LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
Dario Italo Di Nunno
Nasce a Torino il 19 gennaio 1976 e risiede in un paese in provincia di Asti. Studente alla facoltà di filosofia dell'Università di Torino ha cominciato a interessarsi all'arte per fortunate coincidenze, imparando attraverso l'esperienza pratica. A diciotto anni entra a far parte di un gruppo musicale locale (O.F.G.) in qualità di ballerino e autore di testi musicali ottenendo alcune gratificazioni (esibizioni varie, selezione San Remo Giovani 1996, semifinalista Castrocaro 1997, articoli su giornali locali e su La Stampa red. di Asti, interviste su radio locali). A queste attività si aggiunge quella di modello per alcune agenzie di Torino (Servizi fotografici, selezione Il più bello d'Italia 1996). A ventitre anni riscopre la sua passione per la letteratura e comincia a scrivere. Pubblica La venere di Saluzzo (Prospettiva Editrice 2001) e alcuni racconti e poesie su Internet (Ed. Golden Press 2002). Riceve segnalazioni su alcune riviste: Inchiostro Sett. 1999, L'Informatore 2001 e 2002, e in alcuni concorsi: Montemerlo 2001, città di Cava 2000.
 
 
Io sono
 
Sono ciò che mi dicono
di essere, senza appelli.
 
Sono parole di ghiaccio
che si sciolgono al sole.
 
Credevo nell'idea e nell'opinione
di chi è giudice del bene
e del male della gente.
 
Parole e pensieri
che sfuggono alla mente.
 
Rifiuto quei modelli che
sono imposti come
guerrieri che conquistano
una nazione stanca.
 
Ma resistere a quest'invasione
è da veri eroi.
 
 
La mia libertà
 
Sento solo parole
senza significato
che giudicano, non insegnano
 
ed impongono a tutti
verità da mercato:
vestiti usati e troppo stretti.
 
Sono nuovi guerrieri
e con spade affilate
ci conquistano e distruggono.
 
Ogni mia convinzione,
figlia di un'illusione,
inesorabile, cede e crolla.
 
Tante maschere e facce,
volti ben modellati;
ipocrisia priva di anima.
 
Non accetto il destino,
questo mio destino,
che da vigliacco colpisce ancora.
 
Forse non c'è speranza
di mutare le cose,
ma resistere è da eroi.
 
 
L'orso
Era buio, ed io steso sul mio letto pensavo a quella strana sensazione di freddo che penetrava nelle mie ossa. Forse avevo la febbre.
Provai a misurarne la temperatura, magari nei giorni scorsi avevo esagerato con il cibo, ma nulla neanche una linea che avrebbe potuto giustificare il mio stato. La sentivo dentro di me che agiva sui muscoli e sui tendini, paralizzandoli, quasi fossero veramente congelati.
Pensai alla reazione del dottore, ieri, che di fronte al mio problema rimase esterefatto (in fondo potevo comprenderlo, la mia infermità evidentemente gli suonava come uno scherzo). A fatica mi alzai, mi diressi verso la finestra del mio monolocale di città ed aprii le imposte.
Il sole caldo mi inondò il volto con le sue dolci carezze, purtroppo questo non bastò. Decisi allora che era giunto il momento, ormai, di uscire e rompere la solitudine e la monotonia della mia vita. Convinto di questo mi diressi verso la porta di casa, quando venni bloccato dall'acuto squillo del telefono. Rimasi allibito: qualcuno si ricordava ancora di me? Era da tempo che non accadeva, da quando se ben ricordo avevo abbandonato gli amici per motivi di salute. Odiavo la loro compassione e la loro pietà così piena di ipocrisia.
Lo feci squillare per un po', temendo forse (era già successo) nell'errore di qualcuno che per la troppa fretta avesse composto male il numero, ed accortosi di ciò, il tizio in questione mi liquidasse con una di quelle odiose frasi che interrompono bruscamente ogni forma di comunicazione; del genere - Scusi, ma ho sbagliato -.
Alla fine mi decisi, non potevo farlo suonare senza rispondere, e se fosse stata una chiamata importante?
Alzai la cornetta e con la voce rotta per l'emozione dissi - Pronto, chi parla? -. Era il meccanico che chiamava per l'ennesima ed ultima volta affinché io andassi, anche nel tardo pomeriggio, a ritirare la mia auto. Mi dimenticai di quel pezzo da museo, dovevo farle regolare qualcosina e poi non ci pensai più. Avevo altro per la testa. Quanto tempo era trascorso? Forse due o tre mesi circa. Pazienza, ciò che contava, adesso, è che mi sentivo un po' meglio.
Non so il perché, non so come, ma quelle parole abbastanza gentili, anche se decise, riuscirono a scaldarmi l'anima e ad attenuare la morsa del male.
Rinfrancato uscii, dirigendomi in strada. Centinaia di persone andavano e venivano sul marciapiede, attraversavano la strada, urlavano, parlavano, fumavano. Avevano tutti una grande fretta di arrivare da qualche parte quasi fossero in perenne ritardo, ed io non capivo questa loro misteriosa destinazione; probabilmente essi neanche la conoscevano.
Avevano tutti le stesse facce, lo stesso sguardo spento, la stessa frenetica andatura composta.
Rimasi là, fermo, indeciso se unirmi a loro o proseguire per la mia strada. Ero davanti il portone di casa, eppure non mi sentivo protetto. Li fissai ancora per qualche attimo, incuriosito.
Non un sorriso, un cenno cordiale o semplicemente un saluto. Nulla di tutto questo. Sembravano dei robot, degli automi di un filmaccio di fantascienza del quale io ne ero l'inconsapevole protagonista.
Mi sentii veramente male, mi mancarono le forze. Non riuscivo a respirare, né a rimanere in piedi; in quelle condizioni l'unica soluzione che mi balenò in testa, fu quella di sedermi sul marciapiede.
Cominciai a sudare freddo, tremavo e provai una sensazione di disagio in quel luogo che ricordavo familiare e che, invece, era così diverso nella realtà.
Le persone divennero irriconoscibili, non so se fosse per causa della malattia o di altro. Non riuscivo più a distinguere uomini, donne e bambini. Divennero delle ombre, tutte uguali, tutte grigie come i loro cuori.
- Non è il giorno giusto! - pensai - Sarà meglio per me che ritorni a casa -. In quel momento volevo soltanto sdraiarmi sul letto e riposare. Faticai parecchio ma infine raggiunsi la porta, presi la chiave dalla tasca ed aprii.
Mi infilai nuovamente sotto le lenzuola, aspettando che "l'inverno" finisse e che al mio risveglio, le cose fossero ritornate come le ricordavo tempo addietro. Andrò in letargo fino a primavera - pensai e mi addormentai, fiducioso.
 

Racconto tratto da "La Venere di Saluzzo" di Dario Italo Di Nunno (Prospettiva Editrice 2001)

 
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