LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
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Gino De Guglielmo

Nasce a S. Paolina (AV) il 04.04.1933.
Quando la famiglia si trasferisce a Gesualdo (AV), ridente e ameno borgo medievale dell'alta Irpinia, egli è ancora in fasce.
A 29 anni va in Sardegna, dove vive con moglie e due figli.
Ha insegnato per circa quarant'anni nelle scuole elementari; ora in pensione.
Tra gli hobby va ricordato l'amore per la campagna a cui ha dedicato le migliori energie. Una passione per il disegno e la pittura ad olio, per il canto, per la musica classica specialmente quella lirica.
Scrive poesie fin da giovane. La sua raccolta - inedita - comprende oltre a poesie - che scrive tuttora - racconti, fiabe e un'autobiografia.
Spazia in vari campi trattando argomenti che riguardano l'uomo, il creato, gli animali, sensazioni, emozioni, ricordi, vecchie e nuove amicizie. Leggere le sue poesie è come vedere infiniti fotogrammi di una pellicola (la sua vita) o come leggere la sua biografia secondo un ordine cronologico.
 
 
 

8 SETTEMBRE 1945
 
Domenica, ai camini il fumo è teso.
Nugoli d'aerei, cupo il rombo,
e all'improvviso la terra trema.
Il cielo si oscura,
e sembra chiudersi sui tetti.
Esito, poi.... un varco m'apro
tra polvere e pietre.
Per le scale irrompo,
e in quel chiamare disperato
è come voler annullare lo spazio
che mi separa da mia madre.
In ansia le mani ella porge:
essere tutti vivi
è già un gran dono.
La pena s'attenua,
ma il silenzio s'è fatto gelido,
i respiri son fermi,
eterno il tempo!…
Ecco le prime voci,
i primi lamenti,
il pianto e le urla
a svelare la tragedia.
Già i primi feriti
e i nomi sussurrati
dei sepolti vivi.
E i morti sotto le macerie
che di nomi si vestono e la carità
ai familiari tiene segreti.
Angoscia non finisce qui,
ora suono ha di sfollamento.
 

 
A GESUALDO
 
Dentro il lamento mi porto
d'esule. A me vieni, dolce
mio paese, e non solo come nome.
Rimembranza e suono
d'antichi moti e accenti.
 
T'ho rivisto, e più non sei
come ti lasciai: mutato ora
di forma e di colore,
e sui volti il tempo pesa,
e dei vecchi voce è spenta.
 
Per i più giovani sono forestiero:
così ignoto alla mia terra
e ospite sotto altro cielo:
due volte straniero. Tal è la condanna
di chi lascia la propria terra.
 
E quella cara mano che l'anima
mi piegava al riso e al pianto
non c'è più a scrivermi di te.
Pure il tuo volto a me scompare per le ferite
che il terremoto ti procurò nell'ottanta.
 

 
AL VECCHIO MULINO
Carichi al mulino stanchi
arrivano gli asini, e solo di rado
buoi aggiogati al carro.
 
Aiuto porge il mugnaio,
e i sacchi pesati, sullo scrimolo
attendono il segnale.
 
Liberi i granelli
la tramoggia ingoia
e come enorme clessidra
 
pare scandire il tempo.
Rumorosa la mola
copre il vocìo e senza posa,
 
la granaglia stritola.
Un getto prorompe fluente,
improvviso, fragrante,
 
men rado, più rado.
Tra l'aereo friscello
e lo stridore della macina rotante
 
il mugnaio della farina il getto
rompe, non per voluttà o passatempo,
ma per renderla più fina.
 
E come i sacchi s'involano
al mugnaio il cuore
due volte torna felice.
 

 
I MIEI NATALI
 
Cinquanta già ne conto e dei lontani
più chiara è la memoria.
Nella fumosa cucina tra odori acri
la solerte madre il chiacchierìo
frenava con severità di sguardo.
 
La veglia si popolava
di racconti e di passati Natali.
Occhi stanchi vinti da sonno
profondo, mentre il crepitìo
dei mortaretti cresceva per le vie.
 
Mezzanotte, Gesù nasce al canto
del Te Deum tra scampanìo
solenne e nuvole d'incenso!
Canti e recite di bimbi
che per le mamme nuovi palpiti destano,
 
mentre il bisbiglio cresce tra i fedeli.
Fuori, la notte, non gelida,
piena è di stelle.
Orme umane s'allungano
su lucentezza di neve.
 
Nel pensiero già è il nuovo giorno.
E all'augurio di Buon Natale
ciascuno, rincasando, ripieno
è di speranza e di gioia.
 
 
Cinquanta già ne conto e dei lontani
più chiara è la memoria.
Nella fumosa cucina tra odori acri
la solerte madre il chiacchierìo
frenava con severità di sguardo.
 
