Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Maria Luisa Nicodemo
Ha pubblicato il libro

 A conti fatti - Maria Luisa Nicodemo



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Collana I salici (narrativa)
 
15x21 - pp. 152 - Euro 12,00
 
ISBN 88-8356-918-0
Presentazione
Incipit 


Presentazione
 
Un uomo di mezza età può accorgersi di non conoscere se stesso, di non riuscire a capire quali siano le sue vere ambizioni, e si ritrova a fare i conti con la propria coscienza in un lento ma inesorabile lavoro di scavo interiore, di lacerazione e conquista di sé senza badare alle inevitabili conseguenze. Abbandonare la propria bottega di falegnameria per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza pare una scelta azzardata eppure nasconde la volontà di scoprire quale sia la via giusta da seguire senza pentirsene subito dopo. Con un sottile lavoro di scandaglio psicologico, Maria Luisa Nicodemo, registra meticolosamente le varie fasi esistenziali del protagonista che vedono un alternarsi continuo di riflessioni e analisi, sempre giocate su due piani, tra passato e presente, con necessari salti spazio temporali utilizzati per mettere in risalto la crisi personale, il disagio, la sofferta condizione d'un uomo che si trova a fare i conti con se stesso.
Capita di realizzare, nel momento della pacificazione, il proprio progetto e l'ideale che ci eravamo prefissi è lì a portata di mano ma v'è sempre qualcosa che, ragionando lucidamente, può mettere i bastoni tra le ruote.
Il momento cruciale d'un uomo, la fase critica d'una esistenza sono colte nel momento più difficile e Maria Luisa Nicodemo ne coglie tutti i particolari, scandaglia ogni pensiero, ne descrive le intime pulsioni, ricerca il vero legame tra il percorso di "autoanalisi" e il "delirio della memoria": e grazie alla passionalità che mette nel suo raccontare instaura una sorta di feeling tra il protagonista e il lettore che si sente partecipe del travaglio del protagonista, quasi a rivivere egli stesso le dicotomie, i dissidi interiori, le aspirazioni, i rimpianti e, allo stesso tempo, in una comune tensione a disvelare lo strato superficiale dell'esistenza per accedere alle regioni più profonde ed essenziali dell'essere.
Le parole diventano il simbolo del livello di analisi, le scelte non sono mai comode e la mescolanza degli elementi sommano un volontario sradicamento dalle sicurezze d'una vita ormai conosciuta con lo slancio verso il sogno seguendo l'arabesco magico dell'inconoscibile.
Capire l'esigenza d'un simile travaglio non è cosa facile e quel voler catalizzare la centralità d'una scelta di vita disseminata di rimpianti, speranze e inquietudini, non fa altro che coagulare tutto ciò che accade in una immagine, puntuale e veritiera, d'una esperienza umana che dal passato riporta ad un presente problematico ed incerto eppure la sopravvivenza del protagonista è tutta in questo lento processo.
La vita fugge dalle mani e ci si ritrova delusi ed amareggiati quando ci si accorge di non aver coronato i sogni: la serietà d'un uomo sta nel far emergere coraggiosamente ciò che nel profondo del proprio animo rimane ancora da svelare.
Quel malessere può diventare un vortice travolgente e le nostre aspettative infrangersi come le onde sulla più alta scogliera: eppure "come più bella sarebbe la mia vita/se si muovesse lungo un rettilineo/dove non c'è tempo e non c'è spazio/come un mosaico bizantino/un camminare dolce/che accompagna/senza l'ansia o il timore dell'arrivo".

 

Massimo Barile


A conti fatti
La trama
 
 
 
