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Daniele Borghi

10° classificato nel concorso Marguerite Yourcenar 1997
sez. narrativa con questo racconto:
 
Chiara
 
Aveva una leggera peluria sul labbro superiore. Come spesso accade alle ragazze molto giovani, non aveva ancora imparato a trasformare il suo corpo in una lucida ed inutile macchina di rappresentanza.
Baffi, per essere del tutto cinici.
Fu quella la prima cosa che notai tendendole la mano per presentarmi.
Solitamente non mi è facile capire perché, di una persona, mi colpiscano dei particolari di scarsa o nessuna importanza. Quella volta, invece, solo dopo pochi minuti, avevo capito il motivo per cui quella peluria mi era saltata agli occhi e continuava ad attirarmi lo sguardo. Era molto semplice, quei sottili peli neri erano l'unica voce che compariva, sulla sua lavagna, nella colonna dei cattivi.
Era l'unico granello di sabbia in una macchina ad ingranaggi invisibili e perfettamente oliati, il segno tangibile di una umanità che sarebbe sfuggita ai sensi principali, occultata da un miracolo genetico che dava frutti ad ogni gesto e germogliava ad ogni sorriso.
Scivolando da un inglese farraginoso ad un greco fluido cercava di rendersi comprensibile, compiendo sforzi del tutto inutili. Tutto veniva fuori anche dal silenzio, dal solo ininterrotto, leggerissimo ed inarrestabile movimento delle mani. Le traiettorie tracciate nell'aria dalle sue mani erano lievi, le parti in movimento, ridotte alle sole dita, si muovevano in modo apparentemente estraneo al senso e all'enfasi delle frasi. Su una invisibile tastiera muta contrappuntava il suono della sua voce senza alcuna invadenza.
Capivo soltanto poche parole di ogni frase, tessevo con la fantasia un ordito immaginario sull'incerta trama dei suoi discorsi, utilizzando quei pochi punti fermi come bordi di un ricamo da disegnare. Con la stessa attenzione con cui un automobilista osserva le indicazioni stradali per essere indirizzato verso la sua meta, attendevo la comprensione delle sue parole per far compiere alla mia logica curve morbide, inversioni di marcia e brusche sterzate.
Ma era un viaggio di piacere, uno di quelli in cui è più importante viaggiare che arrivare. Percorrere quella dissestata pavimentazione di suoni sconosciuti, quella strada lastricata di parole dal significato misterioso era una gioia, una esplorazione rilassante e senza pericolo, in territori dove la libertà di immaginare era la decantazione della vita.
Gli spazi vuoti erano ampi, uno scarsissimo traffico di parole impediva ingorghi ideologici e rendeva impossibili incidenti verbali. Un on the road tutto casuale e tutto racchiuso nel perimetro di una stanza grande come una immaginazione viva.
 
Di notte si possono sentire molti rumori. Per poterli ascoltare occorre possedere un normale udito umano ed una feroce mancanza di sonno. L'insonnia è una pianta spinosa dai grandi fiori neri e gialli. Va coltivata con cura, senza meditare rappresaglie per gli innumerevoli graffi che procurano le sue spine e senza acrimonia per la fatica che costa spostare il suo vaso pesante e pericoloso. È un ampliamento delle percezioni, una lussuosa dependance della routine quotidiana dove recarsi ogni sera, quando il mondo sembra dimenticare se stesso nel sonno.
Un suono, un rumore, una voce, hanno sapori completamente diversi se li si ascolta durante il giorno o nell'elegante soggiorno della notte. Ogni onda sonora, aiutata dall'assenza del consueto e troppo invadente tappeto acustico diurno, percorre interi chilometri per arrivare alle orecchie di chi ha voglia di ascoltarla.
Una frenata stridente non fa più parte del coro del traffico, un gatto in amore che rantola la sua voglia di perpetuare la specie si colora di sfumature come una poesia d'amore, un temporale estivo innesca salti di due ottave nella sommessa frase musicale di una fioriera gocciolante per una copiosa annaffiatura.
Passo molte notti ad ascoltare. Molte sono le perturbazioni sonore che attraversano lo spazio mai completamente buio di una città che si lecca le ferite.
Il silenzio non è solo mancanza di suoni, come il buio non è mai solo mancanza di luce. Troppo spesso si pensa a loro come ad una assenza con un nome di battesimo, troppo facilmente buio e silenzio ci sembrano vuoti di tutto mentre sono solo ideali cangianti, riflessi termici di una mente in espansione.
Il buio accende le fantasie di ognuno. Desideri, paure ed angoli nascosti della mente si risvegliano con il buio e prendono le forme che possono, trascurando con piacere le realtà della luce.
Io, invece, preferisco proiettare rumori. Posso passare ore intere a proiettare rumori sullo schermo che il quasi silenzio della notte mi prepara.
 
