Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Bruno Costanzo
Ha pubblicato il libro

Racconto felino e altri racconti Collana I salici (narrativa) 12x17 - pp. 40 - L. 10000 - Euro 5,

16 ISBN 88-8356-150-3

 

 

 

 

 

 
Questo libro è composto da sei brevi racconti ognuno con una sua tematica di fondo: il tentativo di combattere la solitudine con un gatto stralunato che sarà chiamato Fido, tipico nome per un cane. Incontri imprevisti con diverse tipologie di donne e i ricordi adolescenziali tra discoteche e spericolate corse in auto con tutte le inevitabili conseguenze.
Le storie essenziali ed intriganti scorrono veloci e si fanno leggere tutte d'un fiato in una sera.
 

Massimo Barile

 
 
 
Racconto felino
 
Si chiamava Fido, così l'aveva chiamato il suo padrone perché più che ad un gatto somigliava ad un cane. Sperava soltanto che il buon Dio, che non si dimentica mai degli animali, ma che forse a volte, li preferisce agli uomini, gli avesse dato le sue belle sette vite, che spettano di diritto ad ogni gatto.
Ci sperava tanto, anche se, pensava che qualcuna se l'era già giocata ed anche male.
"Vero Fido che sei un po' scemo?", gli diceva sempre il suo padrone. Ma lo diceva con bontà, accarezzandogli il pelo, lui per tutta risposta gli tirava fuori le unghie affilate e pungenti a ricordargli che non era un cane ma un gatto vero, ma non infieriva, perché anche a lui faceva un po' di pietà.
Il suo padrone era infatti un tipo solitario, si era da tempo separato e lo aveva comprato affinché gli facesse un po' di compagnia. Si ricordava ancora di quando era andato a comprarlo: lo aveva visto, era stralunato, gli occhi tristi, la testa bassa, stava passando davanti alla vetrina del negozio quando lui lanciò un miagolio; lo vide, era un piccolo gattino secco e spelacchiato, gli fece un po' di pena ma entrò ugualmente nel negozio e chiese: "Quanto costa?". "Niente, glielo regaliamo", rispose cortesemente la commessa.
Lui per tutta risposta vide la porta del negozio accostata e svicolò fuori rischiando di essere travolto da un'auto di passaggio. Già una vita se la giocò allora, per fortuna la commessa che lo conosceva riuscì a farlo tornare mostrandogli una fettina di salmone.
"Sa, riprese la commessa, è un gatto selvaggio ma non si accontenta di pesce comune, gli piace solo il salmone".
"Accidenti, rispose lui, mi manca solo un gatto dai gusti difficili e sono a posto".
"Perché - riprese lei - non le sta simpatico?"
"Sì, sì per essere simpatico è simpatico, ma quanto mi verrà a costare?"
"Ma, poco, lo sa perché..."
"Perché?" disse lui.
"Perché mangia pure le ossa".
"No, non è possibile" pensò lui.
"Ora mi chiamerà Fido", pensò il gattino nel frattempo, che con il suo istinto felino e con la sua bontà canina aveva già capito tutto.
"Fido, lo chiamerò Fido", pronunciava a bassa voce lui, mentre il gatto chiuso nella gabbietta miagolava in continuazione.
"Sì - continuava a pensare - è un nome che gli si addice". Intanto era già arrivato a casa, aprì la porta e gli disse: "Questa adesso è la tua casa".
Fido smise di miagolare, si guardò intorno e vide che la casa era spaziosa, il che andava bene per un gatto un po' selvaggio come lui. Alle finestre vi erano anche delle tende che erano l'ideale per grattarsi le unghie ed anche numerosi divani e sedie dove dormire tranquillamente.
"Niente male nel complesso" pensò Fido, sul retro della casa vi era anche un giardino dove avrebbe potuto fare i suoi bisogni, perché d'altra parte, non era mica fatto di stoffa.
E c'era anche una sorpresa: una bella scala che portava su nel tetto dove avrebbe potuto passeggiare nelle notti d'estate.
Non avrebbe potuto chiedere di meglio, c'era una sola cosa che non andava: non conosceva ancora bene il suo padrone.
Questa era la cosa più importante, perché da lui dipendeva la sua esistenza, pensava saggiamente Fido.
Il padrone sembrò quasi intuire il suo pensiero, aprì il frigorifero e gli diede una fettina di salmone che era rimasta. Fido li per lì storse la bocca ma tutto sommato gli era andata bene perché sempre salmone era. Ormai s'era stabilito un buon rapporto, tra lui e Fido, tanto che questo cominciò ad annusare un po' dappertutto.
"E questo sarebbe un gatto selvaggio", pensò ad alta voce lui.
Fido si strofinò allora alla gamba del suo padrone con la coda alzata e facendo le fusa; ormai si volevano bene ed erano diventati amici.
Saltò subito sul divano e si accovacciò leccandosi il pelo, lui lo guardava pensando a volte che fosse la reincarnazione di un uomo vissuto nel passato chissà come e chissà quando e pensò a se stesso se morendo sarebbe diventato un gatto o magari donna o forse meglio un'anima del paradiso o del purgatorio.
Se l'era fatte spesso queste domande quando si era separato da sua moglie e dai suoi figli, prima era impegnato con la sua famiglia, ora aveva tanto di quel tempo libero che centinaia di pensieri gli attraversavano la mente.
Fido si continuava a leccare il pelo e lui lo osservava invidiando la sua condizione di animale forse, per certi versi, migliore di quella di un uomo.
Fido lo guardò, poi girò la testa vide la porta aperta e scappò: forse per davvero era troppo selvaggio.
 
