Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Annamaria Enzo

Il seguente racconto è parte di un percorso letterario iniziato pochi anni fa, sensibilizzata da alcuni corsi di scrittura particolarmente creativi. Come spesso accade ai principianti, racconta esperienze dirette, vissute in prima persona dall'autrice; che oltre al piacere di scrivere desidererebbe ora, anche essere letta. Piccole grandi ambizioni di una donna, collocata a riposo (questa la definizione burocratica) come lavoratrice dipendente, che attualmente oltre a fare la mamma a tempo pieno cerca, anche se con difficoltà, di ritagliarsi tempi e spazi sufficienti per far volare la fantasia e l'emozione sulle ali della penna a sfera. Vive in un piccolo paese della periferia veneziana e ha due figli: Eleonora di dodici anni e Alessandro di otto anni, a cui spera di saper trasmettere la passione per la lettura e la scrittura. Ha partecipato ad altri concorsi letterari in varie regioni, ottenendo segnalazioni e posizioni di rispetto nelle graduatorie, che se da un lato rappresentano un riconoscimento per la fatica fatta, dall'altro la spronano a continuare a scrivere con maggiore entusiasmo.

Per leggere l'opera 8° classificata al concorso Il Club dei Poeti 2002

Paesaggio a nord-est

Quell'inverno la nebbia calò in anticipo sulla laguna. La pelle ancora colorata di sole, salata di mare, fu colta all'improvviso dall'umidità.
Scese fitta, avvolgente, invadente; coprì tutto, anche l'anima.
Un'immensa coltre di minuscole goccioline punse la pelle del viso provocando un moto spontaneo di fastidio. Una mano lesta, si arrampicò verso gli occhi, asciugando le ciglia umide di niente. Quel niente che ovatta i rumori e appiattisce i colori. Lo stesso che trasforma il frastuono, le grida, i rumori in fantasmi della realtà.
Foschia densa. È una smisurata tela trasparente attraverso la quale si intravedono le città, le campagne, le fabbriche, tutto il territorio.
Ogni cosa viene celata, cosicché si può talvolta, grazie alla nebbia, osservare solo ciò che aggrada, delegandole l'onere di ammantare di velo tutto il resto.
Era calata presto quell'anno, l'estate non se ne era ancora andata. Ancora forte nelle orecchie il fragore delle onde che si infrangevano sugli scogli. Ancora gustoso sulle labbra il sapore del pesce appena pescato, cucinato sulle braci e condiviso con amici e parenti.
Negli occhi ancora il fastidio del riverbero del sole sfavillante che, durante l'estate in terra pugliese, scalda e vivifica uomini e cose.
Elvira conosce ora la nebbia per la prima volta. Adesso capisce perché si parla della nebbia con timore, con angoscia.
È bastato spingere lo sguardo al di là del vetro, nella cucina sull'isola dei colori (Burano), per provare un senso immediato di buio. Gli occhi di colpo non penetrano più l'immagine, lo sguardo slitta lateralmente sulle case, scivola come fosse olio. Si infrange, respinto, come accade all'onda quando si arresta sullo scoglio.
L'isola più grande della laguna Veneta, accoglie una giovane donna, arrivata dal Sud con la famiglia, in cerca di fortuna. Nella valigia speranze e paure; progetti e presentimenti.
Sarà il tempo inesorabile, talvolta spietato, a scompigliare piani, a confondere progetti, a sconvolgere l'ordine di avvenimenti che, ultimi, si ritroveranno primi.
Lavoro se ne trova: ci si adatta, assecondando il destino.
La casa è quella di famiglia, dove le sorelle del marito continuano a vivere.
Ma la vita sull'isola è un universo ristretto. Poco lo spazio a disposizione. Troppi occhi a vigilare.
Meglio cercare orizzonti più ampi.
Così le valigie ancora pregne dell'odore del treno, vengono riempite nuovamente di abiti e destinate questa volta verso la terraferma.