Una sera, una delle poche che trascorremmo insieme, la guardammo arrivare da un desolato giardino pubblico, scarsamente illuminato dalle pallide luci al neon di un quasi altrettanto desolato bar all'aperto. Non frequentavo volentieri quel posto, evitavo anche di passarci vicino durante i miei lunghi vagabondaggi.
Vi stagnava l'odore increscioso della ricchezza, del denaro speso male e le ragazze, nelle loro imprescindibili gonne blu, avevano una risata troppo frequente e troppo squillante.
Quella sera, stranamente, non riuscivo a percepire neppure l'odore secco della polvere che si attaccava alla mia pelle sudata, non mi sembrava neppure che quel posto fosse migliore o peggiore di altri. Avevo molte cose a cui pensare, molte per cui non essere felice e troppe divergenze con quello che si definisce il senso comune della vita. Ero sotto la ventina, questo potrebbe spiegare tutto.
Guardavo lei, la sua peluria sotto il naso, la sua elegante dentatura ancora sotto e pensavo. Con l'ingenua speranza che le troppe idee che si rincorrevano nella mia testa decidessero di prendersi per mano, comunicare tra loro e fornirmi una lunga serie di risposte logiche ed inconfutabili, iniziai a piangere silenziosamente, senza nessun rumore che tradisse la mancanza di pulviscolo irritante.
Ora lo so, quando si piange solo nelle canoniche occasioni che la vita ci propone occorrerebbe smettere di procreare. Per farci ridere c'è sempre qualcuno disposto ad adoperarsi, per piangere è tutto molto più difficile. Una risata può uscire all'improvviso, come una bolla d'aria nelle tubature dell'acqua, ma un gallo non si sveglia cantando perché è di buonumore.
 
Anche stanotte a guardare il cielo di una notte estiva stranamente non troppo calda. Con tutti i sensi a disposizione avverto l'avvicinarsi di un temporale. Con il solo udito inizio a sentire il ticchettio delle nuvole che si avvicinano calzando tacchi a spillo. Tra pochi minuti comincerò a sentire odore di ozono, poco dopo il sudore che questa eccessiva umidità mi fa produrre si raffredderà velocemente sulla mia pelle ed inizierò ad avere freddo. Sentirò il vento scivolare tra le gambe umide e quando i brividi saranno troppo forti rientrerò nella casa ancora calda di sole. Mi sdraierò sul letto e potrò continuare a ricordare.
La lacrima apripista non aveva ancora terminato la sua discesa all'intersezione delle labbra. Lei, nel frattempo, aveva barattato il mio sguardo con un gelato al banco. Un cono ad un solo gusto, decisamente agrodolce ed essenzialmente sgradevole, ora stazionava a pochi centimetri dal mio viso. Il magma freddo e gocciolante seguitava ad avanzare verso la mia fronte, sempre meno velocemente. Seguendo una traiettoria parabolica che immaginavo tendere all'infinito, con un limite corrispondente alla mia pelle, l'irregolare globo freddo cercava di stabilire un contatto elettrico. Sostando a distanza infinitesimale dalla mia pelle confidava nell'innesco di una scintilla tra due materiali amorfi.
 