Alba magica
 
Era mattina. Il chiarore dell'alba illuminava la città ancora semideserta. Le luci dei lampioni si riflettevano sulle pozzanghere d'acqua lasciate dalla pioggia notturna. Gli ultimi sprazzi di nebbia si scioglievano ai primi raggi di sole. Tutto sembrava irreale, perfino lo scampanellio delle biciclette sembrava provenire da lontano. Eppure la città si stava svegliando, stancamente come ogni mattina. Il panettiere alzava la serranda del negozio, dopo aver passato parte della notte al lavoro nel retrobottega, ed i primi avventori potevano sentire l'odore del pane fresco uscire ed inondare l'aria.
Il tabaccaio con la sua solita sigaretta in bocca avvolto in una spirale di fumo si disponeva dietro il suo bancone in attesa dei primi accaniti fumatori. Le massaie con sottobraccio le loro sporte, si avviavano verso i banchi appena approntati del mercato. Insomma era una giornata qualunque, di un mese qualunque, di un anno qualunque.
Anche per Ernesto iniziava una giornata di dura fatica.
La sveglia con il suo bip bip, suonava in continuazione, ma Ernesto non ne voleva sapere di alzarsi dal letto. D'improvviso, entrò in camera sua madre:
"Alzati che fai tardi" gli disse con tono deciso.
"Guarda mamma - rispose - oggi non ho voglia di andare a scuola".
"Ma come, sei stato a casa tre giorni con la scusa di essere malato perché mi avevi detto che avevi una interrogazione da preparare".
"Sì, è vero, ma oggi devo partire".
La madre trasalì: "E dove devi andare?" chiese concitata.
"Devo andare a Londra".
"Come a Londra, questa è bella! E che ci vai a fare a Londra?" continuò.
"Sai - rispose - quegli amici di cui ti avevo parlato tempo fa, che avevo conosciuto in viaggio l'anno scorso?"
"Sì, ricordo, quelli che avevi conosciuto a Milano".
"Sì, loro, mi hanno invitato in una loro casa che hanno preso in affitto in Inghilterra".
"Vai, vestiti, non dire scempiaggini".
Ernesto desistette, sua madre non poteva capire quello che gli passava per la testa. Lui aveva deciso, voleva andare a fare fortuna a Londra, gli avevano detto che lì la vita era più facile, che le ragazze erano disponibili, che la vita era più bella.
Sua madre l'avrebbe sicuramente cercato tramite Chi l'ha visto? Già si vedeva, la sua foto sullo schermo del computer, con la barba lunga e le occhiaie. Ma cacciò questi pensieri dalla mente e si avviò verso la stazione dove l'attendeva il suo solito treno.
Ma stavolta non sarebbe sceso alla prima fermata assieme ai suoi compagni di scuola, avrebbe tirato dritto fino al capolinea dove avrebbe preso il treno per Londra.
Era fatta, i suoi compagni erano scesi alla fermata che conduceva alla scuola, ormai non poteva più tornare indietro.
Affacciandosi dal finestrino vedeva la campagna ancora avvolta nella nebbia mattutina, filari di alberi scorrevano davanti ai suoi occhi, sembravano anch'essi irreali come i momenti che stava vivendo in questo istante. Ripensava alla sua vita passata, a come i suoi genitori lo avevano accudito sin da bambino, ai compagni di giochi della sua infanzia, alla sua ragazza che forse, adesso, si chiedeva come mai non fosse venuto a scuola proprio oggi, il giorno della sua interrogazione; ma era contento lo stesso, si sentiva finalmente libero, libero su quel treno che correva nella campagna ormai già rischiarata dal sole dell'alba.
Mentre questi pensieri gli affollavano la mente, entrò nello scompartimento un anziano signore, il sigaro in bocca che emanava miasmi tremendi, pulì il sedile e si accomodò a sedere.
Ernesto lo guardava mentre apriva il giornale e ne sfogliava le pagine con fare metodico e preciso.
