Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Marco Caschera
Ha pubblicato il libro

Marco Caschera - Professor Della Vigna: "Il tempo che fu"

 




 

  

 

 

 

 

 

Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)

 

14x20,5 - pp. 112 - Euro 10,00

 

ISBN 978-88-6037-320-5

 


Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore è segnalato

nel concorso letterario «J. Prévert» 2006  


Prefazione
Incipit


Breve introduzione
 
 
 
Vecchio giradischi d'antiquata perfezione,
la mia penna graffia le righe di questo diario.
La bianca pagina è un vasto mare
su cui l'inchiostro spumeggia cristallino,
ed io ne cavalco l'onda furiosa
che sovente m'avvicina verso la funerea riva.
Serpeggia il fumo denso della mia sigaretta,
come nuvola di pioggia che bagna le labbra,
mentre m'accorgo d'essere vivo e presente
grazie alla calda lacrima che accarezza la pelle.
Soffio di vento sfoglia pagine di libri,
simile ad età che strappa giorni dai giorni,
inesauribile rintocco di lancette d'orologio...
...timida luce di giovanile primavera.
Innata malinconia muore di se stessa,
come rosa che uccide il rosso della sua vanità.
L'esistenza non è poesia di una vita;
la vita non è un'esistenza di poesia.
Ma a volte, il vuoto che mi circonda
crea l'immortale melodia del tempo che fui.
 
 

 
Sapere che passerò inosservato ai tempi, fa lacrimare il mio cuore e uccide il mio orgoglio poetico. Tuttavia, quelle lacrime sono l'inchiostro grazie al quale continuo a scrivere... grazie al quale continuo a vivere.

Marco Caschera

 
 

Chi non ha letto la 'Divina Commedia' (almeno l'Inferno), di Dante Alighieri, ha commesso un enorme peccato e merita di essere spedito in un nuovo Girone infernale, fra coloro ai quali fu indifferente la poesia. Fortunatamente, o lettore, questo non è il tuo caso, poiché, sfogliando le pagine del mio libro, già ti sei guadagnato un posto in Purgatorio... Ma perché nominare la Divina Commedia? Cosa può avere a che fare con questo romanzo? Poco; o forse molto. Il motivo sta nella mia volontà di sottolineare la forza dei libri, la loro capacità di fermare il tempo, di raccogliere le nostre emozioni e conservarle, donandoci un po' di immortalità. Dunque, per rendere giustizia alle mie parole, ho scelto di prendere ad esempio il libro dei libri, l'opera migliore che mente umana abbia mai concepito, il regalo fatto dal sommo Dante all'umanità. È come se, per descrivere un'autovettura, io avessi esibito il rombo di una Ferrari! Ecco, l'opera dantesca è la Ferrari della letteratura.
I libri possiedono segreti che custodiscono nelle loro pagine, simili ad incantesimi pronti a sortire in eterno i propri effetti. Così, a distanza di anni, ti potrebbe capitare di aprire un vecchio libro (una di quelle edizioni economiche-tascabili da mille lire a copia), romanzo d'amore emblema di sogni giovanili, tragico nel suo tremendo finale, e che avevi tenuto lontano da te, quasi fosse una belva capace di assalirti e gettare la tua vita nel vortice dei dolorosi ricordi. Lo stringi tra le mani e, accarezzandone la copertina, già percepisci la sua straordinaria forza. Poi, lo apri. Sulla prima pagina trovi la dedica della donna che amasti: riesci a vedere quello che non c'è più, l'amore giovanile, e torni magicamente indietro negli anni, rivivendo le sensazioni di allora come allora. Infine, scorgi la femminile firma al di sotto della dedica, nobile calligrafia di ragazza adorata. E le lacrime che prima eri riuscito a trattenere, cadono disobbedienti sul volto. Miracolo di un libro.
 