È la storia di un uomo che a trentasette anni, in preda ad una profonda crisi personale, decide di affidare agli operai la bottega di falegnameria che con enormi sacrifici ha avviato e iscriversi alla facoltà di giurisprudenza.
Ambizione, noia, improvviso interesse per le materie giuridiche? La spiegazione è nel passato, che riemerge durante il viaggio che compie per recarsi in città, dove appunto ha sede l'Università nella quale dovrà iscriversi e successivamente.
Al momento dell'iscrizione, tuttavia, avverte un inspiegabile senso di fastidio.
Confuso, ma deciso a venire a capo di quel malessere che lo tiene a disagio, comincia a frugare in se stesso e, nella convinzione che avere la libertà di decidere è una grossa conquista, ma altrettanto necessario per non pentirsi subito dopo della scelta che si è fatta, è sapere cosa davvero si vuole, ritorna di nuovo al passato che non rivisita con l'animo sprovveduto del mattino, ma con una forte tensione emotiva e soprattutto con la lucidità che gli viene dal dubbio di non conoscersi fino in fondo.
A completare l'inconsueto lavoro di autoanalisi si colloca un sogno fatto la notte precedente.
Conoscersi, tuttavia, non basta, perché a pareggiare i conti con i propri errori c'è sempre un altro che senza colpa alcuna ne ha subito le conseguenze e che non è disposto a perdonare
Dall'incontro-scontro con l'altro emerge una situazione disperata e disperante che conclude l'ultimo atto di quella giornata, ma non la storia che sarà ripresa dopo più di un anno nello stesso luogo in cui ha avuto inizio la narrazione.
La vicenda del romanzo che, se si esclude l'introduzione e la conclusione, si svolge nell'arco di poco meno di ventiquattro ore, nel delirio della memoria che si sposta con continui salti cronologici negli anni precedenti, include fatti accaduti nel passato che, evocati in tutta la loro valenza emotiva, non si collocano in una visione temporale a sé stante, ma dal continuo correlarsi con il presente, riemergono con tale vitalità e frequenza da interagire e invadere il tempo reale in cui ha effettivo svolgimento la storia.
 

Maria Luisa Nicodemo

 
 

 
 

(Alcuni personaggi sono realmente esistiti,

ma in tempi e luoghi diversi)


Capitolo primo
 
"Buttati alla rinfusa
in un cassetto della memoria..."
 