Si fece coraggio e gli chiese:
"Dove finisce questo treno?".
Il signore lo guardò e gentilmente rispose:
"A Milano".
Milano, pensò, sto andando a Milano, la città, anzi la metropoli italiana. Ad un certo punto, però, un dubbio lo assalì: Ma che ci faccio a Milano?, pensò tra sé, non conosco nessuno, non so dove andare. Non si preoccupò del fatto più di tanto.
L'importante era andare da qualche parte: Milano, Monaco, Parigi, Londra. Sì, l'importante era andare e lasciarsi alle spalle le fatiche di tutti i giorni, almeno per un po'. Considerava quella fuga, perché di fuga si trattava, non poteva mentire a se stesso, come un diversivo della sua vita. Sarebbe tornato a casa? Mah, non lo sapeva, ed anzi adesso non si voleva porre nemmeno il problema. Riprese il dialogo con il compagno di scompartimento.
"Scusi - chiese - ma lei a Milano ci abita?"
"Sì" rispose conciso.
"E mi dica - insistette - come ci si vive?"
"Bene, - rispose - ci sono tante cose da fare, - continuò - andare a teatro, al cinema, per mostre o a ballare..."
"A ballare?" chiese Ernesto stupito.
"Sì, perché, non le do l'impressione di uno che sa ballare?"
"Mah... veramente..."
"Caro giovanotto, io ballo e ballo molto bene".
Quella risposta gli diede fastidio ed interruppe la conversazione. Una persona di quella età che ballava, con quel sigaro che lo faceva apparire ottuagenario e, se non lo era, ci mancava veramente poco.
Mah! Il mondo è veramente strano, pensò Ernesto e riprese a guardare fuori dal finestrino. Ormai la luce del giorno aveva inondato la campagna circostante, il sole col suo calore aveva dissolto la nebbia: erano le dieci.
Sentì il treno che rallentava, vedeva le case di periferia di una cittadina, supponeva. Poi ad un certo punto il treno si fermò.
"Panini, panini, bibite" non c'era dubbio, era proprio fermo in una stazione. Si alzò di scatto dal sedile sul quale un torpore soporifero lo stava cogliendo, abbassò il finestrino e chiese: "Quanto costano un panino e una Coca?"
"Cinquemila" rispose l'omino.
Non aveva molti soldi, ma un panino e una Coca se li poteva permettere. E poi, come avrebbe fatto? Mah, ci avrebbe pensato Dio. Addentò subito il panino con fare famelico, era il panino più buono che mai avesse mangiato in vita sua, forse il pane era un po' duro, ma quel panino aveva un sapore di libertà, di voglia di vivere, di spensieratezza. Era immerso in questi pensieri, quando un vociare concitato, urla e schiamazzi attirarono la sua attenzione. Si affacciò nuovamente dal finestrino e vide un gruppo di ragazzi con stivaletti di cuoio, giubbotti di pelle e bottiglia di birra alla mano, che si spintonavano nella fretta di salire sul treno.
"Mah, saranno naziskyn o che altro" pensò Ernesto.
Il gruppetto infilò il corridoio e si sistemò proprio nello scompartimento dove si trovava il nostro malcapitato.
Lo sferragliare del treno, intanto, era come se lo cullasse nei suoi pensieri, ricordava ancora sua madre ed il suo sorriso dolce che lo aveva accompagnato fin da bambino.
Il gruppetto dei giovani naziskyn era lì silenzioso, accanto a lui, e non credeva che dei giovani così ribelli potessero essere così tranquilli.
S'affacciò dal finestrino del treno e intravide la struttura della stazione centrale da lontano, quelle grandi volte di acciaio erano così imponenti che solo una grande metropoli poteva averle.
Il treno, sibilando rumorosamente, si fermò. Ernesto scese, un portabagagli gli si avvicinò, gli fece vedere il piccolo zaino con le povere cose che si era portato. In effetti guardando bene vide che oltre ai libri aveva solo qualche maglietta di quelle con le scritte come piacevano a lui.
