Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 
ll grande balzo verso la libertà
dal diario di un pilota
di
Giorgio Locatelli
 
Collana I salici (narrativa) 14x20,5 - pp. 84 -
Euro 8,26 - L. 16.000
ISBN 88-8356-300-X
E noi quel giorno
fummo soli nell'attonito
cielo di Albania
a guardare in faccia la morte
e portare in salvo
col nostro folle volo
il sogno di libertà
che da tempo ci ardeva in cuore.
 
 
 
 
I
 
 
Tranquillamente, come se niente fosse accaduto, Settembre del 1943 volgeva ormai al termine, rivestendo della sua luce dorata la vasta, silenziosa base aerea d'Araxos. All'interno della baracca n. 2, frattanto, più nessuno del nostro gruppo s'illudeva che la guerra in Italia, con lo sbarco degli Anglo-Americani ad Anzio e Nettuno, si sarebbe risolta entro l'anno. Notavamo anche che, col passare dei giorni, il numero di coloro che si opponevano a continuare la guerra a fianco dei Tedeschi o con al Repubblica di Salò, si andava sempre più assottigliando. Infatti, quasi tutti gli ufficiali, con in testa il nostro giovane comandante tenente B., avevano abbracciato la causa fascista, e molti di loro erano già partiti per l'Italia del Nord.
Ma ciò che più ci bruciava era il fatto che proprio lui, il comandante, col quale avevamo combattuto e vissuto insieme per parecchio tempo, e più che un comandante era considerato da tutti un amico, si fosse comportato in maniera così vergognosa, che nessuno si sarebbe mai aspettato.
Fin dai primi giorni della nostra cattura da parte dei Tedeschi, egli aveva indossato con indicibile disinvoltura l'uniforme della Luftwaffe, ed ora faceva la spola tra Patrasso ed Atene con il bell'incarico di rastrellare quanti più uomini gli era possibile, da inviare, poi, a combattere con i repubblichini, o nei campi di lavoro tedeschi. Ed anche con noi sottufficiali si dava molto da fare; ma noi tenevamo duro, tornando ad affermare di non voler combattere più per nessuno, e che per noi andava bene così.
Il più deciso a non mollare era un anziano maresciallo motorista pugliese il quale, come un padre con i propri figli, ci stimolava ed infondeva coraggio a tutti. Ma neppure il nostro ex-comandante meneghino dava segni di stanchezza, e di tanto in tanto tornava alla carica. Compariva all'improvviso in baracca, nella sua nuova fiammante uniforme tedesca e con voce ferma e apparentemente dispiaciuta, ci snocciolava il solito ritornello e cioè: "Che lì su quel campo, per noi non c'era più niente da fare e da sperare, era tutto finito, presto finite anche le scorte dei viveri in magazzino, e che il peggio sarebbe arrivato con l'inverno; e non mancava più tanto". E dopo aver preso fiato proseguiva: "E cos'altro potrete fare voi qui, all'infuori di giocare a carte e gironzolare intorno a questa baracca come dei poveri allocchi! Ad aspettare che cosa? La manna dal cielo?".
Non trascorse molto che ce lo vedemmo nuovamente comparire in baracca, per annunziarci che il Comando Superiore tedesco ci offriva la possibilità di venire trasferiti ad Atene per essere impiegati in lavori di manovalanza ed in altri piccoli servizi, che non avrebbero minimamente pregiudicato il nostro modo di pensare, presso le loro due basi aeree, oppure in altri siti dove era necessario intervenire. Ci lasciò dicendo: "Se lasciate cadere questa proposta, vi abbandono al vostro destino! Ripasso domani per avere una risposta".
 
