Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 

Incipit di Le istantanee di un minimalista
Racconto di

Gianni Ferrara

Prima istantanea
 
 
Il cerchio della luna si contorceva sulla ritmicità delle onde e la sua luce sembrava uno sciame d'api impazzite che duellano con gli spruzzi dell'acqua. Colpito da questo scenario rientrai subito a casa per dividerlo con Diana. La trovai che dormiva avvolta fin sopra il naso da un lenzuolo blu e rosso che la faceva apparire bella e misteriosa come un'immagine dei tarocchi. Le pareti della sua stanza, ricoperte da uno spesso ed irregolare intonaco, non avevano mai smesso di suscitarmi una sensazione di minacciosa austerità e quando il vento frustò le persiane, facendone vibrare i vetri, non potei fare a meno di emettere un urlo soffocato di paura. Diana, udendolo, interruppe subito la sommessa regolarità del suo respiro per chiedermi cosa stesse accadendo. Ripresomi dallo spavento, gli risposi che questa notte c'era una luna stupenda. Appena udì la mia risposta scattò in piedi e lasciandosi scivolare il lenzuolo dalle spalle si mise a correre verso il giardino. Giunta lì si alzò sulle punte dei piedi e tendendo il braccio in alto urlò divertita: «Presa, ora la luna è nostra» ed il candido astro immoto sembrava davvero essersi posato su quella piccolissima mano aperta.
 
 
Seconda istantanea
 
 
Il tremolio della fiamma e l'oscillante danza della mia ombra accompagnava il lento scorrere della penna sulla carta. In questo paesello abbarbicato su di una collina scoscesa succedeva di restare al buio tutte le volte che il fragore di un tuono lacerava il velo di quiete che lo copriva, ed io tenevo sempre una candela sulla scrivania per impedire al buio di negarmi l'appagante realtà fatta di carta e d'inchiostro. Anche quella sera l'oscurità era scesa su di me con prepotente rapidità, ed a me non restava che chinarmi, quasi a sfiorare il foglio con il naso, per sfruttare al massimo la fioca luce che proveniva dalla candela. Le ore precipitavano pesanti sul mio capo, inarrestabili come grigi granelli di una clessidra. Era quasi giorno, e stremato dalla stanchezza rilessi i fogli che avevo riempito durante la notte, scoprendo con stupore di aver scritto qualcosa di illeggibile, di estraneo a me. In quei fogli, antemondi della ragione, avevo trascritto le segrete parole che il vento sibilava tra i rami spogli. Questo pensai, mentre chiudevo la fiamma della candela tra le due dita umide di saliva.
 
 
Terza istantanea
 
 
Il confuso brulicare delle voci si alzava come vapore sopra le teste delle persone giungendo denso di inutile vanità fino alla finestra della mia mansarda. Tra spallate ed appuntamenti urlati a distanza si snodava lungo la strada l'esercito disordinato dei fedeli della passeggiata del sabato sera.
Non mancava nessuno: c'era il dinoccolato venditore di palloncini, sempre impegnato a gonfiare ed annodare ad esili funi la sua buffa mercanzia dai colori luminosi come angurie al sole, ed il clochard Cico che con le guance gonfie d'aria tentava di fare uscire dal suo flauto dolce una melodia natalizia, a volte riuscendoci altre volte graffiando l'aria con un suono d'allarme.
Ogni tanto mi sporgevo dalla finestra cercando senza riuscirci di immaginare tra la folla la mia sagoma sfuggente e disincantata.
Cico ce la metteva tutta per attirare l'attenzione dei passanti ma questi, fingendosi distratti, gli passavano accanto come se fosse un lampione che apparso all'improvviso, imponeva una piccola deviazione. Il sabato non era il giorno adatto per la generosità, e Cico, libero dalle convenzioni calendariali, purtroppo non lo sapeva.
Col passare delle ore le persone scomparivano come bolle di sapone. A terra erano rimaste soltanto delle bottiglie di birra che, sfruttando la pendenza del marciapiede, rotolavano urtandosi l'un l'altra in un tintinnio allegro per poi fermarsi sulle fessure di un tombino: era t ornato il silenzio e i miei pensieri si misero a vagare in quel continente di fantasia che era diventata la strada.
 
