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Donatella Lanza

2° classificata alla sezione narrativa del concorso Marguerite Yourcenar 1996

Ha vinto il concorso Città di Melegnano 1997

3° classificata alla sezione narrativa del concorso Città di Orzinuovi 1998

 

Racconto 2° classificato del concorso Yourcenar 1996

Il signore dell'acqua e del cielo

 

Lo trovai subito, superato l'ultimo cespuglio di agrifoglio, poco prima del piazzale. Era là, proteso verso la sera che avanzava, con un'ombra di sorriso negli occhi attenti. Il vento gelido e appena un po' pazzo di fine febbraio perquisiva le tasche e la fodera del suo cappotto di lana scuro e giocava a buttare giù dalla sua testa rosea e disarmante il mitico cappello di feltro grigio. «Ohi nonno! Sono in ritardo? Aspetti da molto vero?». Aspettava da molto ma non lo disse, fece un gesto rapido con la mano, si sedette sulla panchina di ferro riverniciata male e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Era vecchio il nonno, vecchio quasi quanto può invecchiare un uomo, ma aveva la vista di un falchetto e lo scatto elastico di una lepre libera. Portava un cuore sciolto e senza angoli come chi si appresta a incominciare a vivere. Era elegante, l'eleganza degli aironi che sfiorano con le ali l'acqua delle risaie a maggio e aveva la dignitosa compostezza dei vecchi che passano piano e ancora piano, con la naturalezza di una nuvola.

«Ho saputo dalla nonna che venivi in città, ti ho fatto attendere perché voglio portarti a casa io».

Gli parlavo un po' accostata alla guancia. Trent'anni prima un piccolo seme di riso gli era entrato nell'orecchio e a poco a poco gli aveva ridotto la capacità di udire. Compensava a questo disagio con una potentissima intuizione.

«Non voglio farti perdere tempo. Io posso benissimo aspettare. L'autobus parte tra 20 minuti. Vai, vai… Vai che si fa sera presto e i tuoi ti aspettano». La sua voce era tenera e gli occhi sotto le sopracciglia bianche erano gli stessi che da bambina fissavo con lo sguardo dilatato mentre mi leggeva una fiaba dei fratelli Grimm o mi raccontava la vita al tempo dell'occupazione tedesca. Il vento adesso scrollava i cespugli del parco con maggior forza, i colombi combattevano per una piccola cialda nascosta nell'erba scompigliata e dura, più lontano i bambini raccoglievano i loro skates boards e i loro palloni e si avviavano verso casa tirando su coi nasi e leccando i moccoli. «Vieni nonno, ho la macchina qui vicino, incomincia a far troppo freddo, andiamo». Lo avevo preso sottobraccio, ci avviammo lungo i vialetti inghiaiati, tra le fontanelle senz'acqua, nel vento che si arrotolava e si distendeva zufolando.

Il nostro passo era simile, oscillante ma veloce, stessi cappotti color antracite, stessa altezza, stesso segno zodiacale, stessa contenuta emotività. «Nonno tra due giorni è il tuo compleanno, ci vediamo per festeggiare?» Ha scosso il capo sorridendo con un po' più di umido negli occhi. «Sono troppo vecchio, i miei compagni d'annata se ne sono già andati tutti, dovrei andarmene anch'io, non è giusto invecchiare tanto». L'ho tirato per la manica in segno di rimprovero e per discastrarlo da certi pensieri gli ho indicato in alto contro le montagne, la discesa magica e regolare di un paracadutista.