Uno fra i migliori personaggi che il Maestro sia riuscito a raccontare è Pier Della Vigna. Oltre ad essere un eccelso poeta, fu uomo di corte al servizio di Federico II di Svevia, nobile fondatore della Scuola Siciliana (nota -1-). Mostrò impareggiabile fedeltà verso il proprio sovrano, ma, nonostante ciò, fu dallo stesso accusato di tradimento. Incarcerato ed accecato, si tolse la vita. Tale suicidio, indusse Dante a collocare l'illustre collega nel VII Cerchio dell'Inferno, tra coloro che si tolsero la vita, appunto, e che lo scrittore immagina reincarnati nelle sembianze di alberi parlanti, sui quali nidificano le terribili Arpie (nota -2-) che si nutrono dei loro frutti, e dai cui rami spezzati fuoriesce sangue umano. "Come d'un stizzo verde ch'arso sia da l'un de'capi, che da l'altro geme e cigola per vento che va via, sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue" (Come da un tizzone verde, che brucia da uno dei capi e dall'altro stilli gocce di umore e stride per l'umidità interna che ne esce, allo stesso modo dal ramo rotto uscivano insieme parole e sangue). Piero Della Vigna è anche il nome che ho deciso di attribuire al personaggio protagonista del romanzo.
Ora, gentile lettore che distrattamente hai aperto questo libro, mi piacerebbe riuscire a descriverti quanto narcisistico piacere provi uno scrittore come me, nell'intraprendere la stesura di un nuovo racconto. La inizio con l'estremo ottimismo di sempre, ripetendo a me stesso che "la miglior opera è quella che ancora devo realizzare". In verità, il ricordo del precedente romanzo mi tormenta: esso riecheggia testardo tra le pareti del mio cuore, esempio a cui mi voglio ispirare, ma da cui non voglio essere ispirato. Spesso, nel corso delle noiose giornate, o in un particolare momento di sconforto, sussurro al mio cuore: "Io sono Marco Caschera, l'autore del Don Eusebio" (nota -3-). Può sembrare banale: è come dire "Io sono il re di Fantasticandia", però mi aiuta a vivere meglio.
Ormai, sono un ragazzo che ha smesso di credere nel raggiungimento della fama e del giusto riconoscimento da parte del mondo, ma che non ha affatto l'intenzione di rassegnare le dimissioni come scrittore soltanto per questo motivo. In fondo, se la fama non ha trovato me è anche perché io non l'ho mai cercata, nascondendo i miei scritti agli occhi del mondo e forse davanti ai miei stessi occhi. Ciò nonostante, oggi è tempo di gioire: dopo circa un paio d'anni di incertezze e paure, calco nuovamente la penna sul foglio, consapevole di una cosa: sentirmi un poeta è quello che desideravo sin dalla nascita, ed oggi so di esserlo, senza bisogno di conferme da parte degli altri. Il loro apprezzare la mia arte mi fa piacere, ma non avrebbe certo potuto trasformarmi in ciò che non ero.
Beh, non voglio perdere altro tempo, dilungandomi sul breve accompagnamento al racconto. Mi piacerebbe adottare le parole del precedente romanzo, e consigliare di abbandonarti completamente alle righe di questa "storica favola romanzata"; però, stavolta preferisco dirti: "Allontanati dal mondo dove sei costretto a vivere la maggior parte del tuo tempo e tuffati tra le pagine che ho composto, abbandonando l'anima alla magia che soltanto un libro sa custodire..."
 

L'autore

Marco Caschera


Professor Della Vigna: "Il tempo che fu"
 
 

"Ho consunto il fiore della mia vita a nutrire una tristezza che mi era cara perché mi veniva da te..."

 

(Gabriele D'Annunzio)

 

1
 
 
 
