LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
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Enrico Fermi
Nato a San Pietro in Cerro ( Piacenza ) il 3.11.1936. Laureato in Lettere classiche all'Università statale di Milano, ha insegnato prima in Svizzera e poi, per circa trent'anni, nei Licei classici di Milano e provincia.
Ha fatto parte di diversi organismi d'ispirazione cristiana ed ha tradotti libri e articoli d'argomento religioso. Per le edizioni " In Dialogo " ha scritto "Sulle tracce di Dio" e "Che cosa pensano di Gesù i non cristiani" . Per la Casa Editrice De Agostini ha curato il lavoro di coordinamento e di revisione redazionale, nonché alcune voci dell' Enciclopedia del Cristianesimo.
Dopo i cinquant'anni, corrispondendo ad una vecchia vocazione letteraria trascurata…, ha scritto prima un romanzo dal titolo Escaton &endash; poi ripubblicato col titolo di Elia, il faro e la cometa -, in seguito un dramma in tre atti dal titolo Nicodemo, sull'omonimo personaggio evangelico, e, da poco, ma non ancora pubblicato, un altro romanzo, Giona: tutte e tre le opere si ispirano alla lontana a personaggi biblici, appunto Elia, Nicodemo e Giona, calati in panni contemporanei.
Elia, il faro e la cometa
Capitolo primo
 
È noto che il diavolo, forse per le sue origini aristocratiche, ha sempre avuto un debole per le anime elette. Qualche lettore forse si ricorderà di Giobbe, di sant'Antonio là nel deserto, dei molti asceti ed eremiti che dovettero vedersela con lui per tutta la vita.
Insomma, paradossale ma vero: i prediletti da Dio lo sono anche dal diavolo, tanto che, a quel che raccontano, persino il Figlio…
 
Ora, una sera d'estate di non molti anni fa, nel suo perenne vagabondare, Satana decise di fermarsi proprio nell'angusta valle di Leschamps, una valle serrata da superbe montagne, in tempi lontani bonificata dal lavoro d'innumerevoli monaci e percorsa in pace e in guerra da pellegrini e soldati.
 
Addossata ad una parete di roccia e quasi nascosta dalla vasta foresta di larici, la mole dell'antica abbazia rifletteva, affievolendoli, i raggi sanguigni del giorno morente. Con la prima oscurità essa veniva acquistando il suo aspetto più arcigno, che metteva un brivido nelle ossa degli ultimi turisti e li faceva sfollare in gran fretta. La sera riportava in quel luogo il silenzio dei secoli e qualche monaco, dello sparuto gruppo superstite, che durante il giorno, in foresteria o altrove, aveva potuto indulgere coi visitatori a una parola di troppo, o lasciarsi un po' andare con le ragazze o le signore di passaggio, ora sentiva più stringente l'invito a raccogliersi e il rimorso dell'infedeltà. Da poco era suonata la campana e ciascuno, dai vari angoli del monastero, confluì nel coro per la recita dei Vespri. Al cenno dell'abate furono accese le lampade e la liturgia si avviò, cantilenata e solenne; uomini ancora ben saldi, pur nell'incipiente canizie, qualche raro novizio, diversi anziani molto in là con gli anni si accordavano al meglio, anche per turare le falle vistose che negli ultimi tempi si erano prodotte nella comunità, con l'abbandono di molti suoi figli.
I fragili bagliori del crepuscolo arrossavano qua e là la buia navata della chiesa, oltre il coro e l'altare, riverberando tinte sulfuree tra le volte, accendendosi violentemente sulle sacre immagini o sul volto assorto d'un vecchio monaco.
Conclusi i Vespri, spente le luci, i monaci tornarono ciascuno alla propria cella, per l'ora di preghiera personale prima della cena.
Il silenzio si era fatto profondo, penetrante, al punto che nessuno, per quanto abituato ed esperto, poteva mai evitare, sulle prime, un ben noto e oscuro disagio. Era di quei momenti in cui l'anima, smarrita, sa che può attendersi l'incontro con Dio e, povera e sola, si lascia trovare, oppure cerca ansiosamente la fuga in terre più accoglienti e familiari.
Rientrato nella sua cella, Elia, un novizio poco più che trentenne, ne ripercorse più volte il breve spazio, in preda ad un'ansia che la pacificante liturgia serale non era bastata a spegnere; tornò infine a sedersi, come al suo solito, al piccolo tavolo rustico, di fronte alla finestra bassa e stretta che dava su un cortiletto erboso, racchiuso da portici. Nascondendo il capo tra le mani, cercò di richiamare e di custodire, nel vuoto doloroso del cuore, il passo della Scrittura proclamato nei Vespri. Era tolto dal Vangelo di Luca; ne ricordava soprattutto la conclusione: "Nella perseveranza guadagnerete le vostre anime".
Elia quella sera si sentiva straordinariamente stanco e quelle parole gli suonavano lontane, irraggiungibili. Riaprì gli occhi e lasciò che lo sguardo scivolasse sul cortile aldilà della cella; rivide come sempre le strette volte degli archi, sostenute dagli esili pilastri in cotto, il pozzo di pietra, slabbrato, al centro, il sottile tappeto d'erba che ricopriva il terreno tra il porticato e il pozzo. Dall'alto spioveva l'incerta luce della sera e l'erba era a tratti sfiorata da strani riflessi cinerei.
"L'occhio non è mai sazio", pensò, "eppure lo so perfettamente, è l'ora di rientrare, di passare per il cieco cunicolo che dal di fuori porta di dentro, l'ora di chiudere tutte le porte in attesa di Lui; come tanti altri prima di me, in questa medesima cella. Chiudere, lasciar fuori anche i ricordi, senza più nulla, non diversamente da loro".
Da poco avevano dissepolto diversi monaci per far spazio nel cimitero del convento; i loro teschi erano stati allineati in un angolo su varie file sovrapposte. "Come loro", ribadì a se stesso Elia, "ora e per tutto il resto del tempo".
Mentre inseguiva questi pensieri, gli sarebbe bastata la decisione di un attimo per troncare ogni esterna dispersione; un attimo solo per staccare gli occhi da quell'erba che trascolorava pigramente all'ultimo baluginare del giorno. Eppur gli pareva che quell'ultima curiosità lo tenesse attaccato alla vita, alla vita del mondo intero, e ad ogni istante la separazione si faceva più dolorosa. Perché poi tanta durezza nei confronti di se stesso? Era forse peccato concedersi una breve dilazione e separarsi dolcemente dalle cose, dopo un lungo addio? Continuando a fissare quell'erba sentiva intanto riaffiorare dentro di sé, vagamente consolatrice ed inquietante ad un tempo, un'antica emozione, provata nella sua prima giovinezza. Aveva sì e no dieci anni, quando, un mattino di primavera, attraversando la nativa campagna, ancora umida di pioggia dopo un temporale, s'era improvvisamente imbattuto in un vortice di vento, e una girandola di luci, che si rincorrevano tra l'erba e il fogliame degli alberi, sembrava addensarsi intorno a lui in uno strano girotondo, tanto che per un attimo aveva temuto d'essere sollevato nell'aria e portato chissà dove. Fortunatamente il sole si riaffacciò con violenza dalle nubi e la campagna tornò a distendersi nel chiarore del mattino. Ma l'impressione d'essere rapinato del suo corpo s'era confitta tenacemente nella sua memoria. Ancora molti anni dopo, nella sua tribolata giovinezza, poteva accadergli che di colpo, mentre camminava tra la gente per le vie della città, per una specie di sortilegio, gli uomini, le case stesse gli paressero dissolversi nell'aria, e lui si sentisse come lievitare, risucchiato a forza fuori da quell'intreccio e colto da vertigine. Era un po' come se in quei momenti gli si squarciasse davanti la corteccia del mondo e dovesse accorgersi, con un misto di stupore e di pena, come tutto alla fine fosse inconsistente.
"Di nuovo?, pensò, inseguendo con gli occhi quel singolare guizzo di luce e di tenebra fra le zolle erbose del cortile. Ricordò ch'era dolce abbandonarsi a quelle impressioni, sentirsi volteggiare leggermente tra gli uomini, essere un po' come il vento e accorgersi che la vita è un rapido soffio. Ma ora non poteva più essere così. Era adulto ed era monaco. La prima virtù del monaco è la stabilità; la ben nota " stabilitas in monasterio "che san Benedetto aveva giustamente prescritto nella sua Regola.
 
