Inediti On line
 
Farfalle
di

 Daniela Manzini Kuschnig

PARTE II (Mara)

Capitolo 8

 
Il sole illuminava i tre corpi, arroventava le lamiere della jeep rovesciata sul fianco sinistro, il muso contro il tronco della quercia.
Si sentiva il brusio delle api e lo stormire dei rami in alto dove l'aria smuoveva le foglie degli alberi. Formiche scure in fila, a ranghi ordinati e serrati avanzavano su per il pendio verso il monticello del formicaio rivestito di aghi bruni, di pino. Odore d'olio intorno, odore di fumo, odore di corpi, di paura di rabbia di sangue. Per un attimo la scena rimase così, ferma, registrata dagli occhi, una fotografia impressa sulla pellicola della mente, essenziale nella sua definitiva crudezza.
Poi noi ci muovemmo. Ci demmo da fare a raccogliere le armi, a cercare le carte, quelle che il colonnello doveva avere con sé, quelle per cui c'eravamo mossi. Avevamo preparato l'agguato con cura, la Volpe era un maestro in queste cose. E l'agguato era riuscito. Ma le maledette carte non c'erano. Invece sì, eccole, se le teneva addosso, un plico, quattro grandi fogli in cambio di tre vite. Andava bene così.
Il Grigio ci fece fretta: " Muovetevi, su, svelti, andiamo! "
Eravamo pronti, ci incamminammo su per il fianco del monte, verso la baracca dei prati alti, guardinghi, tesi, l'orecchio attento ad ogni rumore, l'occhio fisso a cogliere un qualsiasi movimento. Niente. Un rantolo. Il giovane conducente della jeep s'era mosso. Il Grigio sbuffò, girandosi, ci fece cenno di proseguire. Sentimmo uno sparo, uno solo ed il Grigio era di nuovo con noi.
Salimmo in fila seguendo i sentieri che pochi conoscevano, che nessuno percorreva, i nostri sentieri nel folto del bosco che si apriva ad accoglierci e ci nascondeva richiudendosi alle nostre spalle. A sera, stanchi e soddisfatti, raggiungemmo il capanno. Era fatta. Finita. Un'azione rapida, come tante altre, nessuna perdita. Potevamo riposarci e mangiare e bere. Non s'era ancora stanchi di quella vita, la molla che ci spingeva era ancora scattante, agile, piena di forza, la ruggine sarebbe venuta poi, e se qualcuno provava nostalgia della casa o di una donna se lo teneva per sé: c'erano cose più importanti cui pensare.
Ci si accartocciava nelle giacche, sui panni buttati a terra, e si cadeva a dormire e se qualcuno, prima d'addormentarsi lanciava un'occhiata al cielo di notte e fissava la luce tremula di una stella conficcata lassù come un palpito d'ali di farfalla, non lo raccontava a nessuno.
Quella sera mi addormentai con negli occhi una luce lontana, quasi sperduta in un mare di stelle cadenti. Era agosto.
La mattina successiva s'era di nuovo in marcia per i boschi, nell'alba per raggiungere un luogo più riparato, dove avremmo potuto stare al sicuro ad aspettare che la caccia che le nostre azioni sempre scatenava, si placasse, prima di tornare a colpire. A pomeriggio inoltrato eravamo al Vento Lungo e lì ci fermammo.
Il Vento Lungo non era altro che una specie di grande capanno, un tempo usato di frequente all'epoca della transumanza, poi, con la guerra abbandonato: era isolato, nascosto fra speroni di roccia grigia e macchie di sempreverdi, era ben situato così che da lì si poteva dominare la valle sottostante e si controllavano le due vie d'accesso, che poi nulla erano di più che sentieri. Ci rilassammo. Avevamo provviste sufficienti ed armi e munizioni, che altro volevamo? Eravamo vivi, ancora vivi. Avevamo anche da bere e la prima notte ci demmo dentro, a bere. Tranne gli uomini di guardia, ovvio. Bevevamo nel buio, c'erano solo le stelle a trafiggerci con le loro luci e la luna, grande e tonda come una focaccia,
" ... no, una frittata... " disse il Lungo e rise.
" Ve le ricordate le frittate con la cipolla della Lina? " fece il Rosso
" Vi ricordate le cosce della Lina? " gli fece il verso il Gobbo.
Ridemmo, tutti. Le cosce della Lina erano leggendarie. Il Lungo rise, poi tacque e si alzò, allontanandosi a passi lenti.
" Già, per voi , ragazzi, è facile riderci su fino a far mattina... " bofonchiò. Aveva ragione. Per noi era facile, ma a lui la donna era morta sotto le bombe e se anche non aveva le cosce della Lina, era uguale, per lui, che gli veniva ancora un groppo in gola se ci pensava. Il Rosso scosse il capo e tutti ci zittimmo. A pensare ciascuno ai fatti propri. Ciascuno ai propri ricordi, o ai propri sogni. Uno nel buio cacciò una bestemmia e si rigirò sul fianco. Si sentivano i nostri respiri fra l'odore di terra e di muschio.
Ci fu un trapestio: una bestiola, certo. Un altro. Il Lungo s'appiattì contro una roccia a dieci metri da noi. Allungammo la mano, e prendemmo le armi. E le sentinelle? Accidenti a loro? Che facevano? Dormivano? Sassi smossi lungo il sentiero a nord, qualcuno saliva al capanno.
