LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Loredana Capellazzo
Nata a Badia Polesine (rovigo), vive a Rovigo deve insegna alla scuola media. Laureata in Lettere moderne con una tesi sulla storia del Polesine, svolge attività in associazioni ambientaliste e pacifiste.La passione per la scrittura è presente fin da bambina, quando amava «raccontarsi le storie» storie che ha poi cominciato a mettere per iscritto in numerosi quaderni scritti a mano, piegandosi solo recentemente all'uso del computer. i temi trattati sono sentimenti e vicende di persone comuni eppure "speciali" com'è speciale ogni essere umano.
Ha pubblicato articoli su quotidiani locali inerenti la sua attività e alcuni racconti su periodici pure di carattere locale.A marzo è uscito, presso la casa ed. La Torre di Rovigo - collana Le Eliadi - un romanzo storico-popolare ambientato nella provincia di Rovigo (Polesine), scritto a quattro mani con la sua amica-collega Paola Trivellato. Il romanzo narra le vicende di tre famiglie di diversa estrazione sociale dal 1900 al 1914; è il primo di una trilogia a cui le autrici stanno lavorando e che proseguirà fino agli anni '80. il titolo del romanzo è: IL COLORE DEL TEMPO - parte prima: L'ORO DEL GRANO.
Il racconto che segue è stato pubblicato nel numero di dicembre'98 de
"Il Ventaglio", periodico di storia, cultura e tradizioni polesane.
 
UNA PROMESSA
 
Era lì, davanti a me, con quegli occhi liquidi e malinconici, con l'aria di chiedermi: «Sei proprio tu?», mentre il mio cuore aveva preso a battere a mille e le mie mani tremavano.
Proprio quando avevo perso ogni speranza, il cane era arrivato,trotterellando verso di me, e si era accucciato al bordo del sentiero di ghiaia. Ma il suo padrone, dov'era? Da qualche parte in mezzo agli alberi, tra i cespugli, probabilmente a osservarmi studiarmi, dopo tutto questo tempo. Dieci anni.Speravo di non deluderlo troppo: avevo passato gli ultimi due mesi a prendermi cura in modo maniacale del mio corpo e del mio aspetto, per lui.
Gerry. A quel tempo sembrava che tutti si chiamassero Gerry. Era il diminutivo più usato per Gerardo, Geremia, persino Virgilio. Lui si chiamava Ruggero e se ne vergognava un poco: gli pareva un nome decadente e snob. Lui, che pure vestiva jeans logori, camicie di flanella e magliette scolorite, era in realtà uno snob all'incontrario, uno che doveva in ogni modo e in ogni istante mettere in mostra il suo essere
fuori dagli schemi. In mezzo a branchi di eskimo puzzolenti e trucidi, di capelli a riccetti impegolati, lui portava con ostentazione un reazionario montgomery di loden verde; i suoi capelli lunghi, neri e lisci, erano sempre lucenti e profumati; la barba, rigorosamente alla nazarena, curata e morbida (una volta sola l'ho potuta accarezzare...).
E io lo amavo, con una confusione di sentimenti da adolescente mal-cresciuta, col corpo che mi doleva e tremava ogni volta che gli ero vicina e il cuore che mi smoriva dentro se lui mi faceva uno di quei suoi morbidi gesti di saluto o un sorriso.
Lo seguivo per i corridoi dell'università, saltando le lezioni; andavo alle assemblee solo per vederlo e sentirlo parlare. E quando, nei momenti cruciali delle decisioni solenni, si alzava, sempre al centro del gruppo, ed esordiva con il suo mitico «Badate, compagni...»; e poi parlava di responsabilità e libertà, di scelte, di vita, di lotta, io mi perdevo nella musica ora suadente ora dissonante delle sue parole,
nell'incantesimo del suo viso tanto bello e irraggiungibile e del suo corpo che seguiva l'onda dei pensieri.A lui, di me, non importava niente. Quando scoprii che viveva con una donna di due anni più vecchia e una bambina che, forse, era sua figlia, il mondo mi rovinò addosso a pezzi e a brani e per molto tempo rimasi sepolta sotto le macerie senza riuscire quasi a respirare, senza più voglia di vivere. Ho ricominciato il giorno che ho conosciuto il suo cane. L'aveva appena trovato, affamato e solo, e lo teneva in casa anche se era proibito dal regolamento del condominio. Non so bene perchè quel bastardino scorbutico si fosse affezionato a me e io a lui, forse perchè eravamo tutti e due insignificanti e innamorati. Ma ogni volta che arrivavano, l'uno scodinzolante dietro l'altro, poco dopo me lo ritrovavo in braccio ( il cane, non il padrone, purtroppo...) a esigere coccole e grattatine.
