LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti
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Armando Librino

 
Il superstite di Cefalonia
 
La nuova baracca era suddivisa in camerette; ciò era un netto vantaggio rispetto alla baracca lasciata; ma, si sa, ai nuovi venuti erano riservati i posti peggiori, ch'erano nel piano più basso del tavolato dei castelli, a meno di dieci centimetri dall'assito, lontani dalle finestre e vicini alla porta sbatacchiante.
I nuovi ospiti - erano il sottotenente degli Alpini Pietro Sartano, il tenente dei Carristi Mario Cefario e il Capitano d'Aviazione Francesco Cocchi, un chiassoso toscano, preside di liceo da civile) - buttato giù il bagaglio sui posti giaciglio disponibili, si presentarono ai residenti. Pietro vi trovò tre compaesani: i tenenti Salvatore Arena di Mazzarino, Giuseppe Di Giacomo e Vincenzo Ciancio di Vittoria (Ragusa), nonché uno più meridionale di loro: il sottotenente Armando Esposito di Misurata (Libia).
Il capitano Cocchi familiarizzò subito con due toscani, e trovò pane per i suoi denti in un giovanissimo pisano, cadetto di Cavalleria, dall'aspetto molle e stanco d'efebo, dotato però d'una dialettica inarrendevole. L'ancor virile Cocchi e l'adolescente pisano passavano lunghe ore in interminabili discussioni dove la veemenza del primo veniva a smorzarsi, come l'onda sull'arenile, nel placido, sinuoso ed estenuante arzigogolare del giovane.
I due divennero gli intellettuali della camerata, discutendo e ragionando su ogni cosa, salendo dall'osservazione degli avvenimenti anche futili, alle più elaborate speculazioni, senza mai arrivare però ad una conclusione o a un punto d'incontro. (Nasceva dai due dialettici la nuova democrazia che doveva portare l'Italia a impantanarsi in un mare di chiacchiere di dottrinari, senza nocchiere).
Ma Pietro non era in grado di presagire tanto; dapprincipio ascoltò con interesse le discussioni dei due; poi quel modo di sviscerare, rivoltare, obiettare, cominciò a irritarlo, vedendolo privo di senso pratico ed anche di buon senso; e si tenne lontano da quel passatempo, preferendo la lettura.
Prima che dai due disputanti, l'attenzione di Pietro, nella nuova baracca, era stata attratta da uno dei tre paesani, il tenente di Fanteria Salvatore Arena, il quale, incredibilmente, non sembrava essere stato toccato dalla prigionia: si presentava in ottima salute, svelto e vigoroso. La taglia minuta, la corporatura snella, il viso asciutto, abbronzato dal colorito sano coi baffetti scuri, la vivacità dello sguardo, richiamarono subito alla mente di Pietro il personaggio di compare Turiddu della "Cavalleria Rusticana", prototipo del siciliano.
Nelle due e tre riunioni regionali ch'erano state tenute nel lager, quel paesano Pietro non l'aveva visto; da dove spuntava fuori?
- Sei stato trasferito qui da poco? - gli chiese.
- Un mese fa ero in montagna, in Grecia; quindici giorni fa aspettavo d'essere fucilato, dietro la grata d'una prigione - rispose con un sorriso scanzonato come se dicesse d'una scampagnata.
Pietro lo fissò sorpreso, invitandolo con lo sguardo a raccontare la sua vicenda, e quello proseguì: - ...Ogni giorno ne mettevano al muro un gruppetto nel cortile; quando venne il mio turno, quel giorno il Comandante tedesco ci graziò perché era il suo compleanno. Una settimana fa ci spedì qua.
Pietro ascoltava tra l'incredulo e l'incuriosito; ed anche Mario e qualche altro erano attenti al racconto. - Come mai t'hanno preso dopo tanto tempo?
- L'otto settembre ero a Cefalonia nel 17° reggimento della Divisione Acqui; l'ordine fu di resistere ai Tedeschi e ci fu lo scontro; fummo sopraffatti dopo dieci giorni; con parte del mio plotone riuscii a sfuggire ai Tedeschi e ci sparpagliammo in montagna; altri ancora della Divisione si diedero alla macchi. I Tedeschi rastrellavano in continuo e ne catturavano parecchi; li rinchiudevano in prigione e poi li fucilavano come ribelli. Avevo buoni amici fra i Greci; posavo un po' da uno e un po' dall'altro per non comprometterli e far perdere le mie tracce...
- Via! sappiamo di questi amici di guerra con la gonnella... - lo interruppe un ascoltatore.
- Certo! - sorrise Turiddu - la prima salvezza sono le donne; bisogna farsele amiche ovunque... ma senza legami; mai fermarsi più di due o tre giorni... i Tedeschi ti avrebbero preso. Fra gli ultimi mi hanno catturato, dopo dieci mesi di macchia, perché mi spostavo di continuo e avevo molte conoscenze.
- Tenevi un harem sparso fra le montagne - scherzò lo stesso ascoltatore, invidiandogli le donne e mettendo in non cale la condanna a morte che gli pendeva sul capo, ma che lasciava tutti gli ascoltatori scettici.
- Ma perché i Tedeschi vi dovevano fucilare? voi, alla macchia, facevate forse attentati, sabotaggi? - chiese Mario.
- I Tedeschi ci consideravano, noi Ufficiali, ribelli, perché li avevamo combattuti; l'ordine di Hitler era di ammazzarci tutti anche se deponevamo le armi per la resa. Ecco perché mi diedi alla macchia.
E lì, se capitava di accoppare qualche Tedesco di pattuglia che stava per scoprirci, lo facevamo per salvare la pelle; la nostra sorte comunque non cambiava, eravamo destinati sempre al muro.
Questo spavaldo paesano non stava forse colorendo un po' troppo il suo racconto? si chiedeva Pietro; non era eccessivamente vivace e in salute per provenire dalla cella della morte? Anche loro, internati già da quasi un anno, vivevano sotto la spada di Damocle di finire al muro; ma una cosa è il timore d'essere ammazzati ed un'altra cosa è sapere che si è stati condannati a morte e in quale giorno avverrà l'esecuzione. La stessa differenza all'incirca che passa fra il pensare alla morte quale chiusura ineluttabile della terrena esistenza, e sapere di avere addosso una brutta malattia che non perdona e che entro sei mesi porterà alla tomba, Come si può restare indifferenti o sorridenti nel secondo caso?
- Ma tu, le hai viste coi tuoi occhi le esecuzioni nel cortile? e come l'hai presa la cosa? - incalzò Pietro una domanda dietro l'altra, avendo visto che il paesano alla prima domanda aveva prontamente assentito con lo sguardo.
- Li ho visti, li ho visti fucilare - ripeté questi - le nostre finestre davano nel cortile dove i Tedeschi ci fucilavano. E vedevo anche i miei compagni alla grate delle altre celle. C'era chi imprecava, chi gridava, chi chiamava la mamma e tutti i santi. Ma a che serviva lasciarsi prendere dalla disperazione? Le cose non cambiavano; quando viene la nostra ora è scritto; in un modo o nell'altro dobbiamo morire, prima o poi. Cosa c'è da rimpiangere: questa sporca vita di guerra, o le cose che non hai potuto fare? Della guerra io ne avevo abbastanza; e la mia parte di gioventù me l'ero pure goduta. Insomma, sono sempre stato fatalista -. Concluse modestamente il tenente Arena senza darsi arie di essere stato impavido di fronte alla morte.

 

 

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ins.7 agosto 2001