 
 
 
II
 
 
"Faccia di bronzo" (così chiamavamo il nostro ex-comandante da quando aveva indossato la divisa tedesca) con quelle parole ci aveva messo di fronte al un arduo dilemma: toccava a noi, ora, a sbrogliarlo.
Quella sera, dopo cena (cena per modo dire, arrangiata), ci radunammo intorno ad un tavolo, non per giocare come al solito a carte, ma per discutere, per riflettere, per vagliare e per decidere quale atteggiamento assumere riguardo a quella nuova proposta che aveva tutte le parvenze di un ultimatum. Ma non era tanto semplice arrivare ad una conclusione unanime, definitiva: chi era favorevole, chi titubante, chi nettamente contrario.
A questo punto, ci venne in soccorso il maresciallo, il quale propose di affidarci alla sorte; accettammo tutti il suo suggerimento.
Lui, allora, si alzò in piedi e chiese una monetina, ma nessuno di noi conservava, nel fondo delle proprie tasche, un nichelino con sopra la nobile effigie del re fuggiasco in Egitto. Il maresciallo, senza dire una parola, allungò la mano e prese, dallo scaffale, le carte da poker. Mise da parte picche e fiori e disse: "Ecco fatto: qui in questo mazzo, sono rimasti soltanto quadri e cuori, una bella mischiata e scoprirò per ciascuno di voi una carta. I quadri esprimono voto favorevole ad andare ad Atene, i cuori, invece, voto contrario. Vince il colore che totalizzerà un maggior numero di carte. In caso di numero pari, sarà fatta una seconda distribuzione".
Alla conta risultarono sette quadri e cinque cuori. Il maresciallo sentenziò: "Vincono i quadri, tutti a lavorare ad Atene!".
E questa fu la risposta che, per bocca del maresciallo, demmo a faccia di bronzo quando il giorno dopo tornò a presentarsi in baracca. Ma ci si poteva fidare di uno che col suo comportamento ci aveva così profondamente sconcertati, delusi? Comunque non c'era altra strada, per il momento dovevamo stare al gioco; se poi lui giocava d'astuzia, noi l'avremmo ripagato con uguale moneta.
Verso la fine di settembre, "faccia di bronzo" venne ad avvisarci di tenerci pronti perché l'ordine di partenza sarebbe potuto arrivare da un giorno all'altro. Gli facemmo presente che noi, pronti lo eravamo già da tempo, potevamo partire anche subito; noi non avevamo bagagli da preparare, tranne i quattro stracci che portavamo addosso, tutta la nostra roba era rimasta negli alloggi di Mitilongli, in riva al canale di Corinto: non n'avevamo più saputo niente. Ci promise che quando saremmo arrivati ad Atene, si sarebbe interessato a farci avere il necessario.
La partenza per Atene, avvenne ai primi d'ottobre, di mattina presto: una chiara, tranquilla, stupenda mattina, che ancora ricordo come se fosse stato ieri. Tra piloti e specialisti, eravamo in tutto una dozzina. Di nostro, propriamente nostro, noi, in quella sperduta base aerea, non lasciavamo niente, ma giunto il momento del distacco, nel cuore di ciascuno di noi, c'era più tristezza che voglia di rallegrarsi. Non sapevamo che fine avessero fatto i nostri avieri, i nostri apparecchi abbandonati, lasciati ad arrugginire ai margini del campo, e noi in attesa di salire sopra un camion che ci avrebbe trasportati, di lì a poco, a Patrasso.
Giunti a Patrasso, fummo trasbordati sopra un treno che, a sua volta, ci condusse, scortati da un soldato tedesco armato di mitra, a Corinto. Solamente qui, mi ricordai di slacciarmi dal polso il cronometro che avevo portato dall'Italia in occasione della mia ultima licenza. Era un Rolex, che dava troppo nell'occhio, perciò lo ficcai dentro la valigetta: mi sarebbe dispiaciuto farmelo requisire dai Tedeschi. A Corinto, poi, fummo traghettati su di un vaporetto e finalmente raggiungemmo Atene. Non fummo, però, sbarcati al Pireo come tutti ci aspettavamo, bensì in un porticciolo a nord della città, in una località denominata Phaleron.
 