Alcuni giorni fa, mi trovavo nell'aula magna della facoltà di Lettere e Filosofie, presso l'università degli studi di Bologna. Era lì, infatti, che il mio editore aveva stabilito il luogo ove presentare il mio ultimo libro, una confusa e svogliata raccolta di aforismi, massime spirituali che nel corso degli anni avevo appuntato distrattamente qua e là. Gli studenti rumoreggiavano in attesa del poeta, mentre io me ne stavo nascosto dietro le "quinte" del palcoscenico di carta pesta, spiandoli con attenzione. Ascoltai i loro brusii, le risate, il rumore delle sedie che strusciavano sul pavimento simili a fastidiose cornacchie, il cellophane delle merendine che si aprivano per colmare gli improvvisi attacchi di fame... E percepii il lugubre frastuono della sconosciuta paura. Un profondo senso di timore mi attanagliò il cuore, quasi privando l'anima del respiro. Scrutai i volti dei ragazzi, i tratti giovani che ne distinguevano i lineamenti, il movimento delle labbra che alimentava le parole; gli scherzi, i sorrisi, gli abbracci, gli occhi... gli occhi dell'amore, quelli della gelosia, quelli della timidezza, quelli della strafottenza. E di nuovo, impietosa, la paura graffiò la mia debolezza. La falce della Morte rasentò il cuore del poeta, simile ad un rasoio che miete la barba dell'esperienza; e la Follia, eterna compagna, strinse la stanca mente, pari ad una pressa che rende sottile ciò che pareva immenso. Un barlume di coraggio accese l'istinto di sopravvivenza, così mi ripresi parzialmente dall'assurdo terrore ed entrai in scena, con la mia valigetta da intellettuale in mano. In verità, intellettuale non mi sentivo affatto. Ero meno intelligente di quello che sembravo, ma senza dubbio più geniale di come apparivo. La mia conoscenza superava quella che mediamente un uomo custodisce nell'archivio del sapere, però non avevo mai creduto di conoscere troppo, e preferivo considerarmi ciò che davvero ero: un artista con l'immenso dono del genio inventore. Mentre esitante avanzavo sul palco, un fragoroso applauso rimbombò fra le gelide pareti dell'auditorium, creando un ronzio d'ape nei miei antichi timpani, che scosse l'intero corpo. Mi piegai su me stesso, barcollando come durante la peggiore delle sbronze. Fuggii dagli occhi di tutti e corsi a rinchiudermi nelle maleodoranti toilette dell'università. L'editore mi inseguì preoccupato (credo più per la pessima figura che per la mia pessima salute). Bussò energicamente sulla porta, urlando più volte il mio nome. Ebbi la sola forza di dire: "Sto bene, lascia un istante che io mi riprenda".
Rimasi seduto sul gabinetto, fissando il bianco delle maioliche. E fu allora, che per la prima volta in vita mia m'accorsi che qualcosa era cambiato. La tosse asmatica cominciò ad attaccare le vie respiratorie, sempre più insistentemente; e più tossivo, più tornavano alla mente le parole del mio dottore: "Quando il paziente si trova in un particolare stato di affaticamento o stress, va incontro ad attacchi frequenti ed intensi". Ebbi il tempo di imprecare contro la sua ragione, prima di frugare nelle tasche della mia giacca alla ricerca del broncodilatatore che portavo sempre con me in previsione dei maledetti attacchi d'asma. Eppure, niente che avesse forma dell'indispensabile oggetto uscì fuori dalle tasche. In preda alla disperazione, affondai deciso le mani nelle cavità della giacca, ma soltanto residui di tabacco riempirono le dita ingiallite. Un altro attacco mi piegò in due: stavo morendo. Ad un certo punto, notai la valigetta. La valigetta! Già, la valigetta. Lanciai in aria i fogli dei miei appunti, le penne, le matite, il bianchetto, i pacchetti di sigarette mezzi vuoti, le chiavi di casa e quelle della macchina, sino a che svuotai la borsa: nulla di ciò che cercavo era lì. Stavo morendo. Mentre rassegnato lasciavo cadere la valigetta a terra, dalla tasca laterale, l'unica nella quale non avevo controllato, spuntarono due oggetti famosi ed indispensabili nel corso della mia vita: il broncodilatatore ed il libricino degli aforismi di Khalil Gibran, dal titolo 'Sabbia e Schiuma'. Li impugnai entrambi, come fossero il dono più prezioso che Iddio m'avesse mai dato (e forse lo erano davvero). D'accordo, ripetute volte il Profeta era riuscito a salvarmi la vita, ma stavolta la scelta sarebbe ricaduta sul raziocinante broncodilatatore. Respirai, respirai avidamente alla stessa maniera del giorno in cui venni messo al mondo, di quel sedici novembre nel quale assaporai il buon gusto dell'aria per la prima volta. Sfinito, stanco e sudato, osservai il contenuto della valigetta sparso a terra, e tra i vari oggetti lanciati in aria notai il mio cellulare. Senza pensare che grazie al telefono sarei comunque riuscito a salvarmi, avvisando tempestivamente qualcuno di venirmi a soccorrere, allungai lo sguardo sul display e lessi la data: 16 novembre 19... E fu allora, per la prima volta in vita mia, che m'accorsi che qualcosa era cambiato: compivo cinquanta anni.
 
