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LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Maria Cristina Sermanni
Maria Cristina Sermanni è nata a Firenze. Laureata in Scienze Politiche e Sociali con una tesi in Storia contemporanea, ha pubblicato, per le edizioni Dehoniane, due volumi sulla storia delle ACLI, "Le ACLI : dal ruolo formativo all'impegno politico-sindacale (1944-1961) e Le ACLI alla prova della politica (1961-1972)".
Pubblicista, ha lavorato nella redazione di una Casa editrice ed è stata redattore capo della rivista "Testimonianze".
Alcuni dei suoi racconti sono stati premiati al Concorso internazionale di Lettere e Arti "Premio S. Valentino" - Terni e al 9^ Concorso di letteratura per ragazzi del Comune di Monterchi.

Ritorno a casa

 
È una bellissima giornata. Il cielo di un azzurro intenso si stende sopra la vallata che ancora dorme silenziosa. Gli alberi sembrano stirarsi, allungare i loro rami verso il sole, un po' pigri, ancora mezzo addormentati e l'erba, bagnata dalla rugiada, allunga i fili, si muove in un fremito unico, invisibile.
Le poche case della valle sonnecchiano. Dietro qualche persiana cominciano ad accendersi le luci, dietro altre è ancora tutto buio e silenzioso. C'è un'aria particolare in giro. Camminando per le stradine intorno alle case si respira un'aria di festa, anche se la gente sta dormendo o appena svegliandosi. Dietro l'angolo di una casa arriva improvviso l'odore del pane fresco e facendo capolino alla finestra si intravede la figura del grosso fornaio, già abbondantemente sudato, ma sorridente che inforna pagnotte e ne sforna altre, dorate, profumate, avvenenti come non lo è la più bella donna.
Io amo passeggiare al mattino presto per queste strade, amo sentire gli odori che emanano dalle case, gustare i sapori delle cose semplici, ricordare di quando bambino correvo fuori casa, presto al mattino prima di andare a scuola, con quel soldo che mi dava ogni tanto mia madre, e dal fornaio compravo la "schiaccia" fresca, unta e salata come piaceva a me, ancora calda e fragrante. Sento il sapore di quella schiaccia, il profumo e rivedo nitidamente quel ragazzino. E gli anni si cancellano improvvisamente.
Ero un ragazzo vivace, amavo tutto ciò che mi circondava, gli alberi, i prati, gli animali, la mia casa. Vivevo con mia madre. Eravamo rimasti soli dopo che mio padre se ne era andato per un'"avventura di mezza età", come la definiva mia madre che da allora lo ha sempre aspettato fino al giorno in cui è morta, serenamente accanto a me, sorridendomi e raccomandandomi di amare quel padre lontano che mi aveva donato la vita. Quale vita ? mi chiedevo da ragazzo. Con che diritto mi aveva dato una vita se poi se la riprendeva ogni giorno costringendoci a vivere in ristrettezze, tra continue preoccupazioni, con un futuro che di certo aveva soltanto la fatica. Ma queste domande mi si affacciavano alla mente la sera, quando ero molto stanco perché avevo lavorato sodo tutto il giorno nei campi, e solo per pochi attimi perché il sonno prevaleva sui pensieri tristi e mi addormentavo nel lettone accanto a mia madre. E al mattino la giornata era più bella di quella precedente e l'entusiasmo mi accompagnava sempre.
Venne il giorno in cui mi sentii abbastanza grande da capire che non potevo più dormire nel lettone e, per non far soffrire mia madre, per non umiliarla (perché non avevo mai avuto una stanza mia), cominciai a sistemare la piccola stanza di rimessaggio accanto alla cucina. Avrei preferito mettere un letto in cucina e dormire lì, sarebbe stato più facile, ma questo angosciava mia madre che riteneva indecoroso dormire in cucina per un giovanottone come me. Un giorno, al ritorno dai campi, sgombrai quella piccola stanza, la pulii e poi la dipinsi con i miei colori. Il soffitto di un profondo azzurro per sentirmi in ogni attimo a contatto col cielo ; le pareti di un verde tenue come l'erba appena nata. Vi portai un letto, un armadio raccattato dalla vicina e una vecchia poltrona appartenuta a mia nonna. Avevo creato il mio regno. Ora, alla sera, potevo chiudermi nella "mia " stanza e fare ciò che volevo. Talvolta leggevo. Avevo imparato a prendere in prestito i libri dalla piccola biblioteca del paese vicino e la bibliotecaria, una ragazza carina, mi indirizzava verso letture appropriate e mi dava spiegazioni e consigli. E io leggevo molto, quando non ero troppo stanco, o mi sdraiavo sul letto sotto quel mio cielo azzurro e sognavo ad occhi aperti. Sognavo di ricevere una lettera da mio padre nella quale mi annunciava che sarebbe tornato per portarci via, per portarci in un paese lontano, in riva al mare, dove il sole splende sempre e dove potevamo stare di nuovo tutti insieme. Non c'erano spiegazioni sulla sua assenza in quella lettera, né io le volevo. Mi bastava sapere che sarebbe tornato a prenderci. E quando mi risvegliavo dal sogno ad occhi aperti, l'amarezza invadeva il mio cuore; in quei momenti la sentivo forte e aveva un cattivo sapore; quel sapore sgradevole che mi è poi rimasto da adulto e che sono riuscito a superare con difficoltà.