Se si ha sufficiente pazienza e grande interesse per i passatempi silenziosi, una notte che poteva apparire interminabile e frustrante, infila correndo il rettilineo d'arrivo dell'aurora. Lo imbocca a piena velocità, provocando un persistente fruscio sul grigio ruvido del cielo. Ruzzolando tra cielo e terra senza neppure produrre rumore di ossa fratturate, si improvvisa meteora e riscalda come l'immagine di una grande impresa portata a termine con successo.
Al comparire della prima frazione di sole trent'anni di lacrime evaporano rapidamente, lasciando una più che consueta macchia salina al limitare della memoria.
Attenzione. È questo il momento di tenere duro, è questo il momento in cui il sonoro della vita inizia ad essere inutile insolente e dannoso. È proprio ora che occorre prestare l'attenzione più decisa verso i rumori che contano.
Io sono allenato, le mie orecchie setacciano la brodaglia dei rumori prima che essa giunga confusamente al cervello, prima che i condotti del suono si intasino del consueto nulla. All'alba le mie parabole sanno dove indirizzarsi, si muovono con un familiare ronzio verso il suono del postino che sposta le coperte troppo calde del suo sonno pesante e scende dal letto. Lo sento lavarsi, radersi il viso e poi, dopo aver pisciato il vino della sera precedente, mettere in moto lo sciacquone. Distinguo il fruscio della sua camicia acrilica che gli si adatta alle spalle, la vibrazione delle stringhe che si tendono per unire le due metà della tomaia. Lo sento uscire sbattendo troppo forte la porta, e stavolta non sono il solo a sentire: la moglie nel letto ancora umido ne coglie l'indelicatezza, si gira, lo insulta e cerca di riprendere sonno.
 
Il gelato era sempre lì, trasudante gelo e indifferenza, e lei lo stringeva con sempre maggiore forza. Anche nel liquame sonoro della serata estiva potevo sentire lo scricchiolio del biscotto, potevo addirittura percepirne l'abbassamento progressivo della tonalità man mano che le gocce di gelato scendevano ad inzupparlo. Quando tutte le microfratture innescate nella sua struttura furono portate a termine dalla eccessiva pressione delle dita, minacciosamente, come il tuono di una slavina, un crocchiare più profondo annunciò lo scivolamento a valle. La poltiglia umida e colorata assorbiva polvere ed io non trovavo di meglio da fare che guardarla con attenzione. Con lo stesso impegno con cui, fino ad un attimo prima, avevo cercato di dare un indirizzo logico a tutte le idee che mi rimbalzavano in testa, ora guardavo quello schifo sentendomi partecipe del suo futuro come fosse il mio.
La palla di gelato schiacciata sotto il suo piede si sparse intorno alla scarpa senza sporcarla. La mia catatonia schizzò lontana insieme alla crema e lei approfittò della mia attenzione momentaneamente priva di appigli fittizi.
Si sedette sui talloni tra le mie gambe aperte, sostituendo con il suo bel viso il gelato caduto e chiese:
«Perché?».
Per essere la prima parola in italiano che le sentivo dire l'aveva scelta proprio bene, forse la migliore di tutte.
 
Molte volte, quando il sonno mi sfugge ed io sono troppo stanco per rincorrerlo, quella parola comincia a crescere dentro di me come un dolce troppo lievitato.
Come un bimbo che ripete troppe volte la stessa parola sino a disconoscerne il significato, riuscendo a coglierne solo la musica, io mi incanto al suono dei perché che il mio emisfero cerebrale preferito continua a bisbigliare. Sento la bolla dei perché gonfiarsi senza concedere soste sino a combaciare con l'interno della mia pelle, formando un epitelio interno dalla composizione incerta e dalle funzioni espiative. Quando anche lo spazio più piccolo del mio interno è gonfio di quel gas è tutto finito. Non esiste più un movimento da fare, nessuna parola ha un senso descrittivo o risolutivo, tutto è strangolato dalla pressione che i perché si divertono ad esercitare sul mio collo. Tutto va in pezzi e diventa irriconoscibile. Sento il mio corpo piagato dal sonno lacerarsi sotto l'immane pressione di quella domanda. Tutto si scolora aggredito ed annientato da una nebbia corrosiva, lattiginosa, acida. Quando accade tutto questo posso sedermi sui talloni, fingere di ascoltare per la prima volta quella domanda e posso fingere di trovare una risposta.
 
Quella volta che il postino arrivò con la lettera che annunciava la sua morte io non ero ad aspettarlo. Forse è per questo che ora sono seduto sulle scale quando è l'ora del suo arrivo.
 
 

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Aggiornato 30 Ottobre 1997 (r1)