Ci appiattimmo a terra ed accarezzammo le armi. Eravamo storditi, ma non sbronzi. Il Gobbo strisciava pian piano sul ventre, piccolo e storto com'era, per finire dietro il cespuglio che nascondeva il termine del sentiero.
Rami smossi, e allora, solo allora, il fischio. Eravamo già schizzati tutti, in piedi, armi imbracciate, pistole puntate, mirando alla testa, al petto del ragazzo che il Gobbo aveva fatto cadere a terra e adesso gli stava proprio sopra con il braccio alzato a colpire, immobilizzato dal fischio, giusto in tempo.
La Volpe ringhiò: " Qualcuno vada a vedere che accidenti sta facendo quel pezzo di figlio di buona donna. " E il Rosso partì a controllare la sentinella.
A terra il ragazzo stava immobile e sussurrava: " Ohé, che vi prende? Sono Tullio, il figlio del calzolaio, non vedete che son io? "
" Brutto cretino, cosa volevi? Farti ammazzare? "
" Ho fischiato... "
" Dovevi aspettare ancora un po'a fischiare... "
" Dai su, tirati su... "
" Siete matti... "
" Basta, adesso basta! - la voce della Volpe risuonò fra i bisbigli, sembrò altissima, assordante e ci rendemmo conto di quanto fossimo fuor di testa-" Che ci sei venuto a fare? "
" Èper via del paese, sono venuti, li hanno presi... "
" Chi è venuto? "
" Che cosa c'entra il paese?"
" Zitti! " Questa volta la Volpe gridò. Nel buio. Mentre in cielo stormivano stelle cadenti.
Entrammo nel capanno. Facemmo luce, dopo aver tirato le coperte sulle tre finestre. Il Rosso entrò trafelato: " Non l'ha visto, non l'ha sentito, era sveglio... "
" Sono venuto su per il bosco e solo all'ultimo ho preso il sentiero... "
Fissammo il ragazzo: su per il bosco? Come un capriolo? Perché?
Era il figlio del calzolaio, poteva avere un quattordici, quindici anni, era sottile e fragile e stanchissimo, sporco di terra, le mani e il viso graffiati, piangeva. Il Lungo gli diede una tazza con del caffé nero e forte :
" Dai bevi, poi ci racconti, con calma. " Il Lungo aveva tirato su due figli e si vedeva.
Il ragazzo beveva. Lo guardavamo, tutti. Nervosamente.
" Allora? " La Volpe era scuro in volto.
" Verso sera sono entrati in paese due camion, dopo... dopo che voi avevate finito,... pieni di soldati... "
" E allora? "
" Hanno raccolto un mucchio di persone e ci hanno lasciato due giorni di tempo per dire i nomi dei responsabili o dove possono trovarli, o comunque due giorni a voi per consegnarvi... "
" Due giorni, e poi? E poi cosa si credono di fare?"
" Poi ammazzano i civili del paese." La voce della Volpe suonò piatta.
" Hanno detto che li ammazzano tutti, hanno preso mia madre e mia sorella... "
" Se ha cinque anni, tua sorella!"
" L'hanno presa, vi dico, l'hanno presa!"
" Che si fa? " Il Gobbo si schiarì la voce " Possiamo tornar giù e cercar di liberarli... "
" Sono in troppi. "
" Non ce la faremo mai. "
" In paese pensano che potreste unirvi al gruppo del Negro... "
" Il gruppo del Negro non ce la può fare a raggiungere il paese in tempo, neanche se si mettono le ali ai piedi... "
" E allora? Dovete far qualcosa! "
" Calmati adesso. Vai a riposarti. Noi dobbiamo parlare." Sotto la barba bionda la Volpe era grigio come cenere lasciata su un focolare spento per giorni.
Il Lungo diede una pacca sul dorso magro di Tullio e gli indicò un angolo con una branda rugginosa. Il ragazzo si sdraiò.
" Fuori, andiamo fuori." La Volpe era in piedi, le dita strette a pugno nei palmi delle mani. Uscimmo.
" Non lo faranno."
" Oh, sì che lo faranno! Che vi credete? Che minaccino, così, al vento? "
" Per la miseria, ma se ci sono di mezzo donne e bambini... "
" Non gliene importa niente."
" Sono soldati e i soldati fanno la guerra contro chi è armato come loro. ... "
" Balle! Fottutissime balle! In guerra ne succedono di tutte! "
" Insomma se tiri una bomba da un aereo e quella cade su un paese, ci vanno di mezzo tutti quanti. Ma così è diverso... è ... è a sangue freddo, ecco com'é. "
" E allora? Ce l'hanno il sangue freddo per fare una strage. Non vi ricordate quello che è capitato... e non erano balle! Dicevano che erano balle e invece, ve lo ricordate quanti ce n'erano in quella buca che pareva un cratere? "
" Zitti! " La Volpe era in piedi, come tutti noi, con le spalle girate al capanno, dritto come un fuso, il viso levato verso il cielo scuro della notte. Non distolse lo sguardo mentre pronunciava quell'unica parola. Tacemmo e lo fissammo: era il nostro capo. Ci aveva sempre guidato bene, ci aveva salvato la pellaccia tante volte: lui sapeva quello che si doveva fare, come si doveva fare, sempre. Anche questa volta.
" Non possiamo far niente. " disse.
 