Dunque, non stavo morendo, e per me non era ancora giunta l'ora di attraversare le melmose acque del fiume Acheronte. La percezione di questo rinfrancò il mio umore, anche se venire a conoscenza di aver agguantato il mezzo secolo di vita non è un granché. Nel frattempo, la respirazione era tornata ad affluire nei polmoni, ed io ritenni che inquinarla con il fumo fosse la cosa più opportuna da fare al momento. Raccolsi uno alla volta i pacchetti di Camel senza filtro, sino a quando trovai mezza sigaretta sul fondo di uno di essi. Scriveva Oscar Wilde: "La sigaretta è il perfetto campione del piacere. È squisita, e vi lascia insoddisfatto" (da 'Il ritratto di Dorian Gray'). Lo stesso dottore che era stato un veggente riguardo i miei attacchi d'asma, m'aveva giustamente imposto di smettere di fumare, vista la frequenza con la quale la malattia si manifestava. Pensai a quanta stupidità avvolge l'uomo che non fa tesoro dell'esperienza, a quanto è piccolo l'essere che non travasa il buono da ciò che di brutto ha vissuto: avevo appena cominciato a rifiatare e non vedevo l'ora di invadere nuovamente le vie respiratorie. Ricordai che per un periodo ero riuscito ad ignorare il richiamo del tabacco. Avevo imparato a farne a meno nei momenti in cui maggiormente tenta gli uomini: evitavo la sua dolcezza unita all'amaro sapore del caffè; nascondevo il suo benefico effetto distensivo a seguito di un'emozione vissuta; eludevo addirittura il narcisistico compiacimento che regala accendersi una "bionda" dopo aver acceso una mora... dopo aver fatto sesso. Tuttavia, non esistette mai buon senso abbastanza significativo da impedirmi di dare fuoco ad una sigaretta mentre scrivevo, allorché l'ispirazione prendeva possesso dell'inconscio. In quel momento ero in un cesso, seduto su un cesso, e non di fronte alla mia scrivania, circondato dai sacri libri! Eppure, una cicca infuocata pendeva dalle mie labbra. Nonostante lo squallido posto, sentivo l'ispirazione crescere in me, ed iniziai a ripercorrere mentalmente il romanzo della mia vita.
 