Camminando al suo fianco così, in quell'inizio di una sera qualsiasi di fine febbraio, mi sono sentita piano piano rimpicciolire, il viale mi è parso più lungo, più largo, più minaccioso, più strano e, come in quelle vecchie favole per bambini d'altri tempi, per incanto, mi sono ritrovata vicino ad un nonno Cesare con trent'anni di meno. Portava ai piedi i suoi zoccoli pieni di paglia, in testa il cappello macchiato di sudore e spingeva una carriola sulla quale ad un tratto sedevo io, con in mano dei fiori di camomilla, che insistevo per fermarmi ad acchiappare i grilli nei prati. Volevo dirgli: nonno ricordi le innumerevoli sere della tua vita e della mia infanzia, quando d'estate ci radunavamo tutti al ruscello e lasciavamo i piedi dentro l'acqua in mezzo ai girini finché diventavano freddi e molli e le oche bianche ci starnazzavano intorno e ci assordavano con le loro grida roche? Ricordi ancora i tramonti arancioni come i chicchi di granturco sparsi sull'aia ad essiccare dal mattino, che bisognava raccogliere in mucchi prima di notte e tu che tiravi la ragia con la nonna dietro, mentre io a piedi nudi ballavo il twist scompigliando le onde disegnate dal rastlun? Tu ridevi e scuotevi il capo con connivenza, abbandonavi il lavoro e correvi in casa ad alzare il volume della radio. Quando riapparivi anche la nonna e tutte le donne sdentate e impolverate del cortile, coi fazzoletti allacciati dietro la nuca e le facce come fogli di cartaccia scura stropicciata ballavano il twist con me, tra i chicchi che schizzavano lontano e le risate bruciate nelle gole secche. Puoi evocare senza sforzo quelle gare in bicicletta dal Mulino dei Banditi al fiume, quando tu in prossimità del traguardo ti rovesciavi in un prato fingendo di cadere per lasciare vincere noi bambini? O quando ammazzavi i conigli sotto il melo, mentre io in un angolo in mezzo ai gatti eccitati dal rito di morte, piangevo perché non volevo che li uccidessi? Tu mi lanciavi sguardi desolati e mormoravi allargando le braccia: «Neanch'io lo vorrei… Ma così è sempre stato. È la vita… I conigli si mangiano». «Ma perché dobbiamo proprio mangiarli?» insistevo io nel sale delle mie lacrime. «Perché è nella legge della natura… Ma forse non è una buona legge… forse non è una buona legge… » rispondevi curvo staccando con maestria la pelliccia dalla carne dell'animale morto. O ancora quella nera sera d'autunno quando tornasti a casa dal tuo turno di lavoro al vecchio essicatoio coi cerchi di polvere attorno agli occhi e le ossa provate? Con lo stile di un prestigiatore consumato e un sorriso che avrebbe aperto tutte le porte, ad un tratto, sfilasti da sotto il tuo pastrano scuro una piccola volpe spaventata e arruffata che raccogliesti per strada orfana e disorientata e me la porgesti strizzandomi un occhio. Ricordi ancora e ancora l'infausto giorno in cui Eolo, il miglior amico che avessi mai avuto se ne andò dal paese? Sparì dalla mia vita in quel tardo, afoso pomeriggio d'agosto: fiordalisi lungo i fossi soffocati d'erba, onde d'api e zanzare sugli orti mesti e rigogliosi, sandali dimenticati sotto foreste di dalie. Era stata una fuga o un abbandono? Rifiutai di interrogarmi, di muovermi, di asciugarmi cuore, naso ed occhi e lasciai rovinosamente scivolare i miei singhiozzi sulla piazza narcotizzata dal sole. Mi disfai le trecce, mi strappai quasi gli occhiali sudati dal piccolo naso bagnato e percorsi calma e appassionata per sei volte il muretto più alto e malandato dei miei anni sperando nella precarietà dei mattoni e nelle mie vertigini sibilline. Non precipitai. Compii altri tentativi, ma il suicidio a quanto pareva, non mi si addiceva affatto. Verso sera, ma forse era già notte consentii ai miei piedi gementi di riportarmi a casa. La nonna mi accolse come un fantasma o un reduce da una missione spaziale fallita, mobilitò tutto quanto il vicinato che si prodigò solerte per ristorarmi. Tutto questo mi calmò e finii per arrendermi al sonno tra le braccia di qualcuno che con mano attenta mi accarezzava il primo sogno affacciato. La notte passò e fu piena di grilli, di lucciole e di bisbigli teneri come un cestino di pesche. Quando mi svegliai trovai ai piedi del letto una splendida, lillipuziana sediola fatta con legno di ciliegio. L'avevi costruita per me durante la notte, in silenzio mentre fuori i primi venti scorrazzando arruffavano il pelo dei gatti in cerca d'amore e di prede. Rammenti quell'altra sera di un tempo quasi completamente affondato? Stavo immobile, in attesa, dritta nel vento (vento vento) di fine maggio, appoggiata alla mia impazienza. La strada finiva in una curva stretta che tagliava il mondo inesorabilmente come un colpo di falce.

Le risaie luccicavano nell'ultimo sole che colorava l'acqua di sogno, un sogno a tinte forti e dolci, aperto a tutti. Finalmente ti intravidi fluttuare laggiù in lontananza, un movimento scuro che avanzava appena. Poi ti riconobbi e per nulla al mondo potevi non essere tu. Il coro delle rane salì dai fossi al cielo, si perse nel vento, riemerse più intenso più vicino. Pedalavi distratto e leggero sulla vecchia bicicletta da pianura coi freni a bacchetta e la sella di cuoio, arrugginita e indomita.

