Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Dario Falcinelli
Con questo racconto ha vinto il secondo premio all'edizione 2007 del Premio La Montagna Valle Spluga.

Se una notte d'inverno in Valle Santo Giacomo un viaggiatore.....
 


Caro amico
se nella tarda primavera del 1788, cercate di ricordare, fu esattamente la sera di venerdì 30 maggio, Vi trovavate per caso a cenare alla Locanda dei doganieri a Montespluga, sarete certamente stato tra i commensali del giovane poeta tedesco Wolfgang von Goethe che, attraverso lo Spluga ed i territori grigioni, rientrava in Germania dopo un viaggio ed una permanenza in Italia durati due anni.
Il 30 maggio era stata una giornata insolitamente calda per l'epoca; ricordate come ancora scintillavano i ghiacciai ? e come lo spettacolo impressionò fortemente il poeta ? Sono quasi certo che Voi eravate tra gli ospiti quella sera, dal momento che so che tra i cavallanti e le osterie della Valle Santo Giacomo avete per anni cercato l'ispirazione per comporre le vostre opere arcadiche e pastorali, andate a ruba, immagino, se, consentitemi di dirlo con bonaria ironia, perfino a Venezia non se ne trova copia. E certo, sorrido, da Voi che da anni vivete con moglie e ben cinque figlie, avrebbe rischiato una buona dose di legnate il poeta se avesse voluto guastare anche quella cena con sciocche affermazioni, che anche recentemente ha ribadito, come quella che: "l'eterno femminile ci conduce verso l'alto". Ma ben altre sono le eresie di cui dovrò parlarvi.
La storia documenta come certa al tavolo della comitiva tedesca la presenza dell'Illustrissimo Signor Commissario grigione di Chiavenna, il Conte Ercole Salis, dell'allora Capo della Valle Santo Giacomo, il Ministrale Antonio Guanella e di un nutrito gruppo di notabili; non escludo vi fosse, anzi lo considero certo, anche vostro cugino, il Cavaliere Bernardo Falcinelli, che doveva essere, anche se mie approfondite ricerche non sono pervenute a chiarirne i motivi, un personaggio di rilievo in Valle; lo deduco da prove indirette: la presenza di Bernardo viene indicata da diversi storici quasi come prova dell'importanza dell'evento riferito. La sua partecipazione come garante ad un rogito stipulato dall'abate Foppoli nel 1871, la sua comparsa alla festa di inaugurazione della cappella di San Filippo a Chiavenna l'anno precedente. A conferma della serietà e dell'importanza della scuola fondata a Sondrio nel 1750 dei monaci di Disentis, uno storico cita tra gli alunni Bernardo, come "testimonial" di rilievo. Non sono sicuro invece della presenza al tavolo dei viaggiatori dell'abate Foppoli, illustre letterato vissuto per tredici anni in quel periodo a Campodolcino; l'abate, geniale, vulcanico, forse anche un poco millantatore, avrebbe certamente riferito della sua conoscenza con il Goethe.
Goethe era sbarcato la sera precedente alla Riva di Novate; il lago di Como e il fiume Adda erano all'epoca navigabili, con piccole imbarcazioni, fino a quel punto. Aveva poi raggiunto Chiavenna per poi risalire la Valle Santo Giacomo, affrontare lo spaventoso passaggio del Cardinello, fino alla piana del Suretta dove ( lo descrivo qui con alcuni miei versi, successivamente attribuiti ad un Professore bolognese che villeggiò tra questi monti ):
perdevasi un piano, brullo tra calve rupi,
quasi un anfiteatro, ove elementi un giorno
lottarono e secoli.
Anch'io, molti anni prima, percorsi, era la prima volta, la Valle. E il viaggio avvenne, come Vi riferirò, in circostanze davvero più drammatiche di quelle del faticoso ma tranquillo passaggio del poeta. Perché ora voglio giungere al punto centrale della mia vicenda.
Se ve lo chiedessero Voi potreste, a ragione, riferire che sono nato a Venezia 64 anni fa, che mai conobbi mio padre, personaggio forse ignoto anche alla mia stessa Santa mamma, e che a Venezia, prima di essere accolto all'Accademia della pittura, dove ebbe inizio la mia carriera artistica, oggi non priva di fama, a Venezia, dicevo, svolsi nella giovinezza i lavori più umili, dallo sguattero, al barcaiolo, fino al mestiere dello svuotacessi. Della mia prima infanzia, ed è doloroso, ho pochissimi ricordi ed anche mia madre quando domandavo si mostrava stranamente reticente. A 25 anni venni ospitato per alcuni mesi presso la Casa dei pazzi alle Fondamenta nuove di Venezia a seguito, secondo mia madre, di una violenta ed improvvisa febbre cerebrale ma, a mio parere, in quella Casa, più custodito che curato, venni internato per opera di qualche delatore o qualche spia, personaggi che all'epoca nella Serenissima Repubblica pullulavano in ogni calle e dietro ogni colonna di piazza San Marco. Dopo di allora secondo molti non sarei più stato la stessa persona. Mi si incontrava a girovagare svagato, sempre intento a rimuginare strane leggende.