Quella notte la Volpe aveva detto: " Non possiamo far niente. "
E una voragine s'era aperta sotto di me e mi aveva inghiottito nel ventre della terra e mi aveva tenuto ben stretto per impedirmi di tornare indietro, di annullare quelle parole, di dire: " Io vado, non so che cosa farò, come lo farò, ma vado. " Le parole non s'erano mai fatte spazio , avevano preso a spintoni le porte del mio cuore, avevano fatto sobbalzare lo spirito nell'urto, ma erano state ricacciate giù, reingoiate nel profondo della ragionevolezza, del buon senso, poiché sapevo che senso non c'era ad andare a crepare senza speranza di niente, per niente. La ragione me lo diceva di non fare lo stupido, tanto non sarebbe servito. Altri morti, magari eroi morti, certo. Ma non li avremmo salvati. Ascoltai la voce della ragione e l'eco della paura che vedevo negli occhi degli altri. Frustrazione si specchiava nel nostro sentirci inutili, serpeggiava pallida fra le gambe e le braccia, sgusciava dalle dita, si solidificava nel respiro.
 
La Volpe ordinò di togliere il campo, ordinò di disperdersi per la montagna, ordinò al Lungo di portarsi dietro Tullio. Gli obbedimmo.
All'alba il capanno era deserto, il fuoco era solo un due braci stente sotto la cenere che le soffocava, la porta del capanno sbatteva e sbattendo cigolava: stava per scoppiare un temporale. La Volpe era in piedi sul crinale che il vento sferzava e vide l'alba sorgere e lo schiarirsi del cielo mentre il temporale urlava fra i massi ed i rovi, i fulmini s'accendevano in ferite luminose e brillavano per un attimo fra nuvole al galoppo. Poi, in breve, tutto si quietò e il sole comparve a scaldare i monti fradici. Si posò sul petto della Volpe, gli illuminò il volto, trasse riflessi biondi dalla barba, gli ferì gli occhi azzurri dove l'anima si riversava creando immagini di dolore. Allora la Volpe si riscosse, si tolse l'incerata nera, la piegò, ci ripensò, la lasciò cadere a terra, si guardò intorno, il luogo era deserto, si mise il fucile in spalla, si strinse il cinturone militare in vita, e si avviò rapido verso il fondovalle.
 
Il suo cuore correva avanti a lui. Il Vento Lungo era già solo un ricordo.
A volte è molto lunga la strada da percorrere per ritrovare se stessi, spesso è molto difficile spiegarsi il perché si è divenuti quello che mai si sarebbe pensato di diventare, perché si sono accantonati i sogni, perché gli ideali sono stati traditi.
Era giovane allora e si chiedeva perché, mentre scendeva attraverso il bosco, verso il paese, lungo il sentiero dei caprioli. Ma non c'era perché. O se c'era, non lo vedeva.
 