Regno incontrastato di campi, coltivati o no, e di interminabili vitigni, ordinatamente allineati, che lo sguardo fatica a distinguere, confondendoli con altri toni di verde, in un susseguirsi di linee simmetriche che si interrompono solo quando penetrano nell'acqua verdastra e opaca del fossato, al limite dell'area coltivata.
L'appartamento è situato al piano terra, è modesto, umido, rallegrato da un cortile per giocare e da un fazzoletto di terra
per scoprire, oltre alla fatica, il piacere di coltivare.
Un mondo dove predomina il colore verde.
Alle spalle, non ancora dimenticati, i toni grigio-azzurri dell'acqua di laguna, le tinte così allegre e sfacciate delle case, che trasformano l'isola appena abbandonata, in una tavolozza da pittore.
Ora il suo mondo è trasportato da un barcone che lentamente attraversa la laguna costeggiando una fila lunghissima di "bricole", ovvero indicatori di direzione non ancora soppiantati da led luminosi.
Il viaggio è lungo: difficile tenere a bada l'entusiasmo dei bambini, così eccitati dall'insolita gita tra le onde.
Molti gabbiani si avvicinano alla barca per esplorare il carico verificando in particolare la commestibilità. Ma delusi, invertono subito la rotta per dedicare l'attenzione ad altre barche, più ben fornite.
Molte le imbarcazioni, fin dal primo mattino, in navigazione verso Venezia o altre isole minori della laguna.
Se non si avvertisse, prepotente, il rullio della barca, sembrerebbe di essere in autostrada, tanta è la quantità di natanti e uomini, in dondolio sulle onde.
Un ultimo saluto, muto, al campanile storto della chiesa di Burano, ai colori indimenticabili dell'isola, ai suoi abitanti dal linguaggio concitato, dal dialetto, incomprensibile a cantilena, e dall'insito bisogno di difendersi, offrendo fiducia e consenso, solo in cambio di provata buona fede.
Alle spalle dei naviganti, ma spostata verso sinistra, la meravigliosa Basilica di Torcello, con i resti del Battistero. A due passi, la minuscola chiesa di S. Fosca.
Più avanti, verso il centro dell'isola, troneggia una sedia di marmo che la leggenda popolare indica come la "sedia di Attila".
L'emozione zittisce le voci. Silenziosamente procede la lenta ma inarrestabile traversata del barcone, detto anche "topo", direzione: campagna Veneziana. La campagna citata più volte nei testi di storia, oltre che per l'importanza delle coltivazioni nell'economia della regione, oltre che per la notevole bellezza, anche per essere stata per molti decenni, luogo di villeggiatura e di cura dei nobili patrizi della città, e non solo.
Le sontuose ville, distribuite in particolare lungo alcune direttrici stradali, sono ancora oggi una testimonianza di quanto fossero apprezzati questi luoghi.
Per Elvira, mettere piede in terraferma, ha sicuramente un significato diverso che per i nobili dei secoli andati, rimane tuttavia per lei il luogo simbolo di una nuova possibilità, concreta, per iniziare a vivere serenamente, in libertà.
Il proprietario della casa, presa in affitto nel piccolo paese dell'entroterra, è un anziano signore senza figli. Ha fatto della sua dimora e del terreno circostante, l'occupazione principale della giornata.
È burbero, diffidente, presuntuoso. I primi contatti col suo modo di fare, non proprio incoraggianti.
Ma, si sa, ad avere necessità, spesso si è costretti ad intravedere virtù, magari in lontananza, in ciascun individuo.
Alla fine la costanza e la tolleranza diedero buoni frutti.
In breve l'orto assunse un aspetto ordinato, via le erbacce, via tutto ciò che impediva la crescita finalizzata.
Quante ore passate a zappare la terra, nel tentativo di strappare dalle sue viscere un risultato fecondo.
Le fragole, quelle piccole colore del fuoco, dal sapore introvabile oggi, crescevano senza l'aiuto dell'uomo, spontanee.
Le piantine, a ridosso della rete metallica che delimitava la proprietà, si sviluppavano velocemente.
