Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Gianni Ferrara

Con questo racconto ha vinto il decimo premio del concorso Club Poeti 1999, sezione narrativa

 
Sul morbido guanciale della follia
 
 
01.09.1998 ore 8.30
 
Ricordo bene, come se fosse oggi, l'invadente senso di vuoto ed il fremito segreto, inspiegabile, che gelò le mie viscere quando mi balenò nella mente quella idea assurda, frutto di un animo votato alla rinuncia: non alzarmi più dal letto.
 
Tutto ebbe inizio una mattina d'ottobre. La fioca luce dell'alba illuminava gli oggetti della mia stanza, animandoli di una forza misteriosa, i libri sistemati ordinatamente sulle mensole sembravano degli scrupolosi dei tutelari, attenti ad ogni mio piccolo movimento, pronti ad intervenire per mettermi in salvo da qualsiasi pericolo. Da parte mia, per nulla al mondo avrei rinunciato al calore rassicurante delle coperte che mi avvolgevano come poderose braccia paterne ed al guanciale morbido e premuroso come il ventre della donna amata su cui affondavo il volto estasiato. Una semplice influenza mi aveva costretto a rimanere per alcuni giorni a letto, passata la febbre compresi che quel banale malessere era stato per due motivi la mia salvezza. In quei giorni infatti avrei dovuto sostenere l'esame di F.T., esame che sicuramente si sarebbe concluso con una mortificante bocciatura, non per la mia preparazione che come sempre era stata meticolosa, ma per il timore che mi suscitava la professoressa i cui modi tanto distavano dai comuni canoni femminili. Il secondo motivo era Nora, la ragazza che, contrariamente alla mia indole introversa, da tempo corteggiavo in modo piuttosto ossessivo, spesso plateale, scatenando su di noi l'ilarità dei nostri colleghi universitari. Da lei ottenni soltanto dei rifiuti energici che non davano nessuno spazio alla speranza, ma più questi erano duri ed umilianti e più il mio atteggiamento nei suoi confronti si faceva istrionesco ed esageratamente romantico.
L'ultima volta che la vidi fu così esasperata dalla mia opprimente presenza da esplodere in una convulsa crisi isterica: con i suoi piccoli pugni mi colpì ripetutamente al petto, strappandomi con le unghie affilate i bottoni della camicia, urlando come non avevo sentito fare a nessuno "Vattene, devi scomparire per sempre!". Immobile, con la camicia che scivolava dalle spalle scoprendo il pallore del mio petto glabro, subivo i suoi attacchi con la patetica passività di un martire cristiano gettato in pasto ai leoni, comunque sicuro di ottenere da quel sacrificio i favori di un Dio generoso.
Per ore risuonò nelle mie orecchie la voce di Nora stridula per la rabbia. Fuori da ogni logica il mio interesse per lei restava immutato, ma avrei di nuovo avuto la forza di sostenere il tuo sguardo furente? Questa domanda resterà senza risposta, comunque la mia assenza all'esame ebbe un certo effetto su di lei, tanto da indurla a telefonarmi: non lo aveva mai fatto ed a quella prima inaspettata telefonata ne seguirono altre. Che cosa volesse dirmi non lo so e forse non lo saprò mai perché ovviamente mi rifiutai di alzarmi dal letto, lasciando che fosse mia madre a rispondere. Ero inebriato, rimanendo fermo ero riuscito a spingerla verso di me e questo era un motivo più che sufficiente per prolungare la mia già lunga convalescenza.
 
02.09.1998 ore 11
Se è vero che gli uomini devono
essere giudicati da come agiscono la mia lucida ed inamovibile semi-paralisi volontaria (semi perché rifiutandomi di adoperare quegli arnesi dalle forme e nomi buffi mi alzo per...) mi pongo al di sopra di ogni giudizio. Nella società si vive come dei lebbrosi, ogni giorno che trascorre lo si paga con brandelli di carne e l'unico modo che esiste per evitare il contagio è allontanarsene, lasciando che l'epidemia della mediocrità diffonda il suo morbo, omologando tutti in tanti animali da macello.
Sono passati più di quattro mesi dall'ultima telefonata di Nora e sono quasi due anni che non la vedo. La mia assenza mi avrà reso onnipotente e lei non potrà mai, per quanto si possa sforzare, immaginare il mio aspetto. La follia può avermi trasfigurato in un uomo grasso e curvo che si muove con piccoli passi, aiutandosi con un bastone o in un santo circondato da un'aura magnetica che profetizza castighi e catastrofi, interpretando dei messaggi celesti che solo lui può udire.
Volete sapere perché ho iniziato a scrivere questo diario? Non certo per impedirmi di dimenticare i piccoli episodi che costituiscono la mia inutile vita, così come fanno gli innamorati che alle prese con la noia di un rapporto scevro di passione, devono necessariamente cercare nel passato un motivo per giustificare i prossimi puntuali appuntamenti non desiderati.
No, per piacere non pensate questo, non sono ridicolo, lo faccio per purgarmi la mente: è come scrivere coi polpastrelli una frase su di un vetro appannato con il fiato, lo si fa solamente per vederla scomparire dopo qualche istante. Presto mi libererò da tutti i miei ricordi e come una mongolfiera privata delle zavorre mi perderò in un cielo senza orizzonti.
 