Ti avvicinavi nel tuo sorriso composto velato di saggia malinconia con la coppola impolverata e gli stivali bassi ai piedi, la giacca stretta e il tuo cuore di bambino curioso spalancato come le finestre ad aprile.

Andammo sul prato dietro casa e tu facesti l'acrobata camminando sulle mani nel trifoglio fresco, poi quando comparvero le stelle mi portasti al piccolo luna park sulla piazzetta e volammo sulla giostra fino a toccare la notte.

Il giorno dopo tornasti alle tue risaie, ai tuoi pioppi, al tuo sogno di giovinezza infinita ed eri, come adesso lo sei più che mai, signore dell'acqua e del cielo, perché la nobiltà è nello sguardo, nel modo di porgersi al mondo o di toccare la corteccia di un olmo. E tu sei nobile come una vetta solitaria, quelle vette conosciute a vent'anni col cappello piumato da artigliere da montagna in testa e portate nel cuore fino ad oggi e raccontate col tremito di voce del poeta che ti porti dentro.

Raccontami nonno Cesare dei tuoi anni duri e ridenti, parlami con le tue mani di falegname colto e musicale, riportami ai tuoi chiari di luna, alla grazia dei tuoi silenzi attenti e confortami con la lucida gentilezza del tuo sguardo. Questi giovani un po' trascorsi con poche speranze come me hanno bisogno di scorgere negli specchi immagini di grandi vecchi che s'incamminano con bambini per mano e sapere che a turno ognuno di loro rallenta il passo per aspettare l'altro. Buon compleanno nonno Cesare, novant'anni di vita limpida come un quarzo sono il tuo biglietto da visita per un futuro senza capolinea.

«Sali in macchina nonno, ti porto a casa, c'è tanto vento… stasera».


Racconto vincitore del concorso Città di Melegnano 1997

 

Passaggi di brume e di astri

Ha incominciato a piovere sommessamente, mestamente, minuziosamente, senza che una nuvola si muovesse nel cielo color lana di pecora. Sei rimasti lì, accanto al tronco contorto del glicine, seduta dritta sulla piccola sedia spagliata, vecchia sicuramente quanto le tue ossa. Tuo figlio, prima di tornare in città, ti ha spostata dal tuo angolo e ti ha messa al coperto. Tu non ti sei ribellata, non hai mutato espressione, hai soltanto alzato gli occhi sui suoi occhi del tuo stesso color di foglia e hai mormorato: «Piove. Torna a casa». Lui ha lasciato cadere uno sfuggente sorriso, ha mosso la testa ed è salito sulla sua automobile lucida e spettrale come un disco volante: «Giovedì vengo a prenderti. Ti porto alla Villetta mamma. Ti piacerà vedrai. Sarai in compagnia e ci sarà chi baderà a te». La Villetta era la casa di riposo, il sottoscala del trapasso, gli ultimi muri della tua vita. Non hai aggiunto nulla alle sue parole. Non c'era nulla da aggiungere alle sue parole. La comparsa di un velo trasparente sullo sguardo ti ha per un attimo confuso il mondo. Subito si è sciolto in uno scorrere tiepido lungo le ramificazioni di rughe della guancia, profonde come impronte di passerotto sulla fanghiglia del cortile sgelato. Non erano lacrime. la capacità di piangere era trascorsa, come la meno consueta capacità di ridere. Il tuo vecchio cuore di mondariso era governato ora, libero da ogni vitale impedimento, da quella sensazione di porosa malinconia che per tutta la vita avevi scacciato come scacciavi una mosca sul tavolo apparecchiato. Hai annusato l'aria come facevi sempre di sera, prima di chiudere l'uscio a chiave, per capire dall'odore che saliva dalla terra i possibili mutamenti del cielo. Ma adesso l'aria sapeva di niente o di poco, come i cesti di frutta del negozio o il primo pane della colazione. La vita e il tuo sangue avevano perso possenza e speranza, a volte barcollavano e mandavano segnali isterici, senza codici. La notte e quasi tutto il giorno seguente l'hai trascorso frugando nei cigolanti armadi della camera da letto. Tutto quello che avevi conservato con scrupoloso ordine tra i sacchettini di lino ritagliati da vecchie sottovesti e colmati di lavanda, sarebbe stato raccolto con furia maldestra e funesta dai tuoi figli profanatori portato via, irreversibilmente. Ricordi piccoli e perduti tra cappotti di foggia trascorsa e lenzuola ricamate a mano, la sera, nel tepore delle stalle, ti molestavano il cuore. Ceri benedetti e fotografie dei figli piccoli scattate da fotografi approssimativi, episodi trascorsi e sentimenti remoti riemergevano con pudica violenza tra le tue dita lievi e irrigidite dall'artrite. Ti sentivi sdoppiata, qualcosa di te urlava imprigionato nel nero fradicio di un pozzo mentre l'altra parte vagava di stanza in stanza accarezzandosi i gomiti, la bocca piegata in un sorriso, come da sempre ti fu insegnato, in faccia al feroce incedere della vita. La vita, la vita, la tua vita raggomitolata in un angolo che gemeva come un cane sperduto e quel sorriso, né mesto, né ironico, modellato sulle tue labbra a immagine e somiglianza del tuo cuore, giunto intatto al porto nonostante le tempeste e le arsure di un lungo viaggio nel tempo. Hai lasciato bruciare l'ultimo pezzo di legno d'acacia nella stufa di ghisa sulla quale, anni prima, faticavi a scaldare tutta l'acqua necessaria ai figli per lavarsi la sera e nel cui forno, in inverno, c'erano sempre mele cosparse di zucchero che caramellava.

