia; Idea Donna di Asciano; Fascino & Mistero di Sassello; Il Molinello di Rapolano Terme. Ha vinto i seguenti primi premi: Santa Chiara 2000; Arquà Petrarca 2000; Spazio Donna di Striano 2000; Pannunzio 2001; Livio Paoli 2001; la prima edizione del premio Anguillara Sabazia Città d'Arte 2002 ex aequo; Antonelli Castilenti 2002; Tolkien 2003. Numerosi sono stati i suoi secondi e terzi premi. Da sempre narratrice di prosa, solo recentemente ha cominciato a scrivere poesie, ottenendo lusinghieri incoraggiamenti e pubblicazioni: Premio Galbiate; Idea Donna; Il Molinello.
 

Per leggere il racconto decimo classificato al concorso Concorso Letterario Fonopoli 1999 sezione narrativa
Per leggere Astragali opera 6° classificata al Premio di Poesia Città di Monza 2002.

La meticcia

(racconto poetico in endecasillabi)

 
Ti ricordi la meticcia di Outremer?
-era forse Guadalupe o Saint-Martin-
Passeggiava sulla sabbia chiara
solo con una gonna rossa a frange
e apparve come un sogno innanzi a te,
in riva al mare d'indaco dipinto.
Era bella la meticcia di Saint-Jean,
-mi pare in Martinica, non rammento-
con pelle ed occhi del color dell'ambra
e i lunghi folti riccioli corvini,
le labbra spesse, forse ereditate
da dinastie degli antenati schiavi.
Ti seguì senza mettersi a pensare
che avevi quasi il doppio dei suoi anni
e che suo padre nobile francese,
decaduto di certo, ma orgoglioso,
di crepacuore ne sarebbe morto.
 
Non ricordi la meticcia di Cayenne?
Ne ammiravano il corpo affusolato
le gambe lunghe e il passo da pantera,
la cantavano con struggenti note
le ballate perdute di Guyana
negli angiporti, tra i vicoli ombrosi,
sotto i palmizi affogati di sole.
Erano i giorni dell'affaire Dreyfuss
di quel povero ufficiale israelita
deportato per lettere sospette
e soprattutto per fantasie razziali.
Neanche tu eri troppo galantuomo
in quanto all'usa e getta dei diversi.
Così lasciasti la giovane meticcia
che appese il collo al cappio di una corda
portando via con sé anche tuo figlio
che proprio allora le sbocciava in grembo.
 
Se ti piacciono ancora le fanciulle
con metà dei tuoi anni e le vagheggi
dai tavoli dei bar, dopo il lavoro,
è per via della meticcia di Outremer.
E tu, vecchio furbone da abbordaggio,
sazio di prede ma avido di sesso,
non l'hai riconosciuta al suo apparire
e nemmeno hai voluto ricordare,
rifiutandoti l'ultima occasione
che l'Artefice Sommo ti accordava.
Ti piaceva la meticcia di Kourou!
-o forse Saint Laurent de Maroni?-
labbra di pesca, morbide, carnose,
occhi dorati, pelle un poco scura...
ma sono i corpi effimere parvenze.
Lei è cambiata adesso ha un'altra età,
inoltre è bianca come un pesce lesso.
 
Capita, a volte, pur se pare strano,
di incontrarsi cent'anni dopo ancora,
qualcuno un po' ricorda e l'altro no,
e c'è chi ride giurando che è follia.
Ma tutto poi riacquista un altro senso:
e si contempla, pur senza capirlo,
il divino progetto architettato
di cui siamo minuscoli graffiti.
Ora brami avventure e carne fresca
e vuoi spararti le ultime cartucce,
prima di un filosofico tramonto
che nobiliti il tuo disprezzo umano.
Non sai capire che nel vuoto affanno,
di cui spesso ti chiedi la ragione,
vive nascosto il tuo castigo ignoto:
quelle tre vite che sfregiasti un tempo,
nei lontani orizzonti di Outremer


