Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Francesco Andrea Baffari
Ha pubblicato il libro

Francesco Andrea Baffari - La casa in cima al colle

 




 

 

 

 

 

 

 

 

 

Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)

 

14x20,5 - pp. 116 - Euro 9,80

 

ISBN 88-6037-096-5


In copertina illustrazione di

Francesco Laforgia 


Pubblicazione realizzata con il contributo de

IL CLUB degli autori in quanto l'autore è finalista

nel concorso letterario «J. Prévert» 2005


Prefazione
Incipit


Prefazione
 
A mio modesto parere, la sorte di un libro è riassunta tutta nella sua prima pagina. Se quanto in essa è scritto riesce a sollecitare l'interesse e la curiosità del lettore, è sicuro che sarà letto per intero; in caso contrario è molto probabile che venga chiuso e messo da parte.
"La casa in cima al colle" di Franco Baffari è un romanzo che prende per mano il lettore fin dal primo capoverso e lo accompagna piacevolmente fino all'ultima pagina.
Fine conoscitore dell'animo umano (Franco Baffari è un medico ospedaliero) l'autore trasferisce nei personaggi della sua storia una miriade di sensazioni e stati d'animo ricchi di vibrante realismo, inserendoli poi in un contesto che a sua volta denuncia un'altra importante realtà: il lento e inesorabile declino di tanti piccoli centri della provincia italiana. Se è vero che la società si è evoluta in maniera diversa, è pure vero che perdere il contatto con le proprie radici è perdere parte di se stessi rendendoci di sicuro meno umani e partecipi del mondo intorno a noi. Questo concetto rappresenta l'anima del romanzo e si rivela attraverso una storia semplice ma non priva di risvolti imprevedibili e colpi di scena che ne rendono interessante e mai monotona la lettura.
Franco Baffari (anche se lo merita a pieni volti) non aspira a diventare famoso. Questo però non significa che il suo lavoro, come quello di tanti autori piccoli come lui, non rappresenti un tassello importante nel variegato mondo della narrativa italiana.
Complimenti dottore per la sua opera, ma soprattutto complimenti per la sua grande umiltà e umanità. Di questi tempi ce n'è davvero bisogno!
 

Gianvito Laforgia


La casa in cima al colle
 
 


Questo racconto è un'opera di fantasia. Personaggi, luoghi, oggetti ed eventi sono invenzioni dell'autore e vengono usati allo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con luoghi, fatti e persone reali, vive o defunte, è assolutamente casuale.

 

 

I giovani fuggono

I paesi muoiono nel vento

Le loro storie si perdono in ricordi lontani

 
 

La casa in cima al colle
 
1
 
 
Una notte di metà luglio mi giunse inaspettata la notizia della morte di mio zio. Erano le due a New York, circa le otto di mattina in Italia.
«Signor Claudio Corradi? La chiamo da Colledoro. Dal Molise. Dall'Italia. Sono il direttore dell'istituto Casa Serena dove suo zio Giovanni viveva da circa dieci anni. Purtroppo... il suo parente è... deceduto... qualche ora fa. La prego di accettare le mie più sentite condoglianze. Fra due giorni ci saranno le esequie. Tra le altre formalità da fare da parte sua, come suo unico parente ancora in vita, ci sarebbe anche quella di presiedere all'apertura del testamento che il povero Giovanni ha depositato vent'anni fa presso il notaio del paese, dottor Arturo Colloni, quando era ancora nel pieno possesso delle sue facoltà mentali.»
Rimasi in silenzio. Zio Giovanni era morto. Non avevo saputo più nulla di lui in tutti quegli anni. Lo ricordavo appena. Però era pur sempre mio zio e da buon cristiano un po' di dolore dovevo provarlo per la sua morte improvvisa. Ma lo provavo?
Sussurrai al telefono precipitosamente:
«Farò di tutto per essere in Italia per il funerale. La ringrazio per avermi avvisato, direttore. A presto.»
«A presto, signor Corradi.»
Non dormii più quella notte. Lessi sul taccuino gli appuntamenti che avrei dovuto rimandare. Mi dispiaceva per Luca, il figlio del mio amico Nicola. Con la partenza veniva meno la mia partecipazione alla sua festa per la Prima Comunione. Il regalo lo avrebbe avuto, ma la mia presenza non era più possibile. Quel bambino mi era molto affezionato e il suo dolore sarebbe stato sincero. Ne ero sicuro. Pensando a lui ebbi un attimo di perplessità, di ripensamento. Rimproverai allora la mia impulsività. Ma avevo promesso di essere presente al funerale di mio zio e non potevo più tirarmi indietro. Sarei partito per l'Italia. Ma perché? Per lo zio morto? Per l'eredità?
Perché dovevo far soffrire un bambino che amavo per essere presente al funerale di uno zio che ricordavo appena? Non riuscivo a dare una risposta a questo interrogativo, anche se il mio animo mi ripeteva che avevo fatto bene a decidere in quel modo. Moralmente bene.
 