L'autunno si stava muovendo a piccoli passi rapidi, slegava le foglie dal fico e alitava nebbie odorose di bruma sui campi umidi e immobili. Ti sei passata una mano sugli occhi e hai staccato lo scialle pesante, lentamente, indugiando dietro ai pensieri come fanno i perditempo e i signori di ogni epoca. Hai aperto l'uscio su un tardo pomeriggio raffermo, percorso da tortore inquiete che svolazzavano tra i pochi tetti e i tanti rami di pioppi sguarniti. I cortili delle case si assomigliavano tutti: una piccola aia sconnessa, residui di pozzi ormai inutilizzati dopo l'arrivo dell'acqua potabile, biciclette appoggiate ai muri insieme a vecchi attrezzi da lavoro, pollai e rustici sbilenchi che servivano da ripostigli o garages, ma sapevano ancora di piume, fieno ed escrementi di mucche. Oltre i cancelli l'unica via del paese con una denominazione. Essa scorreva in mezzo alle case e agli orti e passava accanto alla solitaria piola dove la domenica si mangiavano rane fritte e si bevevano rossi amabili tra i clienti delle città che uscivano ondeggianti e un po' tristi e riprendevano la strada verso la civiltà con lo stomaco saturo e strani lampi negli occhi. Sei passata davanti ai cancelli, alle aie, agli orti, agli occhi dei gatti sui davanzali, agli occhi che transitavano dietro le tende delle finestre, ai mattoni sui quali ti appoggiavi nei tuoi spostamenti e che ti riconoscevano e che tu riconoscevi anche nel buio delle albe invernali e sei sgusciata fuori da quel tutto consueto.

Oltre c'era la pianura, il tuo infinito. Argino composti di platani scalvati e pioppi canali impenetrabili, fumo di stoppie che bruciavano piano nell'umidità del pomeriggio d'autunno che avvolgeva aspro e nebbioso le tue membra fino a farti male. Qua e là sacchi di plastica di concime assassino mezzo sepolti nel terriccio dei fossi. Tralicci dell'alta tensione e stormi di corvi si contendevano lo spazio aereo. Hai cercato intorno a te un palpito segreto, un profumo paragonabile, una goccia feconda, un carme lenitivo.

Nulla. Solo il rumore secco dell'irrompere di un convoglio sulle rotaie in lontananza. Hai aspettato. Aspettare ti era familiare. Hai aspettato tanto negli anni che si rincorrevano. Hai aspettato di crescere, quando ogni mattina pestavi chilometri di fango per raggiungere una scuola arcigna e piena di trappole per topi, hai aspettato le stagioni in cui il riso e il granoturco si potevano mietere, hai aspettato che i figli crescessero e si irrobustissero per temere un po' meno per ogni folata di freddo che passava sotto l'uscio, hai aspettato che il dolore scorresse via come una goccia sul vetro…