Non so dire precisamente quale fosse stata la causa che mi spinse a fare il punto della mia esistenza. Forse furono gli sguardi indiscreti dei giovani studenti, il loro saperli così distanti dalla mia percezione della realtà; forse fu l'inconsapevolezza di compiere gli anni, o l'insoddisfazione dovuta alla presentazione di un libro nel quale non sentivo di rispecchiarmi affatto. Pensai al motivo che m'aveva stimolato a pubblicare il testo contenente gli sciocchi aforismi, senza trovare una giustificazione per la quale ne fosse valsa la pena. Il libro non custodiva alcun istinto irrazionale che anni addietro mi aveva indotto a scrivere, ad afferrare frettolosamente un foglio al fine di renderlo unico, grazie alle mie parole. Certamente, quelle frasi erano le mie, però mi sembrava che averle pubblicate fosse stato uno stupido modo per "raschiare il fondo" della mia arte, conscio di essere in grado di creare nuove idee, senza bisogno di riciclare pensieri passati. Mi tornò alla mente la condizione morale che stavo attraversando in quel periodo, e per un istante non riconobbi me stesso.
La porta della toilette vibrò, accompagnata dalle grida dell'editore, decise a farmi tornare sul palco. Ma io su quel palco non sarei più salito, intenzionato a smettere di agire per volere di altri, pronto a tornare indietro negli anni, ai tempi in cui il dio denaro ancora non corrompeva le pallide mani di un artista, quando scrivevo per il solo piacere di scrivere, per appagare i sensi che da troppi inverni non sentivo scuotere l'animo. Avrei fatto il punto della mia vita proprio lì, nel gelido bagno universitario, usando il water come poltrona e le mattonelle di porcellana come bianche pagine da riempire di inchiostro, che in questo caso sarebbero stati i miei pensieri. Rovistai tra i polverosi cassetti della mente, la stessa che pareva nascondere i propri istinti alla luce del giorno. Poggiai la mano sul cuore con l'intenzione di comprenderne il fioco battito, e sembrò che fossero trascorsi secoli dall'ultima volta in cui mi ero fermato ad ascoltare la sua voce sincera.
"Dì ai ragazzi che non presenterò più il libro!" esclamai convinto
L'editore rimase alcuni secondi in silenzio, di sicuro incredulo per quello che aveva ascoltato. Quindi ripetei: "Dì ai ragazzi che non presenterò più il libro!"
E lui: "Vecchia testa di cazzo che non sei altro, esci da quel cazzo di cesso o butto giù la porta!"
Abbozzai un sorriso quasi compassionevole nei suoi confronti. Lui, rivolgersi a me con quei termini...del cazzo. Voleva insegnarmi a vivere, ignaro del fatto che a lui non sarebbero bastate tre vite intere per vivere ciò che io avevo vissuto, per percepire ciò che io avevo percepito nel corso dell'esistenza. La sua sola fortuna era stata quella di ereditare la famosa casa editrice fondata dal padre, un vero letterato lui, purtroppo con una salute cagionevole, morto troppo presto per avere il tempo di insegnare al figlio come ci si comporta con i veri artisti. Spensi la sigaretta sul muro, e pacato dissi: "Giovane testina di cazzo che non sei altro, sai che dovresti sciacquarti la lingua nella mia urina prima di rivolgerti a me con quel tono? Possibile che tu non abbia neppure un capello di tuo padre? Già, ora che ci penso...forse tua madre non è mai stata la santa donna che credevi fosse"
Una scarica di pugni e calci sulla porta seguì le mie parole.
"Hai chiuso Della Vigna! Non farti più vedere da me. Sei uno scrittore finito. Mi hai fatto fare una figura di merda!"
"Mi dispiace - sussurrai - mi dispiace davvero, ma le parole di quel libro non mi appartengono, non le sento mie. E comunque, potrai consolarti con i guadagni delle vendite, che, sono certo, saranno cospicue come al solito"
Allora non potevo sapere che il libro in realtà sarebbe stato un clamoroso flop, avendo riscosso scarso consenso da parte del pubblico. Il ragazzo sospirò profondamente, e, con tono sincero, disse: "Addio professor Della Vigna, è stato un piacere collaborare con lei"
"Addio, bastardo figlio di papà".
Così si concluse la discussione col mio editore; e così si risolsero quasi venticinque anni di "matrimonio" con la madre dei miei romanzi, la casa editrice che m'aveva reso famoso, la prima a credere nel sottoscritto quando ero un giovane squattrinato con l'innato talento dello scrittore. Avevo venticinque anni. In quell'età scrivevo per il giornale dell'università, un settimanale per cuori infranti, un periodico con il solo intento di trattare argomenti letterari. Tenevo sotto la mia assistenza alcuni tra i miei compagni di studi, ottime penne anche loro, malati cronici di letteratura d'amore, che ogni martedì della settimana consegnavano i propri articoli. Il giornale era gratuito, e chiunque poteva presentare un pezzo che fosse compatibile alle regole prestabilite, ovvero non trattare temi politici, cronaca nera (quella rosa sì, purché con risvolti romantici), non mettere in risalto le varie problematiche dell'università, dalla carenza di personale docente alla pulizia dei bagni. Insomma, il settimanale aveva il solo fine di esaltare il gusto del bello, la capacità dell'arte di trovarsi sempre al di sopra delle righe, al di sopra delle questioni di tutti i giorni, già ampiamente trattate dai quotidiani nazionali e dalle varie edizioni dei telegiornali. Gli scopi per i quali il giornale era nato, spinsero me e i miei collaboratori a dargli un titolo insolito ed esclusivo: 'Il Rinascimento'. Il Rinascimento, proprio come l'età che vide il riaffermarsi di un nuovo ideale di vita grazie al fiorire degli studi e delle arti, il periodo del risveglio dopo il buio Medioevo. Io e i miei colleghi ci preoccupavamo pure di distribuire il giornale, e ciò avveniva anche al di fuori dell'ambiente scolastico: lo consegnavamo negli ospedali, nelle scuole, negli uffici postali, nelle sale d'aspetto di vari uffici, addirittura nei bar. Dopo diversi numeri, l'editore Stocchetti notò i miei articoli e decise di contattarmi. Lo fece tramite il Rettore dell'università, il quale mi diede un biglietto in cui c'era scritto che il proprietario della famosa casa editrice intendeva invitarmi ad una festa presso la propria villa, dove sarebbero intervenuti gli artisti che teneva sotto la sua tutela. Consegnandomi l'invito, il Rettore mi guardò sorridente negli occhi ed esclamò: "Ci faccia fare bella figura Della Vigna!".
Feci cenno di sì con la testa, sicuro che non avrei fallito l'appuntamento della vita. Sin dalla nascita, avevo desiderato guadagnarmi da vivere facendo quello che mi piaceva. E sin dalla nascita, la sola azione che m'appagava era lo scrivere, vero e proprio sfogo interiore durante il quale traeva giovamento anche il fisico. Scrivere rappresentava l'unico pensiero vivo nella mente; scrivere costituiva il quinto elemento, il bene che mi permetteva di sopravvivere al disordine del mondo, il quid che mi faceva sentire diverso dagli altri, consapevole e fiero, artista ed impopolare. Scrivere rappresentava lo scoglio al quale aggrapparmi durante il maremoto causato da una delusione d'amore. Scrivere era speranza, speranza che un giorno tutto potesse mostrarsi attraente come in una poesia. Bastava che la penna sfiorasse una pergamena, affinché questa assumesse i colori dell'arcobaleno. La penna! Autentica polaroid ad inchiostro con la quale immortalavo le sensazioni della vita. Ah, quante notti mi svegliavo di sobbalzo per appuntare su un pezzo di carta volante il fugace pensiero che aveva illuminato le tenebre della mente! Vedere il foglio che si riempiva di me, prendere forma del tutto che era in me, al pari di una scultura modellata da mani d'argilla, rappresentava la vera gioia, masturbazione interiore, unica soddisfazione che bastava a se stessa...che bastava a me stesso. Infatti, anche una volta raggiunta la notorietà, non ricordo d'aver scritto per il compiacimento di altri, bensì soltanto per me, soltanto per tentare di placare la folle malinconia racchiusa nell'anima. Ero un poeta che poetava per riuscire un giorno a smettere di poetare. Ma "i poeti sono delle persone infelici, poiché, per quanto il loro spirito si elevi, saranno sempre racchiusi in un involucro di lacrime" (K. Gibran 'Le ali spezzate'. (nota -4-). Non v'è nulla di triste nelle parole del Profeta: i poeti amano sopravvivere tra quell'involucro, adorano riconoscersi nelle futili lacrime, perché quando qualcosa di brutto prende forma di poesia, inevitabilmente diventa bello. O meglio, grazie alla poesia, nelle lacrime di dolore sa nascere il succo che annaffierà i semi della futura felicità. Nessun lettore, per quanto bravo ad apprezzare ed intuire le sensazione che desidera trasmettere lo scrittore, potrà mai capire cosa significhi scrivere un libro intero o il verso di una poesia, trasmigrare su carta l'inspiegabile che c'è in noi, osservare una storia crescere al pari di una pianta, riuscire a creare personaggi che dall'irreale della mente poetica divengono forma concreta nella realtà del lettore... di te, che hai conosciuto ed apprezzato il carattere degli esseri nati tra le righe di un romanzo, parlandone come fossero esistiti davvero. Ci si sente simili ad Iddio Onnipotente, divinità col dono di creare, uomini consci d'aver raggiunto l'immortalità. I miei migliori amici sono stati proprio gli immaginari personaggi dei libri, coloro che mi sono stati vicino, coloro nei quali rivedevo le vicende da me vissute. Penso che a chiunque sia capitato di leggere una poesia ed avere l'impressione che fosse stata scritta per lui. I poeti sono consapevoli della loro forza. Io conoscevo il dono con cui ero nato. Gli artisti sono gli unici esseri umani in grado di donare attimi di commozione alla gente costretta a vivere nel caos del mondo. E commuovere l'animo delle persone allontana noi stessi dal disordine universale, ci fa sentire immortali, capaci di scavare nel cuore attraverso la penna fatata. Quando scrivo, il tempo vola via, veloce, senza destare in me la preoccupazione della morte: sì, scrivere cancella anche il timore di morire... allontana l'amaro sapore di questi miei primi cinquant'anni di vita.
 