Quasi al centro dello spazio coltivato ad orto, si ergeva un albero dal tronco liscio, non troppo largo, con ampie foglie rotonde, dal margine lobato, di un verde discreto.
Era saldamente ancorato al terreno, s'innalzava in quel posto da molti anni: unica figura protesa verso l'alto, a sovrastare incontrastato, l'altra vegetazione. Produceva una deliziosa qualità di fichi, che spesso, se non raccolti in tempo, cadevano al suolo aprendosi a raggera.
L'interno del frutto allora, si appiattiva sul terreno creando curiose macchie variegate di rosso che si stagliavano sulle zolle come fiori appena emersi dalla terra.
Il cancello dell'orto, costruito artigianalmente dal proprietario della casa, era di legno grezzo, un'asticella a fianco all'altra, fermato alle due estremità da un ulteriore pezzo di legno, inchiodato in senso opposto.
Era lì, forse, solo per essere osservato. Ad altro non sarebbe servito. Era basso più del necessario, sottile più del necessario, con un lucchetto che noi bambini aprivamo in un lampo.
Nella polvere di queste zolle che, se coltivate, si chiamano "gombine", comincia per Elvira il lungo periodo dell'iniziazione. Ad una realtà geografica diversa, ad una cultura profondamente diversa, a dei luoghi che sono diversi, perché altro non potrebbero essere.
Con fatica, o con gioia, con animo lieve, o con pesante oppressione, penetra nell'animo del freddo Nord, fino a scoprire che il freddo non punge, pizzica tutt'al più, come il peperoncino della sua terra. Ma conserva l'essenza profonda delle cose, proprio come la neve protegge i semi, non ancora pronti a ricevere la primavera.
Il paese è vivace, scarsamente popolato, le case lontane le une dalle altre, ma le donne escono volentieri dalle cucine, incontrandosi per scambiare qualche chiacchiera, sovente alcune confidenze; se stimolate, anche un buon pettegolezzo. Nei pomeriggi di primavera è diffusa l'usanza di attraversare, passeggiando, i campi incolti e raccogliere, in compagnia, erbe spontanee da cucinare in vari modi, la sera stessa, per cena.
Con i "carletti" e i "bruscandoli" ad esempio, si ottengono gustosi risotti; anche con la parte superiore delle piante di ortica, ma è necessario proteggersi dal contatto con le foglie che provocano irritazioni e bruciori. Che nel linguaggio contadino si chiamano "punture".
Molto conosciuto è anche il "radiccio de can", nome scientifico Tarassaco, che nel periodo della fioritura, tinteggia i campi di un giallo intenso.
Può capitare, attraversando un prato, di essere rincorsi, spesso avvolti, da un pulviscolo lanuginoso, prodotto dalla pianta di Tarassaco. Viene disperso nell'aria da un curioso funghetto bianco, che funghetto non è, dal gambo allungato e dalla cappella impalpabile che, al soffio d'alito di bimbo, libera nell'aria migliaia di semi.
Un gioco d'altri tempi, una magia che non ricorre ai trucchi, un'occasione fantastica che, a stare attenti, si può vivere anche oggi, nei pochi prati rimasti liberi.
Quando la primavera prende il sopravvento, e la campagna germoglia, Elvira parte da casa con coltellino e sacchetto per raccogliere erbe selvatiche, spesso combattuta tra l'impressione di sprecare un tempo necessario alle faccende domestiche, e l'illusione che in fondo, questo spreco di tempo contribuisce a mantenere sotto controllo la spesa familiare.
Percorrendo i tanti "trosi", stradine sterrate che aprono un varco tra distese verdi, poco lontano dalla sua abitazione, è facile incontrare personaggi di paese conosciuti e insoliti. Il loro mondo è lo spazio aperto, quasi che la sorte li abbia già "costretti" in altro senso, e il verde senza confini appaghi il bisogno di libertà della loro mente.
C'è Gino, alto dinoccolato, dall'andatura frettolosa. Un uomo cresciuto, forse, troppo in fretta, senza dar tempo allo scheletro di consolidarsi. Un uomo buono d'animo, bontà spesso interpretata come stupidità, proiettato dentro se stesso.
