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Domenico Barra

Lembi di vita

 

Tempo di vendemmia


È tempo di vendemmia
tra le umide colline
canti e grida d'allegria
si intrecciano al silenzio
di giorni autunnali.
Una distesa di verde sbiadita
come il tempo di ieri.
Non si prova più gusto
nei gesti primieri.
Nell'aria odore pungente
di mosto tra strade dal vento battute.
Allineati al tempo
case incolori vanno su
lungo ripidi fianchi.
Ieri cantavo allegro
e pigiavo le uva nel torchio
attorniato da scherzi
da piccoli amici.
Ieri ridevo guardando
i miei cari negli occhi
fuori nell'aia m'alzavo
sereno in ogni volo.
Allineati al tempo
tra stanchi cipressi
i nomi più cari
le ansie e gli amori
i sogni immaturi.
È tempo di vendemmia
una distesa di malinconia
non si prova più gusto
nelle gesta di un tempo.


Nel parco


L'aria novembrina tra i viottoli del parco
nel mattutino silenzio scioglie ogni sogno.
Sotto l'arco
panchine vuote incuranti aspettano
e foglie gialle in preghiera si raccolgono.
Che vuoto! Alberi maestosi sostengono il cielo
incolore. Ma dove abito ancora non lo so. Solo.

I sentieri ciottolosi scivolano sui prati verso
cancelli merlati. Oltre le siepi giace l'inverno.
Nei nodosi tronchi infreddoliti squarci di ieri,
ricordi, immagini e suoni pinkiani.

Ero piccolo, le mura di pece annerita, penetrate
da venti e grida e piogge, musica dirompente
ma oltre la siepe era vietato andare. Sorprendente
quanto scialba sia la vita aspettando il ritorno del sole.
Afferrare un domani e poi un altro. E un altro ancora.
Schizzi di noia sulle rotaie, si imbrattano le mura.

Stormire di foglie, un canto dell'anima?
Un busto d'eroe piange solitario di rugiada.
Un illuso abbandonato presto dalle coscienze.
Oltre la siepe tutt'attorno l'inverno giace.

Venezia


Adorna e bella in un eterno
caldo amplesso marino
il tuo glorioso capo chino
canali, ponti, il luccichio
di riflessi arcani, il sogno,
Venezia, nel tuo cuore antico
ride l'Adriatico.
Ti ho vista un giorno lontano
non ricordo il tempo
sedevi scherzosa col tuo sovrano
mostravi al viandante ignaro
le tue grazie senza ritegno.
Ho sostato in silenzio
all'ombra di San Marco
del doge lo spirito irrequieto
aleggiava nell'aria crucciato.
Serenissima, nome antico
di stemperata gloria, invano
tenti di nascondere l'orgoglio
atavico che irrompe nel petto,
che mi ha stregato.
Ride nel tuo cuore l'Adriatico.


senza titolo


Porgimi la mano
non voglio
sentirmi solo
mentre cammino ogni giorno
con tante persone attorno
di parole ubriaco
torno a casa confuso
e alla rinfusa cerco
la vita nel chiuso.
Porgimi la mano
chiunque tu sia straniero
dagli occhi e dallo sguardo
strano.
Il giornale sul divano
ripete annoiato
la cronaca del passato
il telefono intanto
squilla assonnato
per il bla bla quotidiano.
Porgimi la mano
non voglio
sentirmi solo.
Dietro l'angolo il futuro
dietro il tempo
il pianto
con tanti occhi attorno
anche il sole si sente stanco.
Dietro l'angolo
il vuoto immenso.
Astruso il mondo ruota attorno
astruso
il cielo resta chiuso.
Porgimi la mano
chiunque tu sia volto
che incroci il mio sguardo
è un amico
che cerco
per non sentirmi più solo.

*

Un vecchio mulino
diroccato
un salice a lato
tra pioppi al cielo
mesti nel verde seduti
a raccontarsi i tempi andati.
L'ombra ripida di colline
il cielo socchiude.

Quante persone di qui son passate
quante opre
quante cose vane.
Tutte andate
come il vuoto letto del ruscello
che più non singhiozza
come le macine ferme
in un decrepito acquarello.

Potesse il vecchio mulino
parlare
e il salice e i pioppi
misteri svelare. No.
Non sarà mai.
Tutto si muove
tutto eternamente fugge.

Ritornando a Napoli


Ho dentro la confusione
della mia città
la sua stanchezza perenne
forse pia viltà
il suo canto allegro
come maschere amare
indossate per timore
di albe lontane dal mare.
Ho dentro il volto selvaggio
di una terra nuda
senza fiumi
che partorisce ruderi di storia
soleggiati
volti scavati,
la rassegnazione
dio temuto e adorato.
Ho dentro tramonti arrossati
le ultime luci
come piccole faville di speranza
lasciate libere
a danzare
nel mare della notte.


Freddi aurore


Il profumo delle rose ricama l'aria
riveste del castello l'apatia.
L'orizzonte nasconde sogni e alberi
per chi vuole andare oltre gli opachi vetri.

L'acqua zampilla allegra nei giochi
dei bimbi lungo laboriosi solchi
e l'aratro insegue tutto il giorno duri zoccoli.
Callose mani toccano rugose fronti.

Risuona l'orologio e delle rane
il cra cra dal fossato, monocorde
a cui risponde notturno il frinire delle cicale.
Si aspettano della turgida sera le ombre
che danzeranno abbracciate alle ataviche paure.
Fucina di sogni e canzoni appena nate
nell'ansia prima che nella ramaglia il sole
torni a far capolino. Freddi aurore.


Lembo di terra


La zagara profuma il cielo di sera
di questo lembo di terra solia.
Lontano dalla città, nascosto
siedo. Laggiù vedo la costiera
lambire le acque e a metà
inclinare un viottolo verso terra.

O natura amica, dolce compagnia
di estasi e armonia
dolce balsamo al cuore stanco
scrigno di sogni e malinconia

Gli affanni del cuore per un attimo
abbandonati e della mente i pensieri
respiro la vita a piene mani
quassù mi sento vicino al cielo
non mi tormenta più il domani.
Il sole tocca l'orizzonte con le mani.

O natura amica, dolce compagnia
di profumi e armonia
tenera madre pel cuore stanco
scrigno di sogni e malinconia

Della sera le multiformi ombre
giocano tra cespugli allegre
non s'odono pie preghiere
tra le mure di questo convento diroccate
tutt'uno sono ora cielo, terra e mare.
Sol'io mi sento estraneo. Non posso volare.


Generazione di sempre


Siamo come sospesi
nella nausea quotidiana
tra ideali confezionati
in offerta ai supermercati.
Ne ho visti tanti di amici
passare, erano bucati,
giovani alberi senza rami
piegati da venti più forti
da deserti colorati.
Ne ho visti tanti
andare giù dai ponti
uccelli senza ali
alla ricerca di nuovi mondi.
I videogames dai colori marci
non possono amarci
né partoriscono sogni
nelle loro luci illusorie.
Il deserto ha già raggiunto le menti.
Le città si aprono alla boutique
di paranoia e avanzi
dove pensare è dolore.
Hanno rosicchiato nel cuore
ogni straccio di ideale
ora puoi stare ai semafori incurante
a guardare distinti manichini
sporgersi dai finestrini
o dalle tivù a colori
tra cascate di fredde parole.
Siamo come sospesi
generazione di sempre
nella nausea quotidiana
attaccandoci ad ogni sussulto
per sopravvivere
perché non abbiamo il coraggio
di essere alberi senza rami
uccelli senza ali
di essere uomini di ideali
stanchi di finire appiattiti.


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