La veglia si popolava
di racconti e di passati Natali.
Occhi stanchi vinti da sonno
profondo, mentre il crepitìo
dei mortaretti cresceva per le vie.
 
Mezzanotte, Gesù nasce al canto
del Te Deum tra scampanìo
solenne e nuvole d'incenso!
Canti e recite di bimbi
che per le mamme nuovi palpiti destano,
 
mentre il bisbiglio cresce tra i fedeli.
Fuori, la notte, non gelida,
piena è di stelle.
Orme umane s'allungano
su lucentezza di neve.
 
Nel pensiero già è il nuovo giorno.
E all'augurio di Buon Natale
ciascuno, rincasando, ripieno
è di speranza e di gioia.

 
L'AQUILONE
 
Giorno di festa. Allegri i bimbi
al poggio vanno con l'aquilone.
Ed ecco librarsi, prender quota,
e dalle mani filo sottrae il vento.
 
Nell'azzurro s'innalza, indugia,
e cullandosi perde quota, risale,
lotta col vento; poi imponente va,
sospinto, come nuvola bianca, e va...
 
Alla fantasia un aereo diventa
e una cloche il filo
che il bimbo intrepido manovra;
e allo sguardo, in cielo, diventa un puntino.
 
 
Col nasino in su tutti
lo guardano attoniti.
Poi un colpo di vento
e l'aquilone in basso è sospinto.
 
Rotea, perde quota
e come uccello ferito
su quercia secolare cade.
L'amaro filo il bimbo ritira
 
assieme a strisce di carta.
Mutano i tempi ma nell'infanzia ,
in cuor, si agitano sempre
gli stessi sentimenti.
 

 
DUE ESISTENZE E DUE AMORI
 
Strappato dalle mie radici, Gesualdo
mi adottò ancora in fasce.
Molti mi accolsero ma i più
non scordarono le mie origini,
e forestiero vissi in dolce esilio.
Quando la memoria si riaccende
il pensiero a quel tempo nel pieno
vigore corre della giovinezza.
 
Qui venni già avanti negli anni,
mia dolce Sardegna, dove vivo
due esistenze e due amori,
e dove ancor di più esule
mi sento. Sempre in cuore, o Gesualdo,
il tuo idioma serbo, ora silente,
se pure l'accento ognuno qui rileva.
 
E mi sovviene l'antico borgo, simile
a una nave e il Castello, suo ponte
di comando, che da lassù vigila
su quel grappolo di case vetuste
e dirupate. E le tante viuzze umide
d'inverno e ombrose d'estate
che si inerpicano fino ai suoi piedi.
 
Come belli i suoi monti, con Chiusano
e Montevergine sul crinale più distante!
E la campagna quanto a me cara
e come generosa! Ora scoscesa e aspra,
ora declinante in dolci pendii. E i sentieri
per lo più tortuosi di cui molti nomi
ho scordato ma non la loro asperità.
 
E la strada maestra che a cerchio
abbraccia quel nido di case,
e che nel dileguarsi al cuore
è troppo dolce o troppo grave.
In quei miei brevi soggiorni da te, Gesualdo,
il pensiero volava a questa terra,
 
ai miei cari, a questo mare cristallino,
alle spiagge dalla sabbia dorata,
ai tramonti accesi e interminabili,
al vasto Campidano, monotono
e uniforme, che con la tua campagna
confrontavo, varia e vivace.
 
Agli usi e costumi di questa gente,
ai tanti luoghi visti e abitati
al parlare del sardo, al suo scandire
ogni sillaba come a scolpire ogni parola.
Ed or che la mia vita volge alla fine,
e conciliato con le due esistenze
e i due amori, l'anima mia alla quiete
dolce si dispone e al gran silenzio.
 

LO STEREO
A don Gennaro Forgione
 
 
 
Mi strappi dal lieto presente
e in un tempo lontano mi riporti,
quando possente la tua voce
entrava nelle case di vita grama.
 
Ora se la voce dispieghi il riposo
turbi e non c'è chi non se ne lamenti.
Così sulle grevi tue note i ricordi
inseguo di quelle notti calde,
 
 
e delle lucciole tra le spighe verdi.
Tempo di miseria e di comitiva
spensierata, anche se privata
d'ogni dolcezza. Pure la speranza
 
mai s'inabissò per una vita tanto crudele.
Anzi la tua voce cuore metteva;
e i più vicini anche si godevano
le stanze tue illuminate.
 
 

 
PER VENIRE DA TE
 
Per venire da te camminai
per scorciatoie di fango
col vento e la neve.
Per ripidi acciottolati gli scarponi
chiodati risuonarono sotto torrido
sole o pioggia scrosciante.
 