 Se ogni giorno vedessi il mare
 
Soffrirei di meno se ogni giorno vedessi il mare, se sentissi il suo respiro salato sul mio viso, se ascoltassi la sua voce frusciante e guardassi la sua superficie ondeggiante, mai ferma, mai sazia. Soffrirei di meno se ogni giorno potessi parlare con lui, anzi con lei, perché il mare in realtà è femmina anche se le parole, imposte dalle lingue che parliamo e dalle loro regole astratte, ne fanno un "nome comune maschile singolare". Il mare è femmina perché è fatto d'acqua, l'elemento più femminile che ci sia tra quanti ci circondano, è femmina perché è stato il primo contenitore di vita del nostro pianeta, è femmina perché inafferrabile, come ci vogliono vedere gli uomini e come anch'io vorrei essere. Ma soprattutto il mare rappresenta l'idea della libertà, con il suo muoversi di continuo, andare ovunque, adattarsi ad ogni forma, agitarsi e placarsi, governato da una forza indomabile e sfuggente. Liberi si nasce e librati lo si diventa spezzando le proprie catene. E molte ne ho infrante io, cominciando negli anni più verdi.
Nascendo nel mare, sopra un pezzo di terra circondato dalle acque e affollato di piccole case multicolori, ho assimilato molto presto l'idea della libertà assoluta che mi è entrata dentro e non si è mai cancellata. Ma anche noi "donne del mare", pur avendo sempre un fiordo dell'anima dove voler ritornare, siamo condannate a dure e mai condivise lotte contro l'oppressione e l'ingiustizia, contro la menzogna, l'ipocrisia, la viltà, il conformismo. Alla fine i monconi delle catene spezzate finiscono per pesare, tutti insieme, come un'ulteriore catena che si è costrette a trascinare con sempre maggiore fatica nelle strade della vita, ovviamente da sole.
La vita mi ha portata lontano dal mare, lontano dal mio elemento, quello che mi diede i natali. Sono fortunata rispetto a molti altri perché posso contemplare prati e colline, cieli aperti e paesaggi profondi, spettacolari notti stellate. Ma solo il mare mi restituisce la libertà interiore, solo lei, femmina come la libertà, mi parla ancora della nostra origine comune nel nostro linguaggio arcano. Così i resti delle catene spezzate pesano di meno, il cuore si placa. È come essere abbracciati da una madre che ti culla e ti avvolge, è come tornare e casa, a quella fissa dimora che io non ho mai avuto. Sono e sarò sempre una "liberata", cioè una ex-schiava, e una combattente per la libertà, mia e altrui. Ma libera, proprio libera, forse lo fui solo al momento della nascita, dato che venni al mondo circondata dal mare.
Nel guardare, anche oggi in una occasionale ottobrata festiva, queste onde gigantesche e maestose che si gonfiano e precipitano nel loro moto eterno non posso che sentire alleggerirsi dentro di me i ricordi di quelle antiche lotte che hanno fatto di me una "donna del mare" sempre più sola. Ricordo ad una ad una le catene che ho spezzato cominciando a strattonarle fin da piccolina quando mi facevo solo male, ricordo i primi strappi strazianti che fecero di me una diversa, le ricordo in tutti i loro generi e travestimenti: quelle imposte con la violenza e quelle addolcite dal ricatto, quelle dovute alla consuetudine, quelle spacciate per affetto e quelle obbligatorie del lavoro, tutto per cercare di farmi negare me stessa, di non farmi dire quello che penso. Non so chi o che cosa mi abbia dato il coraggio di lottare che ho sempre avuto, ma suppongo che il mare non sia estraneo, anzi estranea, a tutto ciò. Se ritrovassi il mare nella mia vita, se potessimo ogni giorno guardarci negli occhi, forse soffrirei di meno. Certo scapperei d'estate quando i coatti della spiaggia arrivano a frotte per procurarsi l'abbronzatura sancita dalla moda, la peggiore delle dittature moderne. Ma tornerei di soppiatto quando i grandi esodi e i controesodi, cioè i barbari e controbarbari, avessero liberato le coste dai modaioli convinti di essere liberi, quelli che vanno al mare senza guardare e senza ascoltare il mare. Si tratterebbe solo di due mesi all'anno in fin dei conti...
Ma il mare rappresenta anche l'amore, lo so, la mia catena più pesante, quella che non sono mai riuscita a infrangere. La porto in giro con me ovunque, la trascino con fatica cercando di nasconderla, di mimetizzarla con arte, ma avvertendo sempre più il suo peso implacabile. Tutta lì è la mia sconfitta e la mia condanna, l'eterna ribellione fallita, la libertà agognata e sempre mancata. Con quella catena a nulla è servito lottare, strappare, martellare. Mi sono tormentata a sangue, ferite a morte anzi, tutto inutilmente. Non posso affermare in questo caso neanche di essere "liberata" - figurarsi libera! - dato che ad ogni riconquistata libertà è seguita una schiavitù ancora peggiore. E nel guardare il mare che ondeggia, possente e grigio, sotto di me, avverto che questa catena è sì infrangibile ed eterna, ma almeno pesa un po' meno, e la ferita nel mio cuore si sprofonda ancora di più, come nel trapassare di un sottile e spietato pugnale, ma brucia un po' meno, solo un po'. Sento il vento sul mio viso, ascolto il fruscio delle onde, respiro la salsedine che doveva aver inondato i miei polmoni con i primi vagiti. Guardare il mare è tornare alle origini, alla pace che la vita non mi ha dato, alla libertà primigenia per la quale forse anch'io nacqui, rimanendo però schiava incatenata, senza rimedio e senza speranza, legata a quell'unica catena che, nonostante tutti i miei titanici sforzi, non sono mai riuscita a rompere e che mi accompagnerà, come un'inseparabile sorella, fino al sepolcro. 
 

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Agg. 03-11-2003