Intanto si staccavano i calendari vecchi dai muri e tu non avevi nemmeno il tempo di accorgerti che i capelli ti ricrescevano scoloriti. Improvvisamente alle tue spalle un ciclope onnipotente ti ha oscurato. Vacillando, come se una forza fredda e invisibile ti avesse toccata ti sei rimpicciolita sul ciglio della strada e con la testa piegata hai alzato gli occhi sulla sagoma fragorosa. Un uomo in alto, sul sedile della mietitrebbia ha sollevato una mano, come per un saluto. Hai mosso il sorriso, come per un saluto. Il cuore si è tranquillizzato soltanto quando quell'apparizione ibrida è affondata nella foschia, quasi contemporaneamente al suo rumore. Con un lieve capogiro hai svoltato in un viottolo che conduceva proprio in mezzo ai campi anneriti. Allora nei tuoi occhi è sbocciata un'acqua limpida, profumata di primavera, che ha inondato le stoppie, le ha sommerse, si è estesa, ha tramutato la pianura in un lago senza confini apparenti, quasi un mare. Un soffio fragoroso di vento tiepido è passato sulla nudità dei pioppi, li ha scossi, ha appeso fogliame tenero ai rami scricchiolanti, ha attraversato le geometrie di quegli specchi liquidi e ha scompigliato le piantine di riso in improvvisa crescita. I fossi e i canali si sono colmati di una traboccante acqua chiara e benigna (l'acqua, l'acqua dei tuoi occhi), il suo eloquio ancestrale ha preso a scorrere ovunque, ti è entrato dentro come una musica che tu sai di conoscere nota per nota, come se l'avessi composta. Garzette bianche e beccacini volano tra il sole e i suoi riflessi, chioccioline, rane e salamandre scivolano, saltano, e sgusciano tra le caviglie delle mondariso curve sulle piantine neonate da crescere senza tentennamenti, come i figli. E tu sei lì tra loro con le reni dolenti, le scarpette di gomma che aderiscono come una seconda pelle, le mani nel fango, le calze pesanti e intrise per difenderti dalle zanzare, la tradizionale caplina in testa sopra il fazzoletto annodato dietro la nuca. C'è una lunga giornata di lavoro ferreo e sfibrante da svolgere, ma ci sono i canti, le risate, la paura pranzo di mezzogiorno con la frittata e il salamino da gustare. Il ritorno in bicicletta, la sera poi, è come un giro in giostra dopo il travaglio. A casa ci sono mazzetti scompigliati di bambini cresciuti sopra gli alberi da frutta e nelle pozzanghere dei sentieri che aspettano un rimprovero sottovoce e un piatto di riso coi fagioli. Le stagioni sfilano come una danza in costume e mutano le sfumature di questo cielo sconfinato che non riesci a contenere con gli occhi se lo guardi, spolverato e terso, nel primo albore.

I campi non aspettano gli umori degli uomini. La tua vita è stata rapita e conformata sulle impellenze del lavoro e dalle necessità della terra coltivata. Al di fuori di questo un po' d'amore ruvido e impacciato, il suono di una fisarmonica e qualche scoppio di composta felicità. Cominciavate in primavera, gli uomini pulivano i fossi, procedevate all'erpicatura, allagavate la terra, passavate coi cavalli alla slottatura con l'asse, livellavate il terreno con zappa e badile, poi iniziava la semina e di lì a poco le mondariso entravano in scena a compiere quel prodigio d'intelligenza e diligenza che era la monda.

All'inizio dell'autunno il riso ormai biondo e pesante veniva raccolto e legato in covoni. Ti immergevi in quel fulgore aspro e grinzoso con falce e guantoni e recidevi finché c'era luce, la schiena inarcata, ancora, il sorriso impresso dal mattino, appena un po' più voltato in smorfia verso sera. Poi seguiva la trebbiatura, l'essicazione sull'aia, la separazione degli scarti col ventolino, la riempitura dei sacchi da inviare in riseria, la raccolta della paglia e la bruciatura delle stoppie. Tutto si concludeva con la calata delle prime nebbie sulle file tacite e ieratiche degli spazzafossi in bicicletta coi badili sulle spalle…

L'acqua nei tuoi occhi si è asciugata, ti era rimasto solo un palpito curioso che si propaga dovunque, oltre il cuore e oltre la pelle. Hai lasciato la mitezza del tuo sguardo spargersi lontano, spingersi all'orizzonte, dove il vento sta scacciando la nebbia e fa intravedere pallidi ammiccamenti di stelle.

«Ehi Pinotina!».