Come quella antica che narra del viandante che, percorrendo un sentiero lungo il muro di cinta di una nobile villa, vide pendervi una catena d'argento; incuriosito volle aggrapparvisi e in tal modo azionò una diabolica macchina: la catena, attraverso oscuri cunicoli, passaggi, e lunghi sotterranei, agì su una botola che, dopo molti anni ed a molta distanza da quel luogo, si aprì ai piedi del viandante inghiottendolo e precipitandolo direttamente verso l'inferno.
Ma qualcosa di simile accadde anche a me. La catena fu il lucido battente di una porta che azionai per errore una mattina in una calle di Venezia; mi aprì una giovane donna, si chiamava Lucrezia, che da quel giorno conobbi ed iniziai a frequentare. Lucrezia era la figlia di un mercante tedesco, più precisamente grigione, originario di Coira, che trascorreva lunghi periodi a Venezia per affari. Nacque un grandissimo amore fatto di incontri clandestini e di lunghi silenzi da parte di Lucrezia. La fanciulla e la sua famiglia avevano da qualche anno aderito, e con convinzione, all'eresia luterana che vuole venga rifiutata l'autorità del Papa e della nostra Romana Chiesa e che consegna al fedele ed a fanatici predicanti una fede fatta di arbitrarie interpretazioni della Bibbia; "devolution" definiscono beffardamente i riformati inglesi questo diritto di prelevare ciò che si vuole dalla Bibbia, passato dalla Santa Sede di Roma ad ogni piccolo monarca. Anche Lucrezia dalla Bibbia non si separava mai. Un giorno Lucrezia mi comunicò che presto insieme al padre sarebbe rientrata a Coira e disse che, con il consenso dei genitori, avrebbe finalmente acconsentito a sposarmi. Ma questa notizia, che avrebbe dovuto rendermi il più felice degli uomini, mi gettò invece in una profonda angoscia, dal momento che la condizione irrinunciabile che mi veniva posta era quella che, prima del matrimonio, abbandonassi la Fede dei Padri e aderissi alla religione riformata. Avrei dovuto cessare di essere un "papista", e Voi sapete con quale spregio venisse dagli eretici pronunziata questa parola, cessare di obbedire "all'uomo che, vestito di bianco", regna nella Roma corrotta e ladrona; insomma per avere Lucrezia avrei dovuto aderire all'eresia.
Voi, caro amico, siete il più adatto a comprendere la drammaticità della mia situazione, Voi che vivete in quella Valle che sta al confine non solo tra le nazioni, ma tra la Chiesa di Roma e la riforma, tra la Verità e l'eresia.
Nei giorni successivi la ragazza ed il padre lasciarono Venezia per ritornare nella loro casa di Coira. Coira era all'epoca quasi interamente una città "riformata", da anni la celebrazione della messa vi veniva proibita e il Vescovo di Santa Romana Chiesa viveva come un recluso e privo di autorità dentro il proprio palazzo. Iniziò per me un periodo di tormenti, incerto su quale decisione prendere. Giunsi ad odiare Lucrezia, pur continuando a desiderarla, e mi sentivo in quei momenti come quei prigionieri delle epoche antiche condannati ad essere legati ancora vivi ad un morto. Finché dopo qualche mese, per sottrarmi al supplizio, decisi che avrei accondisceso alle condizioni dell'amata: avrei perso l'anima per sposare Lucrezia. Qualche tempo dopo ebbi occasione di sapere che dei nobili veneziani, guidati dall'ambasciatore del Doge presso la Svizzera, si sarebbero recati a Ginevra, passando per Coira, in missione presso i Reti e chiesi di potermi unire a loro nel viaggio.
Partiti il 14 novembre da Venezia, avremmo dovuto attraversare le Alpi superando il valico dell'Albula, ma giunti ai piedi di quel passaggio, le imponenti nevicate di quei giorni ci costrinsero a ridiscendere la Bregaglia e a soggiornare alcuni giorni a Chiavenna. Quando il tempo divenne più mite decidemmo di proseguire per Coira valicando lo Spluga, percorrendo la Valle Santo Giacomo. Eravamo partiti da Venezia in quattro: l'ambasciatore, il suo segretario, un nobile veneziano addetto agli affari militari ed io stesso. A Chiavenna un abitante di quella valle, la Valle Santo Giacomo, esperto dei luoghi, si offrì di guidarci nel viaggio. Il tratto che da Chiavenna conduce a Campodolcino non presenta grandi difficoltà per i viaggiatori ma, a causa delle forti nevicate, ci accingemmo a percorrerlo a piedi, perché troppo ostacolo avrebbero incontrato i cavalli nella neve già alta.