Clicca qui tornare alla sua Home Page

Se desideri acquistare questo libro e non lo trovi nella tua libreria puoi ordinarlo direttamente alla casa editrice.
Versa l'importo del prezzo di copertina sul Conto Corrente postale 22218200 intestato a "Montedit - Cas. Post. 61 - 20077 MELEGNANO (MI)". Indica nome dell'autore e titolo del libro nella "causale del versamento" e inviaci la richiesta al fax 029835214. Oppure spedisci assegno non trasferibile allo stesso indirizzo, indicando sempre la causale di versamento.
Si raccomanda di scrivere chiaramente in stampatello nome e indirizzo.
L'importo del prezzo di copertina comprende le spese di spedizione.
Per spedizione contrassegno aggravio di Euro 3,65 per spese postali.
Per ordini superiori agli Euro 25,90 sconto del 20%.
PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a clubaut@club.it
Se ha una casella Email gliela inoltreremo.
Se non ha casella Email te lo diremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera presso «Il Club degli autori - Cas. Post. 68 - 20077 MELEGNANO (MI)» inserendola in una busta già affrancata. Noi scriveremo l'indirizzo e provvederemo a inoltrarla.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2007 Il club degli autori, Marco Caschera
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
 
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit

 

 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
 
Ins. 18-04-2007