Lo vidi la prima volta nella tabaccheria della piazza.
Avvertii in quel momento una strana sensazione. La stessa che si prova quando si teme un pericolo imminente. Un senso d'inquietudine mi assalì senza che riuscissi a spiegarmene il motivo. Mi attirò subito il suo volto pulito, mi stregò il suo sguardo sincero, mi vinse il suo sorriso leale. Nel mio paese i forestieri erano rari e chi arrivava da fuori di solito era arrogante, presuntuoso. E questo perché chi veniva dalla città era convinto di essere superiore a quella gente rozza che viveva sui monti ancorata al passato. Lui non mi sembrò così. Non era così. Aveva gli occhi abbassati quando parlava e sussurrava appena le parole. "Un altro emigrante che torna per le ferie dai suoi parenti" pensai. Non aveva l'aria di un turista. Guardai le sue mani lisce e ben curate: "Non è di certo un contadino" sussurrai nella mia mente. Quante callosità mi ero abituata a stringere quando salutavo con una stretta di mano uomini e donne e sì, anche bambini, di quella comunità quasi tutta dedita all'agricoltura.
Nella tabaccheria (senza volerlo?) gli ero sempre vicina. Aveva comprato una cartolina che raffigurava la chiesa del paese. M'incuriosì quando con voce mesta chiese un francobollo per l'America. Era venuto da così lontano, dunque? E perché era triste se stava in vacanza? Appena sentii pronunciare il suo nome dall'uomo dietro il banco, capii tutto. Era certamente un parente di Giovanni Corradi, venuto per il suo funerale. Il vecchio Cesare, da una vita lì dentro, doveva averlo riconosciuto. Mi avvicinai al tavolino sul quale stava scrivendo. Cosa mi aveva spinta ad osservare il nome del destinatario di quella cartolina? La curiosità? L'invidia verso chi aveva qualcuno al quale spedire qualcosa? Io non avevo nessuno lontano. Nessuno che potesse ricevere un mio scritto. Più tardi capii. Già avvertivo un nascente sentimento verso di lui e temevo che fosse una donna, la sua donna, la destinataria dei suoi saluti. Quando lessi Mister Orlandi e famiglia fui contenta, anche se allora non ne conoscevo il motivo. Risposi al suo saluto mentre sussurrava buon giorno uscendo dalla tabaccheria. Contraccambiai il suo sorriso. Non erano rivolte solo a me quelle parole, non solo a me quel sorriso, eppure io sperai che lo fossero. Uscii anch'io e lo seguii per qualche tratto cercando di non farmi notare. Poi subito a lato della chiesa voltai a destra e lo lasciai andare. Ma di certo l'avrei rivisto. Sì, l'avrei rivisto. Ne ero certa.
Con quella strana gioia nell'animo entrai, dopo qualche minuto, nel portone di casa mia in Via De Gasperi al numero cinque.
 