Il richiamo udii d'uccelli canori
e dei contadini voci
e canti lontani, piane.
Il fragore spaventato ascoltai
dei torrenti, e il mormorìo
d'un ruscello tutt'uno intesi
con lo stormire di pioppi e querce
secolari alla cui ombra riposai.
 
Camminai, quanto camminai!
L'arsura lenii con acqua di fonte
la fame placai con frutta racimolata.
Fili d'erba recisi, e stille
quante di sudore! E da te venni
o scuola coi piedi fradici
e le mani ghiacciate.
 
Il mio spirito è risollevato,
forza il corpo acquistò
e la pupilla vigore,
ma le ferite sanguinano
e l'anima è come spezzata,
pur tuttavia il mutare delle stagioni
e d'ogni moto io canto.
 

 
POMERIGGI INVERNALI
 
Oh soavi pene d'un tempo! Fanciullezza
vissuta libera ma privata del paterno
abbraccio. Al calduccio e tra queste
carte vibrano affetti mai sopiti.
 
Casa spoglia di tutto fuorchè
l'amore. E dalla stanza buia rivedo
l'apparire e lo sparire, mistero per me
allora, di luci su per la montagna.
 
Ora in poltrona siedo
e non vedo che case;
la campagna ombrosa
mi sovviene e le case sparse.
 
E l'argentato dondolìo
che il vento scompigliava
degli olivi, e gli olmi serrati
tra i tralci penduli della vite.
 
E i monti, oh i miei monti
di cobalto o innevati,
ove l'orizzonte
s'adagiava con i suoi elementi!
 
Gli occhi or chiudo e queste case
subisso. Poi un lago mi fingo,
e alti spruzzi che infinite ali sollevano,
e lieve intanto le barche vanno...
 
Tonda la luna in cielo, come sospesa,
chiarore distende sino ai gibbosi colli.
Compagnìa di sogni mai non m'abbandona
quando tristezza di più m'opprime.
 

 
RICORDI DI MIA TERRA
 
Stretto fra due radici,
qui vivo tra i miei
là risalgo alle mie origini.
La mia gente non scordo,
 
né le vie anguste
tra vecchie case,
e i muri senza schermo
ad accerchiar l'alto Castello.
 
Bambino, mi stupiva
una ricca dimora
col suo ridente giardino
io che privo ero d'ogni cosa.
 
La siepe che me vide in sereni
giochi, e nei tramonti donnette
a ritirar stinto bucato,
mai presaga fu di vita randagia.
 
Riodo le percosse conche d'estate
ai cannelli stenti della fontana,
e le irate voci,
e il tonfo della pietra
 
a bagnare l'assetato ignaro.
E la frutta negli orti,
ove curvo sparivo tra i sentieri.
E le brocche riempite
 
a Costa dei Vecchi dove ad eroe
giocai fino a giovinetto,
e donde mai pensiero
andò oltre quei monti.

USANZE FUNEBRI
 
 
Di usanze funebri ho parlato
al tuo cospetto, ottuagenaria,
e me ne pento. Più rintocchi
donna era morta, campana
a distesa bimbo il ciel rapiva.
 
Sull'uscio e sul portale
di chiesa addobbi di drappi
neri. E di campane a morto
suono senza tregua, interminabile.
Tal che in ogni casa tomba
 
sembrava ergersi, e l'anima
a gravar di dolore estremo.
Nella buia chiesa catafalco
enorme, e ai quattro angoli
vegliardi vestiti di nero,
 
e sui candelabri grossi ceri
a diffondere tetra una luce.
E le note della marcia
funebre che scavavano
nel cuore pietà e pianto.
 
 
Fila senza fine per le condoglianze.
E per i più familiari
il consòlo a dare ristoro
ed energia al cuore che ancora
caldo era di lacrime.
 

 
A DODICI ANNI
 
Mi resta in cuor quel tempo bambino
e il rumore cupo d'aerei
e lo schianto di bombe
e i bengali a rendere giorno le notti
e noi raminghi per le campagne
nella tarda estate
e la fame e i pozzi senz'acqua.
 
Mai un po' di requie,
né tempo per i nostri giochi,
e la morte sempre in agguato,
e soldati dei due emisferi,
e armi e bombe
e altri strumenti di morte.
 
Notte senza fine sotto il Castello
in quel rifugio con un solo ingresso.
Ingenuità dei grandi!
Un tetro cunicolo con qualche cero;
una cassetta simile a bara
accoglieva il sonno d'un bimbo.
 
Voci spente e nel silenzio...
funeree ombre!
Il gocciolar lento della roccia
e sulla roccia noi in veglia, rannicchiati.
 
L'alba ci vide in cammino
con negli occhi finalmente il sonno
per asili chissà se più sicuri.
 
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Agg. 05-11-2007