05.09.1998
Non riesco a prendere sonno... sen-
to le guance bruciarmi, le tempie mi battono all'impazzata... digrignando i denti ringhio come un cane idrofobo. È tutta colpa di mia madre, non vuole capire ed ha ripreso a torturarmi con i suoi piagnistei, dice che devo ritornare a vivere, ma lei sa cosa è la vita?
Stamattina ha chiamato il dottor M., un uomo gigantesco, con la faccia tanto grassa da non poterne distinguere i lineamenti. Non tollero la sua falsa cortesia da venditore di enciclopedie e la malcelata superbia che traspare da ogni suo gesto. Quando viene a trovarmi mi snerva con una infinità di domande banali alle quali rispondo in maniera vaga senza dar loro importanza ed egli riporta prontamente le mie risposte in un taccuino. L'atteggiamento che assume nei miei confronti è paragonabile a quello di un tecnico davanti a un elettrodomestico da aggiustare. Una volta mentre sembrava interrogare le nuvolette di fumo che fuoriuscivano dalla sua inseparabile pipa mi domandò: "E suo padre? Può parlarmi di lui?" Non risposi ed egli soddisfatto dal mio silenzio mi rivolse un sorrisetto malizioso: era finalmente sicuro d'aver trovato il guasto.
Di mio padre dal giorno della sua morte non ne volli più parlare, ero caduto nel ricatto della coscienza e riempivo la sua assenza con mille bugie, utilizzando come tanti mattoni tutti i più bei ricordi che avevo di lui, per costruire una altissima torre di falsa serenità sulla quale io potevo ascoltare il silenzio senza rimorsi. Ma adesso non posso fingere che non sia successo niente, dei fantasmi popolano questa casa e di notte mi afferrano per il collo, bisbigliandomi nelle orecchie il mio delitto. Li imploro di andarsene, ma loro vogliono che ritorno indietro nel tempo per scoprire la mia infamia, solo allora mi lasceranno in pace. Dicono che basta che io lo voglia davvero e ci riuscirò. Abbasso leggermente le palpebre e come un pipistrello vedo dall'alto delle sagome senza colore muoversi, sto rivivendo quella notte maledetta.
Una pioggerella fine cade incessantemente, un uomo scende dall'auto e appena in piedi sbuffando si tira su la cerniera del giaccone. Inebetito, con le chiavi in mano, si ferma per interminabili istanti davanti alla portiera semiaperta, come se non ricordasse più come chiuderla. All'improvviso come se un fulmine lo avesse trapassato si piega su un fianco, con la mano cerca di afferrare la portiera ma questa scivola via dalla debole presa spalancandosi. Delle persone accorrono in aiuto, lo sollevano da terra, l'uomo è morto... così cinque anni fa morì mio padre.
A portarlo a casa furono dei nostri vicini. "È morto, forse un infarto" disse uno di loro mentre lo adagiavano sul letto. Io rimasi immobile, testimone indifferente delle urla strazianti di mia madre, solo i miei occhi si muovevano velocemente, a scatti, come quelli di un topo in trappola, posandosi continuamente su quel volto contratto e sulle mani ansiose di mia madre che con gesti convulsi cercava disperatamente di riportarlo in vita.
Ora, pensai, il dolore mi salterà addosso ed affonderà i suoi denti acuminati nella mia carne, facendomi urlare di disperazione, ma con mia grande sorpresa ciò non accadde. Non piansi, restai a guardare provando orrore di me per quel dolore che non sentivo e da allora distillo dal silenzio della notte parole d'affetto e riconoscenza da rivolgere ad un uomo che poi di giorno scopro non esserci più.
 