 
Terrorizzato, mi precipito fuori e fuggo il più lontano possibile. La strada bianca e assolata mi acceca. La polvere brucia i miei occhi, la gola è arsa ed il cuore batte tanto forte che sembra schiantarsi.
Corro, corro finché in lontananza non vedo la sagoma di un campanile. Sono salvo! Allora finalmente rallento. La polvere si abbassa e vedo intorno a me le strade, gli alberi e i colori del mio paese, mentre lenti uno dopo l'altro risuonano i rintocchi della campana della chiesa grande. Uno, due, tre!
Esausto mi getto a terra e distendo le braccia. Urto però contro qualche cosa che cade e fa un gran rumore. Mi sveglio! È il lume sul comodino che, spinto dalla mano, è finito per terra. Sei? Sono sei i rintocchi! Ma... è il pendolo nell'ingresso che ha suonato le ore. Per la miseria! Devo alzarmi.
Era l'alba, infatti, quando Andrea si svegliò. Dagli scuri della finestra già filtrava un leggero chiarore. Si era girato e rigirato nel letto tutta la notte nella speranza di dormire, ma, appena si sistemava da un lato e provava a chiudere gli occhi, l'ansia di addormentarsi lo teneva più desto di prima.
Si voltava allora dall'altra parte, credendo che la nuova posizione fosse quella definitiva, ma nulla da fare e ricominciava, finché, vinto dalla stanchezza, si era addormentato e non l'avesse mai fatto a giudicare dall'orribile sogno!
Sceso in cucina, si sedette. Stanco e insonnolito aveva ancora voglia di dormire. Guardò l'orologio: mancava più di un'ora alla partenza. Avrebbe fatto meglio a stare a letto, ma a quel punto a che serviva rammaricarsi? Meglio farsi il caffè e prepararsi.
Si alzò, caricò la caffettiera, tolse con il taglio della mano la polvere nera che era caduta sul ripiano e, nell' attesa che venisse fuori, tornò a sedersi.
Non era pigro, ma gli piaceva prima di iniziare la giornata trattenersi in cucina.
Le mura spesse, antiche, impenetrabili al rumore, che tenevano caldo d'inverno e fresco d'estate gli raccontavano del suo passato e così la credenza dai vetri smerigliati ed il forno a legna dal quale il giorno del pane usciva anche l'odore della focaccia che Teresa non mancava mai di mettere a cuocere assieme alle forme di pane che aveva impastato il mattino presto, appena alzata.
La sera, quando rientrava tardi e Teresa già dormiva nella stanzetta al piano di sopra, spesso sentiva il desiderio di fermarsi in cucina, stendere le gambe sotto il tavolo di quercia intagliata e, intrecciate le mani dietro la nuca e chiusi gli occhi, pensare in solitario raccoglimento ad un ragazzo solo e smarrito che si portava dentro da sempre una gran voglia di piangere.
Prendeva allora l'adulto a consolarlo con le parole che si dicono ai bambini, quando, correndo dietro una palla, inciampano sui loro stessi piedi e, caduti, piangono a terra disperati con le braccia aperte e non si rialzano, se non quando sopraggiunge la madre o il padre a sollevarli.
"Passerà, passerà!" ripeteva l'adulto che c'era in lui a quel ragazzo ed il ragazzo, dopo qualche lacrima, che più di tanto non usciva dai suoi occhi, si asciugava le guance con il dorso della mano e andava a cercare nella credenza dai vetri verde cupo una frittella ripiena di ricotta o gli struffoli, se era già periodo di Natale.
Al dolce l'amarezza che aveva nell'animo si stemperava, la stretta alla gola si allentava in un sospiro e, senza sapere come, tornava a piacergli la vita.
"Dovresti rinnovarla!"gli suggeriva chi, dopo aver visto tutta la casa rimessa a nuovo, entrava in cucina e trovava su una parete la madia e lo stipo di rovere scuro, di fronte la canna fumaria rivestita di mattonelle bianche con l'appendirami pieno di casseruole tirate a lucido che da anni non usava più nessuno e qua e là altre anticaglie, pressoché inutili.
"Butta giù tutto! Hai fatto trenta, fai pure trentuno! Queste piastrelle neanche a regalarle troveresti chi le vuole, perché il bianco fa pensare ad una corsia di ospedale più che ad una cucina. Rivesti le pareti con ceramiche colorate che sul mercato ce ne sono tante e una più bella dell'altra! Un giro a Vietri e te ne innamori per sempre."
"Le conosco, le conosco le ceramiche di cui parli, - rispondeva tagliando corto - ma, se ho deciso di tenerla così, avrò pure le mie ragioni".
E più di tanto non aggiungeva. Chi avrebbe creduto senza prenderlo per matto che gli bastava entrare in cucina e premere l'interruttore perché le vecchie cose al bagliore improvviso della luce si svegliassero dal letargo nel quale il tempo e il disuso le avevano confinate e tornassero vive a raccontargli storie e fatti che erano accaduti a lui, al padre, a don Attilio buon'anima e via di seguito a tutta la famiglia?
Non era facile mettere a nudo il rapporto quasi mistico che aveva con gli oggetti che gli stavano intorno. Anche se vecchi, anzi proprio perché vecchi, avevano la magia di evocare alla memoria lontananze ed emozioni che il tempo inesorabilmente andava cancellando.
I vasetti di ceramica messi uno accanto all'altro sulla credenza non erano terraglie come tante che vedeva il sabato sulle bancarelle del mercato. Vivevano di vita loro, legati a doppio filo alla cura di chi li lavava, quando li vedeva sporchi e appannati dalla polvere, e si amareggiava se ne trovava qualcuno scheggiato. Erano gli stessi vasetti dove una volta la madre conservava le erbe aromatiche che coltivava sul terrazzino e dove ora erano riposte quelle che con la stessa premura della madre coltivava Teresa nell'orto.
