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Giuseppe Di Febo


Giuseppe Di Febo nasce a Silvi Marina (TE) nel 1952. Consegue il Diploma di Educazione Fisica nel 1977 presso l'ISEF dell'Aquila, che lo porterà ad insegnare nella scuola pubblica per tanti anni. Nel frattempo, frequenta molti centri di riabilitazione fisica offrendo la sua professionalità di istruttore, mostrandosi particolarmente sensibile ed interessato alle innumerevoli difficoltà motorie dei disabili. L'esperienza lo porterà ad intuire che i suoi strani allievi hanno essenzialmente bisogno di qualcosa che va oltre l'esercizio fisico per muoversi meglio, di più importante e vitale: la vicinanza affettiva di una guida nella vita di tutti giorni, capace di condividerne la disperazione esistenziale e la residuale gioia di vivere. In quel contesto, essi si trasformano in mirabili maestri di vita e di stimolo ad essenziali riflessioni. Incuriosito, cerca di saperne di più, riprende gli studi e si laurea in Filosofia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Chieti, con una tesi sulla Psicopedagogia dell'Umorismo. Quello che apprende, rinforza il suo intuito e lo convince a cambiare totalmente professione, ricostruendosi una personalità molto vicina alla problematica e all'esigenza esistenziale della società moderna. Attualmente è un Funzionario Pubblico, collabora in un Giornale locale ed è attivamente impegnato nel volontariato, presso l'Arcotenda Onlus, un'associazione rivolta a persone con disabilità. DIECI PASSI VERSO L'AZZURRO, prende ispirazione da una storia realmente accaduta ed emotivamente vissuta dall'Autore.
 
Tratto dal libro "Dicei passi verso l'azzurro"

 
 
Quella sera di dicembre, il viale fiancheggiato da spogli platani mi appariva particolarmente silenzioso, deserto, solo il fruscio delle foglie secche spinte da un bizzarro vento entrava nelle mie orecchie, ma la mente rimaneva assorta, inquieta, come se qualcosa d'imprevedibile e sconvolgente dovesse accadere. Eppure, nulla della mia vita privata interferiva negativamente, anche in considerazione di una mia spiritualità persa nelle fatiche quotidiane. Meditavo di recuperarla con quella passeggiata solitaria, mi era sufficiente, non avevo bisogno di altro per entrare in contatto con quella parte di me, che sfuggiva alla mia ferrea razionalità, ma che avvertivo necessaria, se non indispensabile, per interpretare con la massima attendibilità l'umano e tutta la natura che gli gira attorno.
Caso volle, che quella misteriosa e latente preoccupazione si concretasse al suono di uno squillo del cellulare:
"Riccardo, ti prego corri, vieni ad aiutarmi!" ansimò una voce;
"Chi è che chiama, chi sei?" chiesi ansioso.
Dall'altro capo del telefono arrivavano voci concitate, che proseguivano in un colloquio agitato ed allarmante:
"Da qui si deve spostare, qui non ci può stare, mi sono spiegato?"
"Voi non avete diritto di dirmi questo, perché non sapete nulla di quello che è successo!" rispondeva chi mi aveva chiamato.
Proprio quando cominciavo a riconoscere il suo tono di voce, riprese a parlare con me:
"Riccardo, sono Andrea, ho bisogno di soccorso, sono in via Mazzini, vicino al sottopassaggio ferroviario, corri, corri!"
Quella via mi rimaneva distante più di un chilometro, allora decisi di affrettare al massimo i miei passi per raggiungerlo: un vecchio amico, uno di quelli che non si dimentica per il suo essere ingenuo, incapace di fare del male e di dimenticare le persone amate.
A cento metri di distanza dal posto indicatomi, la via si mostrò vuota e buia, nulla lasciava presagire che fosse successo qualcosa, a tal punto che cominciai a dubitare che non fosse stato uno scherzo. Tra i lampioni rotti, ce n'era uno che illuminava sul marciapiede una figura esile, ricurva su se stessa, quasi immobile. Più mi avvicinavo, più affrettavo il passo, intuendo sempre più che si trattasse di un uomo. Solo all'ultimo istante, lo riconobbi, sbarrando gli occhi ed apprestandomi a soccorrerlo.
"No, non mi sollevare!" mi gridò "non mi reggerei in piedi".
Ancora incredulo, gli chiesi cosa potessi fare e lui cominciò ad ordinarmi di sollevargli prima un braccio, quindi l'altro. Poi mi chiese di divaricargli le ginocchia, di spostargli un piede, di tirargli i pantaloni da un lato. Appariva inerme, eppure concentrato a ritrovare un equilibrio ed un'energia presenti solo nella sua mente. Ebbi pazienza nell'assecondarlo, sebbene non mi spiegasse nulla ed io mi chiedessi ancora se non fosse tutto uno scherzo. a, a guardarlo bene, dal suo viso traspariva un'immensa sofferenza: lo sguardo malinconico fisso su una casa rosa con le ringhiere e le tapparelle azzurre, mentre la bocca pronunciava parole comprensibili solo a lui. Dopo un po', riuscì a sollevarsi e mi chiese di accompagnarlo nella sua macchina parcheggiata nei pressi; mi misi alla guida e mi pregò di portarlo un po' in giro.
Come un naufrago che, toccata la spiaggia e sfinito, cerca di rammentare il suo viaggio interrotto dalla tempesta, Andrea cominciò a raccontare il drammatico romanzo della sua vita, che in quel momento si trovava solo al primo capitolo.
 