La voce alle tue spalle ti è parsa un neologismo. Ti sei voltata piano e un sospiro si è aperto in un nome: «Cesco…». Gli occhi dell'uomo di fronte sono pieni di tante lucciole e il suo sorriso sdentato e schiuso assomiglia a quello di un bambino ammaliato dalle bancarelle di un fiera. Cesco il matto. Matto perché libero, libero di non possedere e di non essere posseduto da niente e da nessuno in un mondo con pesi e misure, ordini e contrordini. Cesco aveva trascorso la vita con quel niente che lo paragonava agli uccelli nell'aria e ai pesci nell'acqua. Appariva e scompariva come un folletto, dormiva vicino alle tane delle volpi, acchiappava le lepri con un balzo felino e agguantava le carpe con le mani. Non aveva case, né legami, né ricchezze e forse nemmeno sogni, il suo unico sogno se lo stava vivendo da quando era nato, chissà dove, chissà da chi. La gente lo tollerava, a volte lo bandiva per i suoi sberleffi e il suo ghigno sardonico, alcuni lo ritenevano un alienato stravagante e gli regalavano pasti e vestiti. Lui non ringraziava, rideva dolcemente, si lisciava la faccia rasposa e si lasciava rimpinzare. «Cesco guardavo lontano… Pensavo a quando non c'erano ancora le macchine, alle nostre giornate…».

Lui ti ha osservata con la fronte aggrottata e le orecchie rosse di freddo. Allungando il labbro inferiore ha sciolto lo sguardo all'orizzonte, anch'egli, incupito.

«Senti? La notte sta bussando, tra poco entrerà nel cielo e sarà buio. Nessuna luce degli uomini o di dio potrà mai accendere il buio».

Il vento si sta annunciando con piccole violente aggressioni. I profili si offuscano, l'indeterminatezza della nebbia volge nell'indeterminatezza della notte. Il tuo sorriso ha ora una curvatura dolente, accorata come se ti fosse giunta notizia di un ipotetico oltraggio. Cesco si è scosso e con un balzo è salito sull'argine sovrastante. Ha aperto il tabarro e come un enorme rapace notturno, a braccia tese, ha lasciato il vento giocare con le sue nere ali. La sua voce è esplosa nerboruta e ben presto i vapori del suo alito si sono assiepati intorno a lui: «Gli uomini sono come bachi da seta! Divorano, divorano foglie di gelso per costruirsi intorno bozzoli sempre più grandi… sempre più grandi… Si perdono nei loro bozzoli e solo quando li spaccheranno per volare via tramutata in farfalle conosceranno la verità. La verità è laggiù ma è anche qui nel fango sotto le mie scarpe! Basta essere fuori dal bozzolo per vederla! La civiltà porterà l'uomo in malora, egli soccomberà in mezzo ai suoi veleni col cervello contrapposto al moto degli astri…».

Soltanto quando ha finito la sua arringa si è accorto di essere immerso in un gregge che lo attraversava rapido come uno scoglio in mezzo all'acqua. Ha abbassato le mani sul vello delle pecore che passando gli accarezzavano le dita senza che lui fosse costretto ad alcun movimento. Un riso infantile lo ha scosso, ha guardato verso quella piccola donna ai margini della notte che lo contemplava quieta e le si è avvicinato con cauta deferenza, col cappellaccio tra le mani, come se si accostasse a qualcosa di sacro.

«Pinotina… Mi hai fatto ballare tante volte alla festa di settembre… Poche donne mi hanno voluto come cavaliere lo sai. Ma tu eri buona con me, non ti vergognavi di ballare con un matto… Posso chiederti un ballo adesso? Qui sotto queste stelle?» e ha alzato il braccio a disegnare un arco nell'aria. Lo hai guardato come si guarda un bambino che dorme, senza stupori, hai ricomposto la veste e hai allargato il sorriso quasi quanto potevano le tue mascelle contratte. Hai appoggiato una mano sulla mano del Cesco e l'altra sul suo braccio zelante. Avete iniziato a muovere minuscoli passi sulla melma finché da lontano è sembrato giungere un imponderabile suono di fisarmonica che si è propagato sulla pianura come un volo di ibis… Un'auto è transitata e per un attimo ha illuminato coi fari due figure che si muovevano titubanti in una insolita danza flemmatica tra le risaie pietrificate dalla notte e dal gelo. Un cane ha abbaiato in un cascinale remoto, un lamento di fagiano è passato sopra foglie randage, in alto, oltre le brume e i dissensi, Saturno è entrato nel segno dei Pesci.