Sembra poco, ma lì, fra l'origano, il rosmarino e la salvia ritrovava la sua adolescenza: l'odore dei boschi, del grano raccolto, delle fascine tenute al riparo sotto l'embrice, del fieno, delle viole che il lunedì in Albis andavano a raccogliere per i sentieri di montagna, dei fiori di lavanda da cui don Attilio ricavava le essenze che profumavano gli armadi a primavera. C'era in quegli oggetti un mondo cui era legato e che si ostinava a non dimenticare!
Buttati alla rinfusa, aveva definito in una poesia i suoi ricordi:
Al borbottare della caffettiera si alzò di scatto e corse a spegnere il gas.
Infastidito dal rumore e destato dall'aroma del caffè, anche Oliwer che dormiva tese le orecchie e sbadigliando si sollevò sulle zampe.
Era uno splendido esemplare di pastore tedesco. Quando Andrea l'aveva preso, era già addestrato alla guardia. Spesso, tuttavia, soprattutto se immerso in un sonno profondo, amava volentieri dimenticare chi era. Non era un difetto da poco, considerato il compito che aveva, ma il padrone ci passava sopra e glielo perdonava come ad un amico di vecchia data.
"Calma, calma! È inutile che fai la scena. Se fosse entrato un ladro, a vederti sarebbe già morto di paura, ma solo a vederti, perché per il resto avrebbe lavorato indisturbato fino all'arrivo dei Carabinieri! Ora, però, mi raccomando - e accostò l'indice alla punta del naso - non abbaiare perché, se si sveglia Teresa, tu vai a cuccia e non esci più ed io... devo subire le sue domande. Hai inteso?"
Il cane, che era andato a sedersi di fronte, battendo la coda sul pavimento, convenne che il padrone aveva ragione. Meglio tenerla alla larga!
Teresa, la domestica tuttofare, era entrata in quella casa che era poco più di una ragazza. I genitori, contadini senza terra, prima di emigrare in Germania portandosi dietro i due figli più piccoli, avevano messo la grande a servizio da don Attilio il falegname, considerato da tutti in paese persona seria e rispettabile.
Afflitta per la partenza dei genitori e turbata da chiacchiere non belle udite sul conto del padre, non s'era allontanata più di là, neanche per sposarsi, e con il tempo aveva considerata quella casa l'unica dimora che avesse mai avuto.
Non s'era sposata, pur essendo da giovane una bella ragazza, come diceva Millelire di lei segretamente innamorato fin da quando andava in giro a raccogliere cartoni, perché sosteneva, anche se erano in pochi a crederle, che, non avendo incontrato l'amore, preferiva rimanere a servizio fra quelle mura che conosceva come le sue tasche che andare ad abitare chissà dove.
"Se devo fare la serva - ripeteva con la brusca sincerità delle contadine - meglio farla a chi mi paga che a chi mi sposa!"
Ora che, matura negli anni, vedeva poco, anche se per vanità si ostinava a rifiutare l'idea degli occhiali, non ricamava più fiori sui bordi delle tende o agli angoli dei centrini come le avevano insegnato le suore; continuava, però, ad interessarsi della casa, ad aprire la bottega il mattino e a far da mangiare ai lavoranti, anche se dopo la morte di don Attilio casa e bottega erano passate nelle mani del nuovo padrone.
Infatti, l'unica figlia di don Attilio che lavorava e viveva a Napoli per semplificarsi la vita aveva ceduto dopo la morte del padre la gestione dell'azienda ad Andrea che, per il numero di anni trascorsi accanto al padre e per la competenza che aveva acquisito dopo aver conseguito il diploma nell'arte del restauro, era il più indicato a condurla.
Teresa, come i servi della gleba nel Medioevo, era passata con la bottega e con la casa, di cui aveva assunto il controllo, dalla tutela di don Attilio buonanima a quella di Andrea che conosceva fin da ragazzo e sul quale riversava l'affetto che aveva sempre nutrito in cuor suo per quel figlio mai avuto.
Le cose però non vanno mai come le aspettiamo.
Per un'indole semplice come la sua non era per nulla facile stare dietro alla complessa personalità di un uomo che negli ultimi tempi cambiava umore, come ci si cambia la camicia. Spesso capitava nientemeno che nell'arco dello stesso giorno ora lo vedeva girare per casa come un automa con la testa da tutt'altra parte, ora ritornare attento e affettuoso, come se quello di prima non fosse mai esistito.
Provava la povera donna a capire la ragione di quei cambiamenti, ma per quanto si scervellasse e si impegnasse in indagini anche fuori dalle mura di casa, non veniva mai a capo di niente che potesse giustificare quegli improvvisi sbalzi dell'umore.
Eppure, se solo l'avesse voluto, pensava quando l'incrociava per casa con il volto teso e gli occhi cerchiati da una gran sofferenza interiore, quel ragazzo avrebbe potuto vivere beato come nel ventre di una vacca, ora che le cose gli andavano bene e anche l'azienda era sua.
Da una decina di giorni invece era accaduto anche di peggio: la porta della bottega era serrata, i lavoranti a casa per un anticipo di ferie ed il cartello "Chiuso per ristrutturazione" sulla saracinesca.
Le si stringeva il cuore, quando passava lì davanti.