Gerry, in quei momenti, mi guardava con blanda simpatia; ma se solo mi
rivolgeva la parola arrossivo, diventavo goffa e mi comportavo da
perfetta idiota.
Una sola volta, allora, si mostrò interessato a me. Fu durante una occupazione quando, inviperita per non poter dare un esame che mi era costato mesi di studio, andai in sala riunioni a cercare qualcuno su cui sfogare la mia rabbia. Il cane era lì, doveva esserci anche Gerry, ma nella confusione non riuscivo a vederlo. Andai ai bagni, dove, oltre alle scritte oscene rivoluzionarie sui muri e sporcizia di ogni genere sul pavimento, le tazze erano lorde e intasate di merda. Scoppiai a piangere come una deficiente e poco dopo sentii il cane strusciarsi alle mie gambe e la voce di Gerry che lo chiamava. Due mani mi strapparono dal muro e Gerry stava già urlando intorno che i cessi andavano ripuliti «im-me-dia-ta-men-te» e che tutti quanti non erano che luridi
sacchi di escrementi. Andò lui stesso a versare secchiate d'acqua, mentre io scappavo via.
Dopo, per un paio di settimane, se lo vedevo da lontano cambiavo strada. Venivo dalla provincia, io, ero stupida e imbranata, non sapevo niente del mondo, avevo la testa piena di greco e poe-sie, filosofia e favole.
Quello che mi stava succedendo intorno era troppo brutto, violento,sporco e non sapevo accettarlo. Solo Gerry... per me era il centro dell'universo.
Ma lui, già fuoricorso di un anno, a un tratto scomparve dalla circolazione e, qualche mese dopo, si sparse la notizia che, a luglio,
avrebbe discusso la sua tesi di filosofia su Mircea Eliade. Quel giorno c'erano tutti. Anche il cane
Ma non la sua donna che, dicevano, Gerry aveva lasciato solo poche settimane prima. Io gongolavo. Dopo che, con uno sbalorditivo 106, fu dichiarato dottore, tutti gli si fecero intorno per complimentarsi. Vidi che le ragazze lo baciavano e lo feci anch'io. Non so se fosse la gioia a confonderlo o chissà che altro, ma quando gli buttai le braccia al collo lui mi strinse così forte che in quel troppo breve istante mi
sembrò di vivere tutta una vita. Finimmo a festeggiare in un bar e, davanti a bicchieri multicolori levati verso di lui, disse con un solenne ironico sor-riso:-Questo è anche il mio saluto, gente. Domani parto. -
Per poco il bicchiere non mi cadde di mano. Partiva. Scappava per non dover fare il servizio militare. Lo aveva detto spesso, ma nessuno lo aveva preso sul serio. E adesso ci diceva addio. Dieci anni. Non sarebbe potuto tornare prima. Più tardi, dopo una serie infinita di saluti, tutti se ne andarono. Io ero rimasta seduta in un angolo, perchè il cane dormiva sulle mie ginocchia. Lui mi venne vicino, mi prese per mano e lo seguii. non parlammo quasi, fino alla panchina del parco, la stessa su cui mi trovavo dieci anni dopo, di fronte al cane.
-Mi dispiace che vai via. - riuscii a dirgli, con il coraggio della disperazione.