12.09.1998 ore 14
Io, non ci sono che io in questa stan-
za, e non c'è nulla che non sia mio, che non sia me: i miei quadri sulle pareti, il mio diario su cui scrivo i miei pensieri; qui per ore il mio respiro è l'unico rumore che si può sentire. Gli spazi e i tempi mi sono indifferenti, tutto è regolato da me. Dalla finestra vedo il cielo grigio, fermo, gonfio, copre tutto. Chissà quanti lo guardano temendo il temporale... a me basta fissare le macchie di umidità sul soffitto e le nubi cessano d'esistere... nulla può preoccuparmi in questa stanza dove ad esistere non ci sono che io.
 
15.09.1998 ore 14
La ragione è un seme infecondo
disperso nella mia scatola cranica. Sono folle e la cosa non mi dispiace. Mia sorella maggiore fu la prima a definirmi così quando ero ancora un bambino. Allora con la mia famiglia eravamo soliti trascorrere i fine settimana in montagna dai nonni materni. Passavo le sere vicino al camino ad ascoltare gli adulti parlare. Una volta, mentre osservavo le fiamme avvolgere gli scoppiettanti ciocchi di legno, vidi uscire dalle lingue di fuoco una farfalla di un biancore latteo, volteggiare e poi posarsi nell'angolo più buio del soffitto. Quell'apparizione non mi turbò e quando ne vidi uscire altre le indicai entusiasta a mia sorella: "Guarda quante farfalle bianche! Sono uscite dalle fiamme del camino!".
Ella volse lo sguardo là dove puntavo con l'indice "Farfalle?" esclamò "Sei forse impazzito?". Da quel momento tra me e gli altri si aprì un abisso invalicabile: loro vedevano soltanto ciò che era illuminato, io invece distinguevo perfettamente quello che si muoveva nel buio.
 
Non c'è realtà più reale del delirio: una notte sognai che mio padre mi accarezzava il volto, sentivo la docile pressione delle sue dita sulla mia guancia. Stava per dirmi qualcosa, quando un rumore mi svegliò e lui tornò ad essere cenere.
03.10.1998 ore 7.35
Sul pavimento ho posato uno specchio e nella disperazione mattutina, tenendomi aggrappato alla sponda del letto, mi sporgo come un Narciso impaurito sull'orlo del baratro, cercando una risposta nell'immagine che esso riflette. Vorrei trovare tra le profonde pieghe della mia fronte una via d'accesso che mi consenta di capire quel che è giusto o cosa realmente voglio. Suicidarmi? E se la morte nascondesse un'altra vita come questa? Nella mia mente c'è un'entità che impone alle mie articolazioni di muoversi... verso cosa sono spinto? La mia volontà sta vacillando... saranno le continue visite alle quali mia madre mi sta sottoponendo... sto pensando di uscire. Qui non sono più solo, esce con un medico e la porta della mia stanza si riapre per far accomodare un prete, un parente o un amico di famiglia. Espongono le loro teorie, parlano di fede, sistema nervoso o del coraggio che si debba dimostrare nella vita per poi concludere con la stessa preghiera: "Esci, anche una volta soltanto, fallo per tua madre, poverina".
 
27.10.1998 ore 23.30
Sono molti giorni che non scrivo:
non ci riesco, la penna non vuole scorrere sul foglio. Venti giorni fa sono uscito. Come è andata? Mia madre mi accompagnò alla porta piangendo per la gioia.
L'ascensore non funzionava e fui costretto a scendere a piedi. La tromba delle scale mi sembrava le fauci aperte di un mostro pronto ad inghiottirmi. Dalla porta di un vicino provenivano urla, più bestemmie che parole per una camicia non stirata. La portinaia non rispose al mio saluto e restò ferma a fissarmi con la sua faccia inespressiva da foto tessera. Una raffica di vento sollevò le foglie facendole girare vorticosamente e provai invidia per la loro docile passività. Mi diressi verso la Villa Comunale dove si stavano radunando le prime puttane. Provai orrore: la miseria e le effimere felicità appartengono a chi decide di vivere nella veglia, io dopo quello che ho visto voglio dormire, dormire e nient'altro che dormire. In fondo cosa si può pretendere da me, figlio prediletto della follia e fedele compagno di un guanciale?
 
 

Gianni Ferrara

 
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Agg. 17-01-2004