Pensava a don Attilio, che era morto senza la soddisfazione di lasciare ad un figlio la sua bottega e ad Andrea, che la prima volta che l'aveva visto le era sembrato triste e smarrito come quei gatti che all'inizio della primavera si sentono miagolare per strada in cerca della madre.
"Si vede perduto qua dentro! - ripeteva sottovoce don Attilio quando lo guardava lavorare con impegno senza sorridere mai. - Ma che possiamo fare? Sono sempre gli stracci che vanno all'aria!"
Un giorno, però, all'ora di pausa, mentre tutti stavano fuori della bottega a far colazione e Andrea come gli altri, seduto su una pietra, consumava il panino con tonno e olive, che più di tanto la madre non gli poteva far portare, Teresa si affacciò dalla finestra e gli gridò di salire un momento in cucina ad aiutarla.
"Cosa devo fare?" chiese il ragazzo entrando intimidito non poco dalla situazione.
"Niente, assaggia e dimmi come sa di sale!"
"Va bene per me."
"E allora mangia! Che aspetti, scimunito?"
Ora, qualunque piatto dei suoi preferiti gli preparasse, Andrea lo mandava giù in fretta, a testa bassa come se non l'assaporasse neppure. Quando terminava, si alzava, posava il tovagliolo e andava in camera sua e per quel giorno nessuno l'avrebbe più rivisto!
In cucina rimaneva la povera donna a lavare i quattro piatti che avevano sporcato. Quando aveva terminato, portava fuori il cane e, se il tempo permetteva, seduta sulle grhare, come gli anziani ancora chiamavano i gradini di pietra posti davanti alle case, si tratteneva un po' a parlare con le vicine, per alzarsi e tornare a casa quando cominciava a far fresco e le domande sul suo padrone un po' troppo indiscrete.
Seguito da Oliwer che gli andava dietro passo passo dal bagno alla camera e l'inverso, Andrea in meno di un'ora fu pronto. Prima di uscire si guardò allo specchio che stava sulla consolle nell'ingresso e raddrizzò le spalle. Rimaneva sempre un bel ragazzo!
Prese la borsa, aprì il portone e si fermò beato a respirare l'aria fresca del mattino.
Aveva fatto bene a muoversi. Le incertezze ed i fantasmi della notte si dileguavano alla luce del sole, che ad oriente sfumava il cielo di tenui venature di rosa. Era bella come un'alba d'estate quella giornata!
Con passo svelto prese a scendere lungo la stradina di sassi che fra case basse e diseguali dai portoni di legno eternamente screpolati dal sole conduceva dal Convento di Sant'Antonio, che su in cima dominava come un'aquila reale tutto il paesaggio, a valle dove si trovava il centro del paese, ovverosia la piazza, la farmacia e il ponte a cinque arcate sul Tanagro.
Sul lato destro della strada, dove la montagna cadendo a strapiombo non aveva per qualche tratto consentito di costruire, si alzava alto più di un metro un muretto di pietra grigia che affacciava direttamente sul Vallo di Diano.
Coperto da una sottile nebbia, che in autunno a quella altitudine era frequente nelle prime ore del mattino, poteva dare il Vallo a chi non era del luogo l'immagine di un lago circondato da monti e l'immagine non sarebbe stata del tutto peregrina dal momento che nel periodo pleistocenico era stato realmente invaso da un lago.
Appena però il sole si faceva alto e la nebbia diradava, nitida affiorava la geometrica spartizione di campi che si distendeva immensa, a perdita d'occhio fino sotto ai monti che sul versante opposto appena si distinguevano di lontano.
Coltivato a cereali ed ortaggi, dopo i lavori di bonifica operati nel secondo dopoguerra era stato per gli abitanti dei paesi che sorgevano sulle pendici l'unica fonte di lavoro e di sopravvivenza ma anche l'immagine che meglio di ogni altra raffigurava il vigore fisico ed il temperamento altero e ostinato di quella gente.
Anche Andrea come tutti quelli che erano nati e cresciuti fra quei monti sentiva il fascino del Vallo, ma negli ultimi tempi per quel mutare continuo dell'umore aveva un rapporto quanto mai ambivalente con quella distesa che si spiegava come un immenso tappeto davanti al portone di casa!
Alle prime luci dell'alba, quando dopo una notte insonne si affacciava a guardare il Vallo, vedeva davanti a sé un enorme lago coperto da un grigio velame di nebbia che salendo verso l'alto sfumava il profilo dei monti nascondendo i boschi di lecci e di castagni che ricoprivano gli Alburni. Aveva allora la percezione di ravvisare riflesso nel Vallo il suo animo, l'animo di chi, disaffezionandosi pian piano alla vita, anche gli alberi vede scomparire malinconicamente dalle pendici dei monti!
Altre volte, quando si sentiva determinato e sicuro di sé, scorgeva nel Vallo un gigante addormentato, una forza del creato che lui con lo sguardo poteva dominare dall'alto.
Si dissolveva allora la logorante attitudine al dubbio, che gli aveva fiaccato le più intime fibre dell'animo e tornava forte e audace come un tempo.
Anche quel mattino con i gomiti poggiati sul muretto Andrea guardava il Vallo, intanto che Oliwer, eccitato dall'uscita inconsueta, annusando qua e là cercava l'odore più invitante per i suoi bisogni.
Era bello il suo paese! Alla luce che diventava di minuto in minuto più intensa, i tetti delle case si accendevano di riverberi rossi e gli orti ancora ricolmi splendevano del verde ancora fresco delle foglie. Immerso in una raccolta quiete, consumava gli ultimi residui di sonno che neppure echi lontani di spari riuscivano a turbare...
 