Al di fuori, sul corpo, a parlare per lui, una enorme ciste che copre, indiscreta, l'intera guancia. Facendolo assomigliare ad un prototipo ingigantito di criceto campagnolo.
Di Gino però nessuno ha timore. Di lui, al massimo, si sorride, aspettando che bruscamente inforchi la bicicletta e scompaia velocemente dalla vista dei compaesani.
I bambini, pur non esperti in tolleranza, lo accettano come si fa per un giocattolo, uscito imperfetto dalla fabbrica, ma capace ugualmente di far divertire.
Carlo invece, non ispira sorrisi, non richiama sguardi comprensivi.
Non è cattiva volontà: è che nessuno riesce a spiegarsi perché un giovanottone come lui, passi tutta la giornata, fino a che il buio diventa fitto, a percorrere in lungo e in largo, con i piedi doloranti, quasi sempre piagati, lo spazio ristretto del vicolo. Percorre decine di chilometri, tutti i giorni, in un moto incessante che lo costringe ad andare: anche quando i piedi si gonfiano, anche quando il corpo bramerebbe un po' di pace ma non viene ascoltato.
La pace è sempre più avanti, Carlo la rincorre e questi passi, queste migliaia di passi, rimbombano nel quartiere addormentato, o lo svegliano allo spuntar del giorno: inesorabili, faticosi, efficaci come interminabili dosi di magica medicina.
Condivide lo spazio di una minuscola casetta, a pianterreno, con la vecchia madre e un gatto, si sussurra, più balordo di lui.
Alla ripresa dei lavori, dopo le ferie estive, gli operai hanno rifatto la pavimentazione cittadina, piazzando le mattonelle del marciapiede, fin davanti l'uscio della loro casa.
Da quel miserabile giorno, hanno la sensazione di vivere in piazza, davanti agli occhi di tutti; ad ogni momento sguardi indiscreti perlustrano la cucina, anche all'ora di pranzo qualcuno passa e saluta, altri curiosi sbirciano senza farsi scorgere.
È l'ennesima burla del destino: Carlo il solitario, che rifugge i suoi simili, è costretto suo malgrado, a vivere in compagnia anche tra le mura domestiche.
Elvira ha tre figli, lo spazio a loro disposizione era immenso. Misurato sicuramente secondo criteri ben diversi da quelli lillipuziani in vigore ai nostri giorni.
Vaste distese si offrivano allo sguardo e a gambe leste che, della corsa libera, erano l'immagine fedele.
La corsa veniva interrotta solo dalla strada statale. Conservo ancora nitido il senso di timore reverente nei confronti di quella che all'epoca era "la strada" unica e assoluta; ora soltanto una delle tante tangenziali.
Era uno spettro per i genitori, nei bambini generava un misto di curiosità e di paura.
L'attraversamento di questo ostacolo permetteva però di raggiungere una vecchia casa colonica, con stalla, porcilaia, letamaio e quant'altro rappresentasse un insolito modo, tra verde e animali, per trascorrere pomeriggi che finivano troppo presto, lasciandoci mai sazi di emozioni e di sapori. Appagati tuttavia da una vita libera dal cemento, dallo smog, dalle giornate dense di impegni o, come spesso accade oggi, gonfie di niente. Spesso, per raggiungere la casa colonica, impiegavamo un tempo variabile, che si allungava a dismisura, interrotto da mille soste. La più preoccupante si verificava quando venivamo scoperti dal contadino, a saccheggiare, a suo dire, i fragili pampini dei vitigni, per succhiarne il delizioso liquido dolciastro.
Molti evitavano un duro castigo solo grazie allo spirito di protezione che il gruppo esercitava sui bambini più piccoli, proteggendoli, coprendo le loro fughe maldestre o le cadute rovinose sulla strada della ritirata.
Era una sicurezza senza pari sentirsi parte di un gruppo che aspetta i più deboli, nasconde i più piccoli. Creava un legame che si rafforza ad ogni occasione e che nel pericolo alimentava la sua forza.