 
 
 
III
 
 
Ad attenderci allo sbarco c'era, come aveva promesso, il nostro ex-comandante, baldanzoso e fiero nella sua impeccabile uniforme tedesca.
Appena scesi a terra (era ormai mezzogiorno passato) fummo alla bell'e meglio rifocillati con scatolette di carne e pane scuro di segala, e subito dopo dallo stesso accompagnati in una graziosa villetta non molto distante dall'imbarcadero, ma completamente sguarnita. Ci assicurò che prima di sera, avrebbe provveduto personalmente a farci dotare di tutto quanto era necessario, sia per il mangiare, sia per il dormire.
Nominò responsabile del gruppo, il maresciallo pugliese, il più anziano ed elevato in grado fra noi, ed esortò tutti, almeno per i primi giorni di stare tranquilli e di non allontanarci dalla palazzina.
Concluse il fervorino dicendo: "Siete, ad ogni modo liberi, ma è necessario dare prova di serietà, disciplina e soprattutto puntualità nell'assolvere gli ordini che di giorno in giorno vi saranno impartiti, e tutto tornerà a vostro vantaggio. I Tedeschi, oltretutto, vi corrisponderanno l'Arbeitsgeld".
In conclusione, a sentir lui, eravamo dei privilegiati: bastava solo avere pazienza e sapersi adattare. A distanza di più di cinquant'anni, di quella mia breve permanenza al Phaleron, non posso che accennare ai casi e agli incontri più significativi, che di quando in quando si ripresentano alla mia memoria.
Occorsero un paio di giorni prima di sistemarci nel nuovo ambiente, e quando tutto prese a funzionare, io fui dislocato in una specie di padiglione (un tempo forse adibito a riunioni o come sala da ballo) dove erano stati raccolti una trentina di nostri soldati in grigio-verde provenienti da chissà dove. Il mio compito era quello di accompagnarli nei vari luoghi dove vi era necessità urgente di manovalanza; ma non capitava tutti i giorni di venire mobilitati. Ricordo di essere andato, più di una volta, assieme a loro, a raccogliere schegge sui due campi tedeschi subito dopo i bombardamenti da parte delle fortezze volanti americane; oppure a spaccare legna presso gli alloggi occupati da ufficiali della Wermacht. A questo proposito mi preme ricordare che una volta avevo condotto una squadra in uno di questi alloggi e mentre svolgevamo il nostro lavoro di spaccalegna, al balcone di una villetta attigua, si affacciarono alcune ragazze greche e senza curarsi dei soldati tedeschi che ci sorvegliavano, ci bersagliarono di caramelle. Riguardo al dormire, io non dormivo nella sala grande insieme con i soldati, ma sul retro in una stanzetta a parte, il cui ingresso dava su un piccolo giardino; però anch'io dormivo come loro sopra un pagliericcio per terra. E fu proprio qui che un mattino, svegliandomi, avvertii un insolito fastidioso prurito all'inguine. Feci un'accurata ispezione nei dintorni, e scoprii, con mio gran disappunto, di essere infestato da una brulicante, disgustosa, vera colonia di pidocchi!
Il primo impulso fu quello di raparmi a zero, solo che possedevo la macchinetta ed il sapone, ma non le lamette. E così mi diedi un'abbondante spolverata con un insetticida che portavo sempre con me, mi recai subito dal maresciallo per chiedergli di cambiarmi le coperte e, nello stesso tempo, il permesso di andare all'imbarcadero a tuffarmi in mare. Dopo un mese d'astinenza dall'acqua salata, di tuffi ne feci tanti in quel radioso e ancora caldo mattino d'ottobre! Se nonché nell'eseguire l'ultimo, o per essermi dato troppa spinta, o per non aver calcolato bene l'inclinazione, andò a finire che presi una bella zuccata sul fondo, che mi lasciò stordito per tutta la giornata: in compenso ero riuscito a scrollarmi di dosso tutta la pidocchieria!
 