 
...Nell'angolo più solitario del giardino, su una delle vecchie panche di quercia, che don Attilio aveva fatto costruire dal padre di Andrea quando la figlia aveva voluto trasformare l'orto in giardino per ricevere le amiche, Nadia con il capo poggiato sulla sua spalla lo ascoltava. Fin da ragazza era stata affascinata dall'ebanista-filosofo che parlava con tanta poesia delle cose del mondo da farle credere anche l'inverosimile.
Steso sull'erba un po' sbiadita del prato, Oliwer li guardava.
"Al cane - continuò Andrea incoraggiato dal silenzio di Nadia - non si può mentire e sai per quale motivo?"
"Aspetto che me lo dici tu!"
"Perché non comprende il linguaggio delle parole!" rispose non cogliendo la sua ironia.
"Ora, sì che è tutto chiaro!"
"Libera di non crederci, ma è così: nel momento che scarta le parole che spesso sono usate dall'uomo per nascondere o dire il contrario di ciò che pensa e presta attenzione a tutti gli altri segnali, ne consegue che non può essere ingannato perché i messaggi che gli arrivano, poiché giungono dal profondo, sono autentici e non subiscono né censura né alcuna sorta di manipolazione."
Nel cielo appena imbrunito era intanto comparsa la luna! Entrava la sua luce negli angoli più nascosti del giardino, fra i cespugli di rose, fra le siepi di alloro che alte proteggevano da sguardi indiscreti l'intimità della casa e riflessi cadevano anche sui rami del cedro che piegando docilmente sul prato erano sfiorati da un impalpabile, leggero chiarore che creava intorno a loro un'atmosfera irreale di sogno.
Al soffio del vento sospirò il giardino e profumi e tenui bisbigli arrivarono dall'ombra.
"Quando non ci sarà più Oliwer, - proseguì Andrea riprendendo un discorso che la tenerezza aveva dolcemente interrotto - sarà triste per me, sarà davvero come perdere un amico!"
Sulla soglia della cucina, che trovava più comoda perché gli dava la possibilità di dominare meglio il territorio ed anche di godere di un'arietta profumata di aspettative che si formava ogni volta che al momento di friggere Teresa spalancava porte e finestre per mandar via il fumo, appoggiata la testa sulle zampe anteriori, il cane sonnecchiando ascoltava.
Quando sentì pronunziare il suo nome, drizzò le orecchie com'era sua abitudine, si alzò sulle gambe, ma non scodinzolò né abbaiò. Salì sul lettino e là rimase finché Teresa non scodellò.
Tre modi aveva Oliwer di comunicare: abbaiare e scodinzolare, abbaiare e ringhiare, appiattirsi con la pancia a terra e aspettare.
Il primo era sempre associato a qualcosa di piacevole come quando il padrone gli diceva:" Prendi il collare, ché usciamo!" oppure quando lo chiamava e gli passava di nascosto sotto il tavolo una polpetta di carne condita o ancora quando d'estate dal greto del fiume, lanciava nell'acqua un pezzo di legno e poi gli gridava "Corri e portalo qua!"
Il secondo, abbaiare e ringhiare, era né più né meno un avvertimento a chi si avvicinava alla scodella mentre mangiava, a chi alzava la voce con il padrone o, ma più di rado, ai cani randagi che, quando lo incontravano, gli ringhiavano contro come fosse lui il responsabile della loro sorte.
Il terzo, appiattirsi a terra, era una richiesta di perdono quando intuiva che di lì a poco le avrebbe prese ed anche un modo nella sua mente di farsi piccolo e sottrarsi alle botte.
Quella sera, però, si accorse che nessuno dei tre andava bene.
Nella voce del padrone c'era un'inflessione che non gli sembrava né adirata né allegra, che aveva avvertito già un'altra volta e che associava ad una stanza bianca dove c'era lui, disteso su un tavolo di marmo, un signore vestito di bianco che gli rovistava qua e là per il corpo ed il padrone che guardandolo con gli occhi tristi e spaventati gli sussurrava: "Non aver paura! C'è il padrone accanto a te."
Uno strano malessere gli era venuto all'improvviso, un gran vuoto nello stomaco, tanto che appena udì il rumore dei piatti e la voce di Teresa che chiamava a tavola, con uno scatto felino, lui che per natura era più decoroso di quei mostriciattoli tutto peli che strisciano fra le gambe quando hanno fame, si levò in piedi e fendendo l'aria a colpi di coda si avvicinò dignitosamente alla mensa...
Buttati alla rinfusa
in un cassetto della memoria,
sepolti dal diluvio del nuovo
che soffoca e distrae
dall'essenziale,
forma di vita trovate,
quando un volto, un suono
per miracolo riappare.
Nostalgia del passato,
perché al frenetico incalzare
cedi all'oblio
e non fermi
sulla soglia del pensare
la smania di nuovo
che ti assale?
Più bella sarebbe
la mia vita
se si muovesse
lungo un rettilineo
dove non c'è tempo
e non c'è spazio,
come un mosaico bizantino;
un camminare dolce
che accompagna,
senza l'ansia
o il timore dell'arrivo.
 