La Volpe era giovane e forte e aveva solo creduto di poter aiutare a fermare lo sterminio che avanzava sulla canna dei fucili, su per i nastri dei mitragliatori, nelle fosse comuni, credeva che i ragazzi avessero il diritto di divenir vecchi. Aveva combattuto. Con fierezza. Di più, con dedizione. Perché aveva creduto che fosse suo dovere.
Scivolò sullo strato di foglie fradice sul suolo, cadde e rotolò per alcuni metri; se ne stette lungo disteso, la bocca premuta contro la terra, impastata di terra, ad occhi chiusi, il respiro corto, cercando di afferrare quel qualcosa cui la mente correva incontro. La mano strinse uno sterpo rinsecchito, contorto, imbiancato da uno strato sottile di muffa. Lo fissò per alcuni minuti come se fosse la cosa più importante del mondo, o forse la più preziosa.
" Uno sterpo, si disse, solo un vecchio sterpo contorto, lo posso spezzare con lo sputo, " La Volpe rise dello sterpo mentre, stringendolo nel pugno, si puntellava con i gomiti e con le ginocchia e si rialzava lentamente. Una volta in piedi, posò lo sterpo con delicatezza accanto al tronco di un castagno, lo guardò rilucere contro il muschio scuro, sembrava irreale, ed in ultimo anche lui si sentiva così, uno sterpo.
 
Ci fu un fruscio alla sua destra, e fu subito in allarme, imbracciò il fucile e contemporaneamente si portò dietro il tronco. Un altro fruscio, vicino, troppo vicino, uno tremito fra le felci alte e gli arbusti.
" Vieni, vieni avanti, fammi un po'vedere che faccia hai. Su! " pensò.
Il cerbiatto era attento, prudente, ma insieme fiducioso. Uscì allo scoperto, un corpo agile, elegante, macchiettato di marrone, occhi enormi, solo due protuberanze indicavano che presto sarebbero spuntate le corna.
Abbassò l'arma e se ne stette fermo, per non farlo fuggire con il cuore a frastornarlo per lo spavento, era una bella bestia. Un nome si formò da solo nella mente, come una bolla di sapone gonfiata dal fiato attraverso una paglia fragile, un pensiero, un ricordo gli balenò negli occhi, ma era stato tempo prima, un ricordo perfetto per un tempo perfetto. Si sa l'innocenza è perfezione. Lo era stata anche per lui, una vita prima di allora.
Si rilassò e rimase fermo nel bosco, sotto i rami di castagno che ancora grondavano gocce di temporale, come stupito che tanta grazia e bellezza ancora potessero esistere. Sentì d'amare quella bestiola.
Ignorava che quello sarebbe stato l'altimo guizzo d'amore che avrebbe provato per tanti giorni e mesi e anni a venire.
Se l'avesse saputo, forse sarebbe stato tutto diverso. Oppure no. Tanta è l'incertezza accucciata nell'angolo del focolare che tutti circonda e fa del vivere un'avventura piena di misteri e di luci e di ombre. Il mondo tondo illuminato dal sole tondo come un'enorme focaccia dorata si addormenta nell'argento della luna e pare che il mistero stia tutto lì, in quel sorgere e tramontare e sorger di nuovo. Ma ci sono gli uomini e gli uomini pensano e a volte agiscono e spesso rompono il delicato ingranaggio che regola le luci e le ombre ed allora quando si giunge al punto, che mai è punto d'arrivo, ma sempre di partenza, gli uomini reagiscono, poiché diversi gli uni dagli altri, in modi diversi e nascono rabbia, amore, odio, tormento ed inevitabilmente la prima vittima è l'innocenza: quella del pensiero, della mente, prima ancora che quella del cuore. La Volpe lo sentiva, oscuramente certo, ma lo sentiva, questo disagio freddo che cantava la fine della giovinezza.
Si sentiva stanco, erano due notti che non dormiva, forse tre e la tensione gli stringeva lo stomaco in una morsa di ferro. Aveva anche paura, per sé e per quello che sarebbe accaduto, che non avrebbe potuto fermare, ci sarebbe voluto un miracolo, ma sua madre ci aveva creduto ai miracoli, lei sì. Riprese a scendere lungo il fianco del monte, mentre il sole incominciava a scaldare i rami alti degli alberi. C'erano pochi pini tutti stretti l'uno all'altro, così che solo le cime che ricevevano luce e calore erano verdi di aghi, il resto dei tronchi era bruno con rami scheletriti color della ruggine. C'erano ciliegi selvatici, querce e castagni e cespugli di felci azzurrine nel vapore che saliva dall'umido. Sentì il ruscello: bene, era a buon punto.
Perché ci andava non lo sapeva. Che cosa avrebbe fatto neppure. Sentiva la voglia di fare piazza pulita, una volta per tutte e che fosse finita. Non era la prima volta. L'aveva già provata quella sensazione di volerci darci un taglio definitivo, compiendo qualcosa di atroce, magari crepandoci nel farlo, ma poi, poi che pace ci sarebbe stata, che quiete e lui non avrebbe più dovuto lavarsi di dosso quel sangue tutto