 
 
IV
 
 
 
Sempre di quel periodo, ricordo l'amicizia con un calzolaio del posto, e lo scherzo, soprattutto, che un giorno mi combinò insieme con alcuni altri suoi compari. D'accordo, mi avevano invitato in un piccolo bar vicino alla sua bottega a bere un calicetto di krassì (vino greco resinato) e mi fu offerta anche una pagnottina con dentro, dicevano, una loro specialità che assomigliava al nostro salame all'aglio, ma che era stato cosparso, a mia insaputa, di peperoncino così piccante che appena addentato rimasi a bocca aperta, come se avessi ingoiato del carbone ardente.
Un altro episodio (nient'affatto divertente questa volta) fu quello che mi capitò una sera in cui, assieme ad una collega, ero andato a ritirare della biancheria che avevo portato a lavare in una casa dei dintorni. Era abbastanza tardi e, probabilmente, in questa zona era già scattato il coprifuoco: fatto sta che al ritorno, da un momento all'altro, nel buio, ci sentimmo intimare l'alt. Era la ronda tedesca, e uno di loro ci spianò contro il mitra e voleva sapere cosa facevamo in giro a quell'ora.
Erano in tre e nessuno parlava italiano, per giunta tutti e tre brilli e ce ne volle del tempo prima di riuscire a convincerli che non eravamo dei partigiani greci, ma piloti italiani al servizio della Luftwaffe.
Ma l'avvenimento che più mi era rimasto impresso nella memoria fu l'incontro con Mary. Un pomeriggio, non avendo niente da fare, mi aggiravo nei pressi dell'alloggio, quando mi si avvicinò una ragazza la quale mi chiese se avevo notizie di un certo mio collega che aveva conosciuto tempo addietro e del quale aveva perso le tracce. Mi disse anche il nome, ma io non seppi darle nessun'informazione al riguardo, essendo arrivato lì da poco.
Parlava abbastanza bene l'italiano, e così venni a sapere che era maestra elementare, figlia di padre greco scomparso, quando lei era ancora bambina, in mare, e di madre portoghese; abitava ad Atene, e di tanto in tanto faceva un salto al Phaleron poiché amava in modo speciale il mare. In conclusione era una simpatica e attraente ragazza, nel fiore della giovinezza e con tanta voglia di vivere: era più che evidente che assieme ai lineamenti fisionomici aveva ereditato anche il temperamento della madre.
Dopo esserci intrattenuti a chiacchierare per parecchio tempo, fissammo un appuntamento per andare insieme, un pomeriggio, in spiaggia. Tornò, infatti, alcuni giorni dopo in compagnia di un'amica, anche lei molto carina e spigliata. Nuotammo, ci sdraiammo al sole, andammo in barca, mi costrinsero perfino a cantare canzoni italiane che a loro piacevano e che anch'io conoscevo, ma che per il canto non avevo mai avuto una grand'attitudine. Comunque trascorremmo un pomeriggio stupendo, indimenticabile, almeno per me, che erano mesi che non avvicinavo ragazze, e ora me ne trovavo due sottomano, in costume da bagno per giunta! Mary venne ancora una volta al Phaleron, (così mi riferì qualcuno) ma io non c'ero, forse ero andato in giro a spaccare legna per i Tedeschi. S'interruppero così i nostri incontri, anche per via della stagione ormai avanzata. Mi aveva, però, lasciato il suo indirizzo di casa ad Atene, con l'invito di andarla a trovare qualora fossi capitato in città. Ma ciò si poté realizzare soltanto un mese più tardi, verso la metà di dicembre, quando noi piloti dal Phaleron, ci trasferimmo al centro quasi d'Atene.
 