Ad un mare grigio
confuso con il colore del cielo
affidai un pensiero d'amore.
Lo ritrovai tra bulloni
e latte di Coca alla riva.
Era la Forma
a cui il vento del Nulla
non aveva concesso
la vita!
 

settembre
 
Ti svegli un mattino e
il cielo senza rondini
ritrovi.
Il sole c'è,
ma che malinconia!
Anche i figli del Sud
vanno via!
Eterni forestieri
della Storia,
la giovinezza
in un bagaglio a mano
portano lontano.
E, dietro, come ombra
la Memoria!
Corre il treno
e lascia sui binari
parole non dette,
parole rimandate,
teneri sogni
di un immaginario,
tradito
dall'ingorgo della vita.
 
 
 

 
 
Nuove caverne
di dubbi e di paure
rivedo sulla terra
dei miei padri,
ma, nel deserto
dell'indifferenza,
sotto un olivo storto,
irregolare,
sento l'odore della terra
e sento il vento
e nell' immaginare
ritrovo finalmente
la mia pace!
 
 

 
 
Nel viola della sera antica,
quando più forte dei pampini
è l'odore,
sento la stanchezza della vita.
Pietre sconnesse
che ricompongo
una accanto all'altra
sul selciato
e che ritrovo puntuali
a scalfire ancora il mio cammino.
Bianca scogliera
che dirupa a mare,
pietra che rotola il destino.
Prima di cadere sulla ghiaia
folle pensiero!
guardo il cielo e dico:
"Eppur...come vorrei ricominciare!
Riannodare i miei sogni
ad uno ad uno
e, stretto il filo fra le mani,
seguire il mio aquilone
nell'azzurro!"
Ma, nel declinare dolce
del pendio, cade la mano
e stanca, senza tremare,
scrive la parola Fine!
 
 
 

 
 
Scende
dai confini del mondo la sera,
umida, tetra,
avvolge di gramaglie
i miei pensieri,
inquiete spirali di dubbio,
riflesse sull'asfalto della via!
E mentre vado
con vuota lentezza,
corre la vita,
saccheggiando i miei sogni
ad uno ad uno,
frammenti di stelle
che rapii
ballando di notte sulla luna.
Pallide luci nella sera che,
solitaria,
lentamente imbruna.

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