Telefonai il mattino dopo al mio amico John, pregandolo di prenotarmi il primo volo per Roma. La sua agenzia di viaggi era efficiente e non avevo dubbi sul buon esito del suo operato. Poi cercai una cartina dell'Italia. Non la trovai. Ricordavo che da Roma fino a casa mia ci volevano tre ore di viaggio, due in treno e una in corriera. Ma allora le strade non erano ben curate. Forse, anzi di sicuro, ora sarebbe stato sufficiente un minor tempo per percorrere quel tragitto. Mi sbagliai. Impiegai lo stesso tempo di allora per raggiungere dalla capitale la piazzetta del mio paese. Quanti ricordi affiorarono nella mia mente, mentre il paesaggio mi parlava scorrendo davanti ai miei occhi lucidi. Il treno percorse pimpante la pianura, il pulman soffrì nell'arrampicarsi su per i colli. Poi fui a Colledoro. Nel paese dove ero nato e vissuto per quindici anni.
Mi commossi nel rivedere quel luogo.
Nulla era cambiato. Ogni pietra era esattamente al suo posto. Era là dove l'avevo lasciata nella mia memoria. Ed ora, riconoscendomi, ognuna di esse si affrettava impaziente a ricordarmi la propria storia vissuta e sofferta in quel paese immobile, immutabile, eterno.
Sfido chiunque a rimanere impassibile in quella circostanza.
Chiusi gli occhi e lessi nella mia mente.
Dall'immancabile piazza di fronte alla cattedrale con intorno le austere dimore dei più ricchi, partivano e si arrampicavano su per il colle viottoli sempre più ripidi che morivano in alto mesti e sottili fra case povere e mal curate. Qualche breve tratto pianeggiante, ogni tanto, si allargava in un riposante prato. Ma durava poco la tregua. Subito si riprendeva a salire lungo il pendio fino a giungere sulla cima del colle. Là, solitaria e nascosta fra alberi secolari, la casa di mio nonno impavida sfidava da anni le intemperie del tempo.
Aprii gli occhi e feci qualche passo incerto.
Al centro della piazza mi fermai e guardai. Il bar oltre la strada stava chiudendo i battenti. Chi poteva entrare all'una in quel locale per un caffè? Non era un paese di turisti quel piccolo borgo sulle pendici dell'Appennino molisano.
Accanto all'insegna rossa, "Da Peppe - Il Bar dello Sport", la bandiera italiana era immobile. Non un alito di vento. Anche lo striscione bianco con su scritto <Campioni del mondo - Spagna '82>, ancora presente nonostante fosse già passata una settimana da quell'evento sportivo, restava fermo e inchiodato nell'orgoglio della sua fierezza.
La farmacia del dottor Nerini con la sua croce rossa e luminosa era poco lontano. Il notaio Colloni subito dopo, appena svoltato a destra della chiesa. E la tabaccheria di Cesare, il caro Cesare, laggiù proprio all'angolo. Quel locale sembrava che mi stesse chiamando. Quante caramelle avevo comprato lì dentro da piccolo. Anzi, avevo cercato di comprare. Quasi mai avevo i soldi necessari. Cesare brontolava. Ma sempre me ne dava qualcuna fingendo di essere seccato. Ora so che in cuor suo quell'uomo, celibe e solo al mondo, ogni volta era felice di regalarmi con le caramelle un attimo di gioia.
«Questa è l'ultima che ti do. Porta i soldi la prossima volta, capito?»
Io non rispondevo. Scappavo via felice, già pensando alla prossima caramella che avrei avuto da lui il giorno dopo.
Quando mi rivide quella mattina non mi riconobbe. Poi dissi: «Signor Cesare, può darmi qualche caramella? I soldi però glieli porto domani.» Cesare non credeva ai suoi occhi. Venne fuori dal banco e corse ad abbracciarmi. Poi si ricompose imbarazzato, e mi chiese scusa della sua euforia. Gli sorrisi e lo abbracciai a mia volta.
Entrò una donna e ci separammo.
Quella volta gli pagai la cartolina, il francobollo e le caramelle.
La donna che era appena entrata non la conoscevo. Non potevo conoscerla. Quanti anni poteva avere? Trenta. Trentacinque. Troppo pochi. Non era che una bambina quando avevo lasciato quel paese.
Era bella. E piena di fascino. Mi attirò la sua aria distinta. Strana per gli abitanti del paese, che, non per colpa loro, avevano modi provinciali. Mi diede fastidio però, la sua curiosità. Mi accorsi che leggeva il destinatario della mia cartolina, ma non feci nulla per negarle la sua voglia di sapere. "Raramente succede qualcosa in questo luogo e il desiderio di conoscere le novità è di certo irresistibile." Così pensai.