All'età di trent'anni si era sposato con una donna, Genoeffa, più da assecondare che da amare. A lui era congeniale, perché l'atteggiamento dominante della moglie, compensava in qualche modo, la propria personalità fragile e di uomo ingenuo. Ove egli non riusciva, bloccato dalla timidezza, subentrava lei, con arroganza e pretesa, facendogli però pesare con parole umilianti gli eventuali successi. Cercava di rimediare dispensando tanto affetto e disponibilità, continuando a trovare nella sua famiglia un ruolo dignitoso di marito prima e di padre poi. Eh sì, perché nel giro di una decina d'anni ebbe dalla sua donna due figlie, delle quali era molto orgoglioso e nelle quali riusciva a trovare la forza per superare ogni ostacolo frapposto dalla moglie, che con l'andare degli anni si faceva sempre più prepotente, avida di denaro e di beni immobili da accaparrare. Genoeffa ben sapeva che Andrea doveva ereditare dallo zio Ermete, vedovo e senza figli, parte di una consistente proprietà, costituita da due appartamenti, un terreno agricolo ben posizionato e un'ingente somma di denaro depositata in banca: questi bastavano per sopportare ancora il marito, almeno fino a quando non ci avrebbe messo le mani sopra. L'occasione da non perdere, le si presentò quando lo zio, settantenne ed ex dirigente di una fabbrica di indumenti intimi, si ammalò di demenza senile. In quei giorni di degenza, Genoeffa fu molto, molto vicina allo zio, a tal punto da trascorrere intere giornate al suo capezzale, pronta a servirlo e soccorrerlo, badando a tenere lontani con espedienti vari, altri parenti, troppo insistenti nelle visite. Lo zio non impiegò tanto tempo per convincersi della bontà e della dedizione a lui rivolte dalla nipote, tant'è che non ci pensò su due volte per emettere testamento favorevole alla famiglia di Andrea, nominando però eredi preferiti le sue figlie e la stessa Genoeffa. Non solo, ma quando morì, stranamente il suo libretto bancario, nonché altri depositi in denaro investito, risultarono intestati con poteri di prelievo, oltre che allo zio defunto anche a Genoeffa. Quest'ultima ne approfittò immediatamente per restaurare la sua vecchia casa rosa, unica sua proprietà ed indivisibile con il marito, perché ricevuta a sua volta in eredità dal padre. Naturalmente non badò a spese, dedicando all'arredamento ogni capriccio che potesse soddisfare le sue esigenze del bello e del comodo; ad Andrea non rimaneva che assistere passivamente, impotente com'era di eccepire e persino di consigliare. Quando ogni soldo fu speso, egli notò un insolito atteggiamento della moglie di ulteriore indifferenza e sofferenza nei suoi confronti.
 
Prima di andare avanti con questa storia, bisogna premettere un altro avvenimento, che si era insinuato tragicamente nella vita di Andrea, circa due anni prima della morte dello zio.
Un giorno d'estate, egli era seduto in poltrona, gli venne desiderio di una bibita fresca e decise di aprire il frigorifero; gli sembrava di averlo fatto, ma incredibilmente si rese conto che non si era minimamente mosso. Il desiderio era corso più velocemente del suo corpo? Bastava riprovarci. Ci riprovò, ma ugualmente rimase immobile. Atterrito, prese coscienza di non essere in grado di muoversi. Era bloccato. Poco dopo, si sbloccò. Ebbe delle ricadute. Fece innumerevoli esami clinici, interpellò numerosi specialisti, finché non arrivò la diagnosi tanto certa, quanto spietata: morbo di Parkinson. Non gli rimaneva che convivere con la malattia, ma chi gli ostacolava questo intento era proprio Genoeffa, che adesso lo sopportava ancora di meno, anzi lo considerava un peso da scrollarsi di dosso al più presto, un marito di cui vergognarsi andando in giro. Andrea aveva intuito tutto questo e reagì cercando di nascondere la propria disabilità, negandosela a tal punto da trascurare le importanti cure iniziali.
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Ins. 22-11-2008