 
 
V
 
 
Verso la metà di dicembre ci venne, dunque, proposto dal solito nostro ex-comandante, sempre più premuroso di riscattarci da una condizione, secondo lui, avvilente per dei piloti, di andare a recuperare i velivoli abbandonati dopo l'otto settembre sui vari campi della Grecia, per portarli in Bulgaria o in Jugoslavia, quindi proseguire in treno per l'Italia del nord.
Era un'occasione d'oro! Che io attendevo da molto tempo, e non ci pensai su due volte a dare il mio assenso, e con me anche tutti gli altri piloti che erano insieme con me al Phaleron.
Fummo immediatamente traslocati ad Atene e sistemati in un albergo situato in Piazza Omonia, dove trascorremmo a nostro bell'agio e in santa pace le feste di Natale e di Capodanno. Oltre noi in quell'albergo erano già convenuti altri piloti, che in parte conoscevo, e che dopo il disastro si erano sbandati e che ora anch'essi attendevano di venire impiegati nell'operazione di recupero sopra accennata.
Io, frattanto, ebbi l'opportunità di riprendere contatto con Mary, di conoscere la madre ed il fratello, nonché l'occasione e il piacere di andare un pomeriggio al cinema con lei. Verso la fine di Gennaio giunse finalmente il momento di venire convocati per dare inizio al nuovo impiego. Erano in programma due spedizioni: una a Kalamata, dove io ero già stato in servizio per alcuni mesi, e l'altra ad Araxos a recuperare i nostri C.R.42, più alcuni Macchi 200 che eravamo stati costretti ad abbandonare sul campo in seguito alle note vicende già riferite. Io presi parte soltanto alla seconda spedizione. Dal campo d'Araxos questi apparecchi li trasportammo all'aeroporto di Tatoi, e il giorno dopo sarebbero dovuti proseguire per la Bulgaria. Sennonché nel pomeriggio ci fu un violento bombardamento da parte di fortezze volanti americane, ed una buona metà degli apparecchi furono messi fuori uso; tra questi anche il mio.
E così di dieci apparecchi, soltanto cinque, qualche giorno dopo, furono in grado di riprendere il volo.
Ma a me non dispiacque rimanere ancora un po' ad Atene, e poi non mi sembrava quella l'occasione più favorevole per tentare di mettere in atto il progetto di fuga, che non mi abbandonava un sol giorno. Non tutti gli aeroplani sparsi in Grecia erano stati recuperati, perciò io rimanevo in attesa che altre occasioni si presentassero. E finalmente, verso la fine di gennaio, in albergo cominciò a circolare la voce di C.R. 42 a Rodi e bisognava andare a prendere anche quelli. Si venne poi a sapere che gli apparecchi erano soltanto tre, mentre i piloti ancora presenti e disponibili risultavano il doppio.
"Faccia di bronzo" ancora non si era pronunciato in merito e fatto una scelta di chi inviare e a chi affidare la responsabilità di questa nuova ed ultima operazione di recupero, quindi nutrivo qualche speranza di entrare nel numero di coloro che sarebbero andati a Rodi.
Nei confronti dei miei colleghi, io ero quello che aveva maggiori probabilità, nonostante la mia persistente, dichiarata avversione a schierarmi in favore dei Tedeschi e della Repubblica di Salò. Comunque, la sera in cui "faccia di bronzo" si presentò in albergo per definire la questione, non solo venni designato ma anche affidati a me l'incarico e la responsabilità dell'intera operazione. In cambio mi chiese di procurargli, a Rodi, un paio di chili di caffè che, qualora lui fosse già partito per l'Italia, al mio rientro ad Atene, io, avrei dovuto fargli pervenire il caffè al suo indirizzo di Milano. Volle anche pagarmelo in anticipo sebbene io fossi d'avviso contrario.
Prefazione del libro"Il grande balzo verso la libertà dal diario di un pilota"
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