I giorni passavano e anche gli anni. Ero diventato un uomo, sapevo che avrei dovuto prendere una decisione. Lavorare nei campi mi gratificava, mi faceva sentire vicino a quella terra che tanto amavo, ma non poteva essere così tutta la vita. Non avevo il coraggio di andarmene. Mia madre era vecchia e troppo sola. Lei mi spingeva a trovare una compagna, a lasciare il paese, a cercare lavoro in città. Mi spinse addirittura a ricominciare a studiare, a frequentare corsi serali che si tenevano al paese vicino (quello della biblioteca) e, quando ebbi superato l'esame di maturità, mi regalò un orologio e un pacco di carta da lettere. "Vai figliolo - mi disse - nella valigia riponi le tue cose, l'orologio ti servirà per arrivare puntuale ai tuoi appuntamenti importanti e la carta da lettere per scrivermi ogni tanto, quando ne avrai voglia". Quella notte, nel mio letto, piansi. Forse per la prima volta, da quando ragazzo realizzai che mio padre se ne era andato, piansi a lungo in silenzio. Cosa facevo della mia vita ? Sentivo chiaramente il bisogno di spazi nuovi, quel cielo sopra di me cominciava a starmi stretto, a non bastarmi più; sentivo il bisogno di una donna accanto a me che dividesse il mio letto, i miei pensieri, il mio cuore. Ma adoravo mia madre, i suoi capelli bianchi, i suoi occhi stanchi, quel sorriso dolce. Le sue mani ormai grinzose che per anni avevano ricamato e cucito, nell'angolo della finestra di cucina, alzando ogni tanto gli occhi per sbirciare se mai qualcuno fosse apparso di là dalla porta. Amavo i suoi silenzi, le parole che non diceva, l'amore che regalava. Non sarei mai potuto andare via. E lei capì e di nuovo mi venne incontro in silenzio. Una mattina, sorridendo, mi disse che era giunto il suo momento, che non dovevo piangere perché lei così mi faceva il suo ultimo regalo, il più bello: la libertà. Questo avrei dovuto aggiungere nella valigia, all'orologio e alla carta da lettera che mi raccomandò di usare per scriverle lo stesso, per raccontarle le mie esperienze e soprattutto per presentarle la mia ragazza che avrei dovuto cercare presto, molto presto per farla felice; lei l'avrebbe amata come una figlia. Quel pomeriggio stesso se ne andò, col suo sorriso dolce sulle labbra e io non riuscii a versare una lacrima. Ero rimasto attonito, ma non c'era sgomento in me, né disperazione. Sapevo che lo aveva fatto per me e ciò che sentivo era solo amore, tanto amore.
E con questo bagaglio d'amore me ne andai da quella casa, da quel paese. Girai molti posti con quella valigia regalatami da mia madre, ma infine trovai un buon lavoro, una casa, persino una donna. Purtroppo, non era quella giusta per me. Non posso dire che non fosse una brava ragazza, ma non era per me. E mi sono ritrovato di nuovo solo. Nel lavoro ho avuto successo e sono riuscito a "farmi una posizione". Non ho problemi di denaro, ma sono solo. E la solitudine mi ha riportato qui, al mio vecchio paese, a risentire i profumi conosciuti, a ricercare la mia casa, a camminare scalzo nell'erba bagnata di rugiada.
La vita ci riserva sempre delle sorprese e talvolta sono molto belle.
Dopo aver camminato senza meta per le strade del mio paese ho bussato alla porta della mia vecchia casa, con la sola intenzione di conoscere i suoi abitanti. Mi ha aperto una ragazza, non più giovanissima, ma ancora piacevole, dal buon profumo di pulito, di semplicità. Penso di essere rimasto a guardarla a bocca aperta perché lei, ridendo, mi ha chiesto se avevo visto un fantasma. Le ho risposto che quello che avevo visto non era un fantasma ma una fata, la fata della mia vita. Non mi sbagliavo; era lei e nessun'altra.
Non me ne sono più andato. Sono tornato ai campi, ho rimbiancato tutta la casa con i colori che amiamo entrambi, l'abbiamo ampliata per avere una stanza in più... il futuro può riservarci altri miracoli. Io so che sono possibili perché il cielo mi ha concesso il più grande: l'amore, incondizionato, sincero, sereno, prima di mia madre e ora della mia donna. L'amore è sufficiente a se stesso, è la più grande ricchezza cui possiamo anelare.
Maria Cristina Sermanni
 
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agg.7 dicembre 2000