Era iniziata la sua grande avventura. In quella città così grande sperava di farsi una nuova vita, di conoscere persone nuove, poi avrebbe telefonato ai suoi. Comprò un anche settimanale di annunci economici.
Incominciò a sfogliarlo, vide che c'erano un'infinità di occasioni di lavoro, da operaio a centralinista, da fattorino a dirigente, cercò quindi quella che faceva al suo caso, ne trovò una che diceva: "cercasi persona anche senza esperienza lavorativa, per attività intellettuale e di concetto, astenersi perditempo". Pensò subito che quella era la sua grande occasione, non si riteneva infatti così in basso da fare il fattorino e nemmeno in grado di fare l'operaio in una catena di montaggio o in un'officina. Scorse quindi di nuovo l'inserzione, vi era solo il numero di telefono. Andò quindi alla cabina telefonica e chiamò.
"Pronto, chi parla?" una voce femminile non più giovane rispose dall'altro capo del telefono.
"Chiamo per quell'annuncio sul giornale - ribatté Ernesto - volevo sapere di cosa si tratta".
"Guardi, - rispose la donna - non posso dirle altro per telefono. Se il lavoro le interessa, venga a trovarmi visto che è stato il primo a chiamare, l'indirizzo è via delle Buganvillee, 15 e suoni al campanello in basso, quello senza nome".
Tutto si faceva misterioso ed interessante, via della Buganvillee doveva essere un posto di gente molto ricca ed eccentrica, pensò sperando di trovare il lavoro giusto.
La stazione degli autobus era poco distante, la raggiunse in fretta, incontrò subito un autista e chiese: "Scusi, via delle Buganvillee?"
"Ci arriva l'autobus numero trenta - rispose - deve scendere al capolinea, anche se poi deve fare un pezzo a piedi".
"Non si preoccupi, sono abituato a camminare" ribatté.
Salì sulla linea trenta, l'autobus era quasi vuoto, anche perché cominciava a imbrunire: il primo a chiamare, pensò, in tutta la giornata. Solo lui poteva rispondere ad un annuncio così sibillino e misterioso.
L'autobus partì, dopo circa un quarto d'ora arrivò al capolinea, l'autista spense il motori ed aprì tutte le porte.
Ernesto chiese di nuovo: "Scusi, via delle Buganvillee?"
"È lì, vede, dove c'è quel castello diroccato..." rispose l'autista.
In lontananza, infatti, si vedeva uno strano castello fatiscente, si fermò, c'erano delle indicazioni: "Fortezza dei Marchesi di Acquapendente" e sotto: via delle Buganvillee.
Le sue supposizioni si erano rivelate concrete, quell'avventura incominciava ad affascinarlo, gli sembrava quasi di sognare ed invece era tutto vero.
La strada era poco illuminata anche se si vedeva abbastanza bene. Ogni tanto passava qualche automobile sempre di grossa cilindrata, camminava lungo il bordo della strada e le auto gli sfrecciavano accanto, sfiorandolo, poi ad un certo punto arrivò ad un bivio, era buio, ma si leggeva chiaramente: via delle Buganvillee, indicava una mentre Fortezza dei Marchesi indicava l'altra. Sono arrivato finalmente, pensò, e si avviò verso il numero 15. Era un condominio, molto grande, e tra i tanti campanelli illuminati vide subito quello senza nome che cercava.
Suonò, il portone si aprì, si affacciò una signora non più giovane ma ancora avvenente e con una sua particolare bellezza. Era molto alta e fu quello il particolare che lo colpì subito, le gambe un po' più lunghe del corpo erano la cosa che si notava per prima.
Chiese: "È quel giovane che mi ha telefonato poco fa?"
"Sì" rispose.
"Prego, si accomodi".
Entrò.