-Lo so. -
Mi guardava con i suoi occhi grigioverde, che ogni volta mi facevano sentire una farfalla infilzata su uno spillo, che sbatte le ali negli ultimi guizzi d'agonia. In quel momento però avevano dentro una docezza e una tristezza sconosciute. Li avevo visti irati e ridenti, pungenti e sprezzanti, mai così: smarriti, indifesi.
Lo strinsi fra le braccia e lui piegò la testa sulla mia spalla, con un
sospiro.
-Dispiace anche a me. Soprattutto perchè mi perdo l'occasione di
conoscerti meglio. - disse.
Ero sbalordita, incredula. Osai sfiorargli i capelli, insinuare le dita
tra i fili setosi, accarezzare la barba e la pelle liscia del suo viso,
poi lui mi baciò.
Lo so, Gerry era solo, triste per l'imminente partenza, un po' spaventato dal futuro, deluso epr gli sforzi vani di anni di lotta. Andavo bene anch'io. Non ero bella, non avevo stile né fascino, ma ero lì, a sua disposizione, ed ero follemente innamorata di lui.
Mi baciò e mi strinse su quella panchina, passarono in fretta minuti e ore e lui mi parlò di cos'avrebbe fatto a Londra, di certi amici che gli avrebbero dato una mano.Poi disse che avrebbe portato il cane in campagna dai suoi parenti e fu questo, alla fine, che mi fece piangere.
Lui mi confortò con altri baci e disse:
-Non vado via per sempre. Tornerò. Ci rivedremo, voglio ritrovarti. Tu
sei così... affidabile. Avrò bisogno dell'aiuto di qualcuno, per
ricominciare.
Gli venne così l'idea dell'appuntamento. Lo stesso giorno, lo stesso posto, dieci anni dopo.
-Entro le otto di sera. Io ci sarò. Mantengo sempre le promesse, lo sai.- disse.
E io non ebbi alcun dubbio. Promisi.
Per dieci anni ho vissuto aspettandolo. Ho avuto un paio di storie, niente di speciale. Perchè ero sola, perchè fanno tutti così. Ma è a lui che ho sempre pensato. Ero cresciuta, ero diventata più attraente e sicura di me, quanto può esserlo una che, da ragazza, nessuno guardava più di una volta. La sua promessa mi aveva sostenuta, spronata. Avevo fatto di me stessa quanto di meglio avrei potuto, come voleva lui, cometante volte aveva detto.
Dieci anni erano passati e non erano stati inutili. Ma avevo tanto temuto che sarebbe stata inutile quell'attesa e temevo soprattutto di ritrovarlo cambiato, diverso. Il tempo e la vita potevano avere spento la meravigliosa luce che gli splendeva negli occhi, offuscato la sua volontà e i sogni, bruciato le sue speranze. Lo avrei amato ancora, in
quel caso?
Il cane si teneva a distanza, guardingo. Dopo tanto tempo forse non era
sicuro che fossi davvero io. Ero diversa. Usavo"Rive Gauche" non sapevo più di sudore, di bar e di treno.
Mi guardavo intorno, cercando la snella alta figura di Gerry. Portava ancora i capelli così lunghi, e la barba? Volevo correre tra i cespugli, stanarlo, ma le gambe mi tremavano e lo stomaco mi frullava dentro. Era così tardi ormai, quasi le otto. Ancora pochi minuti.
«Io mantengo sempre le promesse»... I dubbi mi disfacevano e nel mio cuore si stavano aprendo crepe e scheggiature.
-Pippi! Qui, vieni! -
Una vocetta stanca e una figura un po' curva, in uno sbiadito abitino beige, arrivavano da dietro i cespugli e il cane si mosse, raggiungendo con una breve corsa la padrona. La taglia del cane era più piccola, la coda era sottile, senza nessuna macchia bianca sulla punta. E si chiamava Pippi.
Erano le otto di sera.
Mi alzai senza sentire più niente di me, né corpo né cuore né luce. Dio, come si può essere tanto stupidi?

Per leggere la poesia inserita nell'antologia del Premio Olympia Montegrotto Terme 2003

 
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Agg. 17-02-2004