Quarta istantanea
 
 
La nera ombra del lampione si stendeva lungo il marciapiede a Luz a piccoli passi ne misurava la lunghezza. Complice di quel pigro indugiare senza scopo il sole cocente d'agosto. Completamente assuefatto all'implacabile attività della propria fantasia, sprofondava negli illimitati giochi degli spazi irreali, nei quali ogni mattonella calpestata si trasformava, diventando giardini in fiore, terre deserte e piazze circondate da alte statue di marmo. Per niente turbato dai posti che vedeva li attraversava senza accorgersi del rumoroso traffico che si snodava lungo il viale.
Vide su delle isole verdi, contro le quali si scontravano creste di ghiaccio, uomini misurarsi con la durezza del ferro, forgiandolo e brandendolo, ed altri inginocchiarsi dinanzi a rocce incise. Sotto un cielo coperto di lingue rosse vide eserciti di schiavi morire per colmare la loro distanza con le stelle, erigendo piramidi e bambini invecchiare intorno al fuoco. Giunto sull'ultima mattonella coperta dall'ombra si fermò come se delle mani invisibili lo immobilizzassero trattenendolo dalle caviglie. Il clacson di un'auto lo fece trasalire, riportandolo nella realtà: vide la propria ombra ingigantirsi, adesso era lui a languire al suo fianco.
 
 
Quinta istantanea
 
 
Camminavo sotto i portici, girando incessantemente intorno alla piazza senza un apparente interesse. Tutto di quel posto da tempo mi era noto: il mattone sporgente contro il quale i turisti disattenti inciampano, la colonna inginocchiata dell'antica chiesa romanica ed il nervoso sbatter d'ali dei piccioni, eppure continuavo a camminare inconsapevolmente come le lancette di un orologio sono spinte dalla misteriosa volontà di una minuscola ruota dentata. La profonda quiete di questa città mi aveva sempre stordito e quando all'improvviso mi fermai tutto sembrò fermarsi con me, anche i passanti con il loro monotono entrare ed uscire dai negozi. E per un attimo cessai d'esistere per diventare una pietra irregolare della fortezza medicea che, alta ed imponente, occupava il paesaggio e che io non potevo fare a meno di fissare con ammirazione. C'era qualcosa in quell'atmosfera medievale che mi faceva provare una sorta di sofferta estraneità nei confronti di me stesso, degli abiti che indossavo e per tutto quello che rappresentava il mondo moderno. Ripresi a camminare questa volta facendo attenzione al rumore dei miei passi sul selciato. Sentii il bisogno di provare a scrivere quelle molteplici sensazioni che si affollavano nella mente; per questo motivo mi sedetti al tavolino di un ristorante all'aperto e lì vidi i miei tormentati dubbi sull'esistere posarsi neri sul tovagliolo di carta su cui stavo scrivendo. Come materializzato dal nulla apparve davanti a me un cameriere.
«Il signore ha ordinato?» Non potevo certo spiegargli che mi ero seduto soltanto per scrivere ed imbarazzato risposi di no.
«I piatti di oggi sono...» ed iniziò a cantilenare l'elenco del menù ed io lo guardavo fingendo di ricordarmi delle pietanze che enumerava.
«Questo sì... sì, questo va bene» lo interruppi spazientito senza sapere se si trattasse di un primo o di un secondo.
«Il vino che le consiglio è...»
«Glielo stavo giusto chiedendo» gli risposi con tono beffardo.
Dopo un po' ritornò portando il vino dentro un cestello col ghiaccio, capovolse il bicchiere e lo riempì a metà. Lo avvicinai al naso per sentire l'odore e capii che ero ritornato ad essere un uomo senza fede e dimenticato dal tempo come una statua pagana in un tempio in fiamme.
 

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Agg. 17-01-2004