 

 

Racconto 3° classificato al concorso Città di Orzinuovi 1998

 

Congiunzioni

 

La voce del nonno era un soffio incomprensibile che procurava ogni volta al mio cuore friabile piccoli crolli silenziosi. Lo guardavo obliqua, con una maschera di normalità mal sostenuta da un comportamento quasi paranoico. «Il nonno sta morendo», «Ischemia». Mi confermavo mentalmente dati che una parte di me non riusciva ad elaborare. Mi sentivo inceppata rarefatta. Le mia mani fredde, umide sui segni del palmo, sistemavano con una attenzione paradossale il lenzuolo e accarezzavano con pudore le sue dita agitate. Se la morte è un evento naturale, complementare alla vita, la sofferenza che la precede non lo è affatto. Mai. Il dolore quando infine non ha sbocchi non è un tributo da pagare all'ingresso di un nuovo spettacolo, ma sempre un disastro colposo impunito. Evitabile. Non volevo che intuisse la verità. Si finisce sempre per pensare che chi sta per estinguersi non riconosca il balletto premonitore. In una canicola impietosa recitavo una quotidianità da copione mediocre che pareva una caricatura. Il nonno non aveva mai amato quel caldo intenso. Era sempre stato un estimatore di quei nostri inverni freddi e secchi, coi ghiaccioli appesi alle grondaie e gli emblemi della brina sui paesaggi azzurri. Il gelo lo faceva scintillare come un diamante, rientrava in casa euforico con la legna per la stufa e scodellava il suo buon umore fino ad un completo contagio.

In uno di questi pomeriggi grevi, che il nonno aveva sempre cercato di schivare come un morso velenoso, mentre mi recavo all'ospedale dove lui stava piano piano deragliando, ero incappata, quasi ci ero finita sopra, in un piccione accartocciato sul marciapiede. Non presentava ferite apparenti, aveva gli occhi persi già in un'altra dimensione. Si era lasciato prendere, lo avevo sollevato facendo un nido con le mani, lo levai dalla minaccia di pneumatici e tacchi. Lo depositai oltre le aste di un'inferriata, sotto un cespuglio di lauro. Al sicuro. Quasi mi aveva guardato. Il suo corpo color della cenere stava comunicandomi il suo amaro messaggio. Cercava un condono nelle ombre che gli sfilavano davanti o forse tentava di riconoscere un demiurgo benevolo tra quei passanti distanti? Provai a trasmettergli quel che affiorava dalla mia impotenza: compassione e compartecipazione alla sua sofferenza. Lo accarezzai tra collo e ali con un'impronta di dita.

Dita.

Le dita del nonno ormai non si lasciavano più accarezzare. Quando raggiungevano le nostre mani, ci imprimeva le unghie nella carne con una forza non riconoscibile. Era sul margine, oltre c'era il vuoto immondo che lo risucchiava. Il suo era il volo di un corvo invecchiata in una tempesta di grandine fredda. Un'opposizione disarmata, sgualcita, sterile, immensa.

Immensa.

Immenso mi apparve il torrente che dovevo attraversare. Il nonno mi teneva per mano e mi indicava i passi da compiere, i sassi sicuri. La sua presa era salda e suasiva, ma procedevo impaurita, irritata dalla mia debolezza. L'acqua luccicava di bagliori selvaggi e la corrente premeva sulle mie esili gambe senza misericordia. Guardavo perplessa le sponde opposte con la certezza di non raggiungerle mai. La mano convinta del nonno non mi lasciò ingoiare dai gorghi e trasformò il mio panico in percezione di trionfo quando mi accorsi di trovarmi nell'umidità della riva parallela.

Parallela.

Parallela al suo letto gli umettavo le labbra con una garza bagnata mentre le ultime vane gocce dell'ennesimo preparato per fleboclisi scendevano lungo il tubicino di gomma. Le mosche sbattevano contro i vetri aperti della finestra. Raramente i loro ronzii si interrompevano in un volo di libertà, nonostante questa fosse raggiungibile con un irrisorio cambiamento di traiettoria. Il giorno seguente avevo portato della mollica e una manciata di granaglie al piccione. Si mosse un poco, forse nemmeno, forse solo lo immaginai. Lentamente stava sprofondando nelle sue piume. In un altro momento della mia vita mi sarei occupata seriamente del suo spasimo, ma in quel vortice di dolore le mie azioni erano distanti da me stessa e si esplicavano quasi senza riflessione. Quell'ultimo giorno passai davanti all'inferriata, guardai e mi accorsi che il piccione aveva lasciato scorrere via la vita da sé. Giaceva con le ali inarcate e il capo abbassato, composto. Raggiunsi il reparto Ostetricia e sbirciai dai vetri le culle dei neonati: sentivo l'esigenza di guardare la vita appena schiusa e di lasciarmi allettare dal suo involucro seducente. Pensai che il soffio vitale vagante del piccione, per una mirabile traslazione, si fosse trasformato nel respiro calmo di una di quelle nuove esistenze.