Non conoscevamo i video-giochi, il computer non aveva ancora varcato le Alpi. Le bambole, rare e troppo dure per essere coccolate con piacere. Meglio allora strofinare il viso sul pelo morbido del gatto che, per qualche minuto nella giornata, accettava di buon grado la promiscuità.
Al cane invece, in quel contesto, era riservata la funzione di guardiano e, incattivito com'era per la sua sorte, non conveniva chiedere confidenze.
Ma ciò che era non è più. Profondamente trasformati il paese, la città, le persone.
Ora Elvira è un'anziana signora, nonna dai capelli candidi. Serena nell'anima, incerta nel portamento. Conserva ancora la curiosità e l'audacia che le permisero di trasformare radicalmente la sua vita nel mezzo del cammino.
Guarda dietro sé: il bilancio è positivo. Ha lasciato la terra natale per emigrare, è stata accolta da una realtà ricca per lei di stimoli, di avvenimenti e di gratificazioni che ora, in età avanzata, suonano come dolce melodia che si affievolisce nel ricordo.
Musica per le orecchie e ora, musica per le gambe stanche, per il cuore affaticato, per il fegato che fa le bizze.
Si siede, respira a lungo profondamente, e la memoria rimuove dall'immobilità del ricordo, episodi lontani, ancora vividi nella mente.
Ricorda momenti trascorsi nel cortile della palazzina, mentre con altre donne lavora a maglia, rammenda o cuce. Con il sospetto che il lavoro manuale non avesse mai fine proprio per non togliere il piacere dell'incontro.
Sedute su sedie dalla base di paglia, ormai ingiallita dal sole e lacerata in qualche punto, sedute in cerchio, ci si confida, si gioisce o ci si rammarica, con l'assoluta convinzione di essere ascoltate e capite.
Alle spalle, sulla muretta di cemento che sostiene il cancello d'ingresso, una siepe di caprifoglio. Il profumo sale alle narici inebriante.
Il colore giallo, in alcuni punti acceso, in altri pallido, conferisce a questa siepe l'aspetto festoso della campagna al comparire dell'estate.
Una sorta di cerimonia in questa stagione, coinvolge anche i bambini non proprio piccoli; al limite tra rito magico ed espressione di appartenenza alla terra. Consiste nel succhiare il nettare del fiore di caprifoglio, contenuto nel tubetto posto all'interno della corolla.
Il sapore è delizioso, fin troppo dolce, infatti i concorrenti più spietati sono calabroni, vespe e bombi.
Ecco, sembra di vederla ancora intenta a sgridare i bambini che si ostinano, nonostante il divieto, a succhiare l'interno del fiore.
È sempre lei, con voce severa, a ricordare ai figli il rispetto degli orari: quello dei pasti è fondamentale, nessuno può tardare. Solo di tanto in tanto, qualche avvenimento, sfuggendo al controllo, si insinua tra le pareti della cucina e la distrae.
E noi bambini ringraziamo il cielo.
La storia di Elvira si intreccia a questo punto, con altre storie: di donne vissute come lei nella campagna Veneta, che come lei, hanno saputo unire forza e determinazione, a dolcezza e comprensione.
Che hanno "vissuto" un modo di essere donna in un periodo storico di transizione, di passaggio tra la figura di donna idealmente sottomessa e la figura di donna protagonista della vita familiare e sociale, in prima persona, senza più deleghe, negli anni successivi all'ultimo conflitto mondiale.
Con nuova forza, nuova lucidità, nuove capacità.
Per inserirsi a pieno titolo nella società rurale in trasformazione verso un modello industriale, proiettato nel futuro, già presente per noi.
Ma la Elvira di quegli anni, che ricordo con più tenerezza, di cui conservo un'ombra di timore, è quella che vedo ancora lì, sul gradino della cucina, mentre mi sgrida per qualche marachella.
La stessa che pretende di farmi crescere in fretta, quando io, volentieri, ne farei a meno.
Elvira, mia madre.
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 Ins. 28-10-2002