"Cercavo proprio una persona di fiducia - riprese la donna - e lei penso proprio faccia al caso mio. Sa, si tratta di un lavoro non molto impegnativo ma che richiede molta intelligenza, e lei mi pare proprio un tipo intelligente".
Aveva un aspetto da nobile decaduta, ed anche la casa era arredata con mobili antichi ormai consunti dal tempo.
"Si accomodi - riprese - e mi dica, quanti anni ha?"
"Venti" rispose Ernesto.
"Mah, forse è un po' troppo giovane per questo lavoro".
"Di cosa si tratta?"
La signora non rispose ma si alzò di scatto e si allontanò verso la cucina. Dopo qualche minuto ritornò con due bicchieri in mano: "Beva - disse - dobbiamo festeggiare perché lei è stato assunto".
Ernesto prese il bicchiere, il suo sguardo si fissò sui riflessi luminosi che il bicchiere gli rimandava, pensò alla sua ragazza ed un grande sentimento di nostalgia lo avvolse: non era quello ciò che avrebbe voluto, non era quello ciò che aveva sempre pensato. Eppure ora, le sue idee diventavano concrete. Avrebbe voluto tornare indietro, a casa, dai suoi familiari, ma, soprattutto dalla sua ragazza che, forse, adesso lo cercava disperatamente.
Nonostante tutti questi pensieri che gli affollavano la mente, bevve ugualmente, riposò il bicchiere sul tavolo e chiese garbatamente alla signora: "Scusate, ma io non vi conosco, né voi potete conoscere me in così poco tempo".
Lo sguardo gli cadde nuovamente sul bicchiere appena posato, fu di nuovo ammaliato dai riflessi che questi gli rimandava.
"Sono di cristalli - disse subito lei, - vedo che li osservate con intensità".
"Sì signora, ero un forte bevitore una volta - disse Ernesto, per apparire all'altezza della situazione. - Sono irlandese di origine, lo sa? Anche se è molto tempo che abito qui in Italia. E lei?" chiese Ernesto.
"Io sono svizzera - rispose - e precisamente di Ginevra".
"Ora capisco perché tutti questi orologi alle pareti e, beh, diciamolo, tutti questi soldi!".
"Non esageri, sono benestante ma non ricca. Molto tempo fa ero veramente ricca, prima che morisse mio marito e rimanessi vedova".
"E, scusi se sono impertinente, di cosa è morto suo marito?"
"D'infarto - rispose subito lei. - Era un industriale della cioccolata".
"In Svizzera era d'obbligo".
"Non faccia lo spiritoso - ribatté subito lei - Ci amavamo molto ed abbiamo avuto due figli: un maschio e una femmina".
"Classico" riprese Ernesto.
"Il primo si è laureato in ingegneria ed è sposato, vive e lavora in India, mentre l'altra figlia è più fannullona e spero che presto trovi qualcuno che la sposi". Nel mentre concludeva quel discorso, i suoi occhi caddero su Ernesto.
Forse oltre al lavoro aveva trovato anche moglie, pensava lui, visto che quell'occhiata poteva significare ciò.
"Bene, per oggi è tutto - riprese lei - ci vediamo domattina alle otto in punto". Gli strinse la mano e chiuse la porta.
Ernesto decise che era ancora presto per andare a dormire, e poi dove sarebbe andato a dormire coi pochi soldi che aveva in tasca? Decise quindi di prendere la metropolitana, fortuna che aveva portato con sé la sua chitarra che aveva sempre usato nelle feste coi suoi amici di scuola, adesso ormai così lontani.
Scese alla prima fermata, prese la sua chitarra e cominciò a suonare, le arcate della galleria amplificavano il suono e parecchi passanti lasciavano pochi spiccioli di elemosina.
 
"Hei, tu, cosa fai qua? Lo sai che non si può suonare con la chitarra?"
"Ma, signora guardia, stavo solo strimpellando quattro note!"
"Seguimi in questura ti daremo il foglio di via per vagabondaggio".
E così, volente o nolente, Ernesto ritornò a casa.
 
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agg. 15 marzo 2001