Esistenze.

L'esistenza del nonno era al posto di frontiera. La girandola penosa dei dettagli si sarebbe fermata su un ultimo gesto tentato, su un segnale venuto da lontano, su un lampo irrisolto negli occhi.

Terminare. Era un verbo come un altro. Con un significato come un altro. ma qualcosa non tornava. Qualcosa non... Il dolore si stava rivelando in tutta la sua potenza, ridefiniva i confini, scioglieva le alleanza. Pensai: "Tornerò a ridere, non più a sorridere". Naturalmente. "Adesso ascolterò e capirò i cani che abbaiano nella notte sotto lune pesanti, senza rabbrividire".

Quelli vivi ritornano a casa, tremandoci sopra sussurrava Pavese. Quelli vivi. Sgusciai dalle litanie dei pensieri.

Cambiai reparto. Di là l'impronta della morte era visibile dietro ogni porta a vetri, sulla vernice giovane dei muri, sulle lenzuola sfatte. Raggiunsi la stanza in un crescendo di ansia premonitrice. La porta era chiusa. Intuii l'agitarsi professionale di camici e strumenti oltre la soglia. Entrando quasi mi scontrai con l'adipe di un'infermiera dal fetore intenso che stava correndo fuori. «Lei chi è? Una parente?». Balbettai: «Una nipote» barcollando cerea verso il letto nascosto dal paravento. Stavano levandogli la mascherina dell'ossigeno. Non serviva più ossigeno. Non servivano più attrezzi clinici, né farmaci, né rianimazioni. Il nonno era immobile, non più contratto, non più sudato, tiepido, in attesa di raffreddarsi. Strinsi la sua mano. Gli impressi le unghie nella carne con una forza non riconoscibile. Aprendo i cancelli alle lacrime sperai che la banalità non sfiorasse quella stanza. Gli toccai gli occhi, la testa.

La testa.

La sua testa lustra con appena un'ipotesi di candidi capelli scarmigliati sulla quale stava poggiato il berretto da notte che io negli anni dei pulcini e delle zanzare giocavo ad acchiappargli per poi ridere come non ho più riso in tutta la vita. Era sempre il nonno ad accompagnarmi a dormire. Mi raccoglieva già in pigiama tra il calore fuligginoso del camino e lo splendore del nuovo libro di favole sul quale ero crollata. Mi avvolgeva nello scialle ispido della nonna e mi portava su per le scale gelide in un odore di candele consumate e muffa. Nel letto mi aspettava lo scaldino di rame e un sogno tutto per me, senza sbavature. «Buonanotte picinqueli». Il suo bisbiglio era lieve come la coda del gatto che scivolava distratta dietro i vetri. Picinqueli. Non gli chiesi mai il significato di quel nomignolo. Forse era un vezzeggiativo dialettale che poteva voler dire piccola quaglia? Da grande mi dimenticai di domandarglielo.

Da grande.

Da grande avevo coltivato il suo mito con tenerezza infinita e avevo combattuto contro chi, inavvertitamente, oscurava i suoi colori, disturbava il suo riposo. La mia vita ora era intaccata dall'inesplicabile. Uscii sul terrazzo torrido. Il pomeriggio stava virando in sera, odori d'ospedale salivano dai piani bassi. Uno stormo di piccioni si alzò all'improvviso in un volo radente e curvilineo, sorvolò i miei pensieri, i battiti d'ali mossero le gocce sulla mia faccia e alterarono la mia smorfia mesta. Lo stuolo sormontò gli edifici e le cime degli abeti, svoltò e ritornò come per un nuovo sopralluogo sul terrazzo. Mi oltrepassarono con un'impennata ed ebbi la percezione di alzarmi in volo con essi. Alcune piume mi fioccarono addosso, dolci come certi attimi perduti. Il soffio vitale del nonno volava in alto, oltre l'afa e lo smog, verso la frescura della sera in una scorribanda di piccioni. In mezzo a quelle ali in movimento indovinai il colore delle sue.

 

Classifica Concorso Città Orzinuovi 1998 sezione narrativa

 

 

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Aggiornato 9 Ottobre 1998