 

Nicodemo
ATTO PRIMO
 
Scena prima
 
(In un vicolo di Gerusalemme, a pochi passi dalla casa di Nicodemo. Nicodemo, Giuseppe d'Arimatea).
NICODEMO Inutile, inutile, non ce la farai ad arrivare fino a casa. Per una volta la tua bella mogliettina aspetterà. Non senti che gocce da una libbra cominciano a cadere? E fra poco potrebbe anche essere grandine. Vieni, fa' un salto su da me. Vedrai che non muore, se non ci sei per il pranzo; capirà che è colpa del temporale...
GIUSEPPE Tu lo sai che, se faccio tanto d'entrare, poi...
NICODEMO Allora vuoi prenderti l'acqua? Vuoi arrivarle davanti bagnato come un pulcino?
GIUSEPPE Bene, vengo, ma guarda che appena smette di piovere... Una moglie è una moglie, mio caro; non si può far quel che si vuole. Tu questo ancora non lo capisci...
NICODEMO Non avrò modo di capirlo, come ben sai; comunque penso che tu esageri, come sempre... Muoviti, entra, che fra poco vien giù il diluvio.
GIUSEPPE Un altro?.. Lasciami almeno metter la moglie nell'arca...
(Salgono qualche gradino, fino alla porta di casa di Nicodemo).
GIUSEPPE Aspetta ancora un momento. Guarda!
NICODEMO Piove!
GIUSEPPE Qui sotto il pergolato, tanto, per qualche minuto non ci si bagna. Guarda Gerusalemme, com'è bella di questa stagione! Sembra un sogno, non è vero?
NICODEMO Sì, è vero.
GIUSEPPE Con tutti questi alberi in fiore, e quel mare di verde, sulla collina, là, oltre il Cedron... Lo senti il profumo della primavera?
NICODEMO Sì, lo sento, ma comincio a sentire anche l'acqua.
GIUSEPPE Hai visto? Le nuvole vengono su dal mare. Una manna per la campagna; si coprirà d'erba anche il deserto.
NICODEMO Se non grandina.
GIUSEPPE Hai fatto caso che la torre d'Erode è già tutta nel buio e che sul pinnacolo del tempio, invece, brilla ancora il sole? Che spettacolo! Che delirio di luce e di tenebra! Non credo che pittore al mondo...
NICODEMO E' vero, è vero. D'altronde, se luce e tenebra non si scontrano qui, dove mai?... Però adesso sarà il caso d'entrare. Non senti che quasi siamo sollevati dal vento? (Apre la porta). A me il vento piace, ti dirò, ma quando soffia così trovo meglio la casa. E tu no?
(Entrano e Nicodemo richiude la porta).
 

 
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Ins. 26-05-2003