I suoi lunghi capelli biondi, il suo corpo flessuoso, mi ricordarono una ragazza più grande di me. Una ragazza della quale mi ero perdutamente innamorato da bambino. Abitava nella casa di fronte, ai piedi della mia soffitta. Io non perdevo occasione per guardarla di nascosto da dietro le tendine della mia finestra, quando si affacciava al suo balcone. Poi di notte, felice, la portavo nei miei sogni in giro per la valle, stringendole la mano. La donna entrata nel bar non poteva essere lei. Avrebbe dovuto avere quasi cinquant'anni. Chissà se il mio amore giovanile abitava ancora in quel portone. Forse quella ragazza si era sposata con un contadino del paese. Forse aveva dei figli. Forse era lontana, inglobata nella massa informe della gente di città e sconosciuta nel suo stesso palazzo. In quel paese avrebbe avuto ancora un nome per tutti. Lì tutti erano qualcuno per gli altri. Nella città invece, sola con se stessa, nessuno le avrebbe badato se il pianto l'avesse vinta ad un angolo di strada. Perché allora la voglia di fuggire non moriva all'alba con il tramonto della luna? Ricordo che quella ragazza aveva tanti sogni, tanti desideri. Li aveva realizzati? La vedevo portare sempre tra le mani una rivista colorata con immagini di città lontane. Certo sognava di partire, di scoprire il mondo a lei sconosciuto. Io l'amavo di nascosto come può amare un bambino di sei anni. Soffrivo per lei. Mi sarebbe piaciuto rivederla. Ma forse era meglio che restasse nella mia mente come l'avevo vista l'ultima volta prima di partire. A venticinque anni era bellissima. Era quell'immagine che amavo di lei. Quell'immagine dovevo continuare ad amare.
Mi sentii strano accorgendomi di essere seguito.
Quella sconosciuta uscita dalla tabaccheria che voleva da me? Le avevo solo sorriso salutandola. Nient'altro. La sua curiosità era dunque così forte?
Dopo alcuni passi io proseguii diritto oltre la piazza, lei svoltò alla sua destra e scomparve. Non ci pensai più. Presi a noleggio un'auto da un meccanico che mi aveva indicato un vigile. Una stanca macchina vecchia di molti anni. Quindi mi diressi verso nord. Sul bordo destro della strada statale che si allontanava tortuosa dal paese, dopo quattro chilometri percorsi con la vista annebbiata dai vapori che salivano dall'asfalto infuocato, vidi l'insegna di un motel seminascosta dalla verde chioma di un pino secolare. Girai a sinistra e fui subito all'ombra sotto una stretta tettoia che di certo non poteva proteggere dal sole più di due auto. Poco lontano sonnecchiavano alcuni tir nell'attesa di riprendere il loro continuo andirivieni. Presi alloggio in quel motel. Un misero alloggio. Una stanza deprimente. Pareti dipinte male, un letto cigolante e una sedia sotto una bassa finestra. Il bagno era sul ballatoio in comune con le altre tre stanze del primo piano. Giù nell'ingresso un portiere sonnolente e seccato che rispondeva sempre a monosillabi alle domande, solo una volta mi aveva sorriso. Era stato quando gli avevo allungato come mancia una banconota da cinquemila lire. Subito dopo però, era tornato a dormire.
Il funerale era stato fissato per il pomeriggio di quel giorno alle tre. Feci appena in tempo a darmi una rinfrescata. Poi, dopo un boccone mangiato in fretta nel maleodorante ristorante dell'albergo, uscii all'aria pura e mi avviai all'istituto che era stato l'ultima dimora di mio zio.
Il direttore fu molto gentile. Mi baciò due volte sulle guance con aria commossa.
«Condoglianze, signor Corradi. Sono spiacente di conoscerla in una circostanza simile. Un brav'uomo suo zio. Pace all'anima sua.»
Lo ringraziai con un gesto del capo. Era sincero il suo dolore? La cosa mi era indifferente.
«La salma è stata composta nella piccola cappella del cimitero. Venga con me. L'accompagno. A piedi. Il camposanto è poco lontano di qui. Ma... che stupido. Dimentico che lei è di questo paese e ricorderà benissimo tutti i luoghi qui intorno.»
Sorrisi ancora senza parlare.
Tutto secondo etichetta. Tutto scontato. Tutto come la prassi del luogo imponeva. Un lungo corteo dietro il carro funebre, quasi tutti gli uomini del paese, con il mesto rintocco delle campane. Poi la sepoltura sotto un vecchio cipresso. Fra qualche giorno sarei partito e del povero Giovanni non si sarebbe ricordato più nessuno in quel paese. E forse anch'io me ne sarei dimenticato in fretta. Era cambiato tanto zio Giovanni? Se in quella bara al suo posto ci fosse stato uno sconosciuto, per me sarebbe stata la stessa cosa. Vedendo mio zio, vedendo ciò che restava del mio legame col passato, ebbi un attimo di smarrimento, di commozione. I presenti interpretarono quella mia debolezza come un sincero dolore per la perdita del mio parente. Glielo lasciai credere. Tante mani callose strinsero le mie. Tanti baci sulle mie guance. Tanti abbracci di persone che dicevano di ricordarsi di me. Poi fu la volta del notaio. La sua mano tremava. Non me ne spiegavo il motivo. Era tanto addolorato per la morte di mio zio?
Anche la sua voce tremava. «Sentite condoglianze, signor Corradi. Con sincero dolore. Mi scusi se adesso, in questa triste circostanza, mi permetto di ricordarle che l'aspetto domani alle sei nel mio studio. Credo che ricorderà senz'altro che abito al numero cinque della strada che parte sul lato destro della chiesa. Domani sera avrà modo di conoscere le ultime volontà del suo caro estinto. Ma... permetta che le presenti mia nipote Michela. É figlia del mio povero Claudio. Una valida collaboratrice per me. Sarei perso senza di lei.»
Guardai Michela. La riconobbi subito. Era lei. Era proprio la ragazza conosciuta alcune ore prima nella tabaccheria di Cesare.
 

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