Ma ascolta il punto principale della mia storia. Devi sapere che Lucrezia, tra gli altri ambigui influssi che aveva potuto esercitare su di me, mi aveva mesi prima regalato il libro dei racconti di uno scrittore tedesco, un certo Hoffmann; in uno di questi racconti Hoffmann narra di un monaco, dall'animo tormentato e dal carattere incline all'ira ed alla sensualità, che incontra un giorno il proprio Doppio, cioè il proprio Sosia ( tutti al mondo ne avrebbero uno ) e come questo incontro lo conduca verso la completa rovina. Perché devi sapere che, secondo antiche tradizioni dei popoli nordici, ciascuno di noi ha, in qualche parte del mondo, un Doppio, un Altro Se stesso, perché quest'espressione bisogna usare anche se reca offesa alla logica, insomma un Sosia; e, fatto più inquietante, e che molti ancor'oggi prendono sul serio, che l'incontro con il proprio Doppio rappresenta il funesto e sicuro presagio della propria morte. Oggi comprendo con quanta e giusta lungimiranza il Santo Uffizio avesse posto le opere di codesto Hoffmann nell'Indice dei libri proibiti, ma allora l'idea aveva esercitato una forte suggestione su di me.
Perché questo doveva accadermi. Dopo breve tempo trascorso in compagnia del uomo che si era offerto di farci da guida, notai con sgomento impressionanti caratteri di somiglianza tra me e il nostro nuovo compagno. L'uomo era certo più anziano di me, intorno ai cinquant'anni, con una corta barba, che io allora non portavo, e con un volto affilato che poteva, quando lo fissavo, darmi l'illusione di osservare me stesso invecchiato dentro uno specchio. Anche l'ambasciatore notò ridendo la straordinaria somiglianza e mi chiese grossolanamente se mia madre avesse per caso frequentato in passato quelle valli.
Facendoci largo tra imponenti masse di neve, dopo un intera giornata di cammino, giungemmo a Campodolcino dove, ospiti dell'abate Foppoli, amico dall'ambasciatore, soggiornammo anche il giorno successivo in attesa che le condizioni del tempo migliorassero. In quella giornata, vincendo l'inquietudine che la straordinaria somiglianza con il personaggio mi suscitava, rimasi a lungo seduto nella taverna a parlare con la nostra guida. Abitante di quelle valli, aveva molto viaggiato e conosceva bene Venezia e, fatto strano, conosceva particolari della città che, se non a me solo, a pochi credevo potessero essere noti.
Quella notte fui colto da violenti accessi di febbre e la mattina successiva, quando l'ambasciatore decise di riprendere il viaggio, la nostra guida rifiutò di condurre anche me che ero troppo debilitato. Il piccolo gruppo partì da Campodolcino: i tre veneziani e Giovanni, che così si chiamava il mio Sosia (a questo punto posso ben definirlo così), s'incamminarono verso il difficile passaggio del monte Cardinello che conduce al successivo gioco dello Spluga. Il primo tratto tra Campodolcino ed il villaggio di Isola è solo in lieve ascesa e non presenta difficoltà. Verso mezzogiorno uno spaventoso boato attraversò tutta la Valle; un rumore ben noto ai valligiani: quello di una immensa massa di neve che doveva essersi staccata dai pendii della montagna. Il giorno successivo il primo dei corpi dei miei compagni, quello dell'addetto militare, venne riportato in paese; tutti erano stati travolti dall'imponente slavina. Dopo due giorni tutti e quattro i viaggiatori riposavano nella cripta della Chiesa di Campodolcino.
Ma, mentre a me ed ad altri erano ben noti i tre veneziani, nessuno disse di poter riconoscere colui che aveva detto di chiamarsi Giovanni e di essere un abitante ed un'esperta guida dei luoghi. Tuttavia un uomo con questo nome, dopo una breve ricerca condotta dall'Abate, risultò inscritto nei registri della parrocchia; un nome ed un cognome per la verità molto diffusi nella zona. Il Giovanni registrato negli archivi parrocchiali risultava morto da oltre vent'anni e la data della sua nascita era indicata , mio caro amico lo avrete già sospettato, nel mio stesso giorno, mese ed anno.
Non raggiunsi mai Coira. Rientrai a Venezia, non rividi mai più Lucrezia e ritornai alle pratiche della mia fede. Ma da allora in quella Valle, giudicatemi pure pazzo, sono convinto di essere nato, e sotto quella terra coperta di neve ho già dato disposizione di essere sepolto.
Tra le bizzarre teorie verso le quali Lucrezia aveva cercato di farmi suo compagno, mi colpì quella di un luterano tedesco, davvero il peggiore, certo Jacob Bˆhme, considerato eretico dagli eretici stessi, che aveva scritto che Dio creò il mondo "per meglio conoscersi"; un gesto, la creazione, del tutto arbitrario, che avrebbe potuto anche non essere, e che Dio creò il mondo e l'uomo "perché si sentiva troppo solo". Orribile eresia. Ma poi penso a mio padre che mi generò per errore, ma poi fini con l'amarmi. Poiché oggi ritengo più probabile che il mio Sosia fosse in realtà il mio sconosciuto padre e la comune data di nascita solo un errore, di pochi e trascurabili anni nell'infinito numero dei secoli, e frequente nei disordinati registri di quelle povere parrocchie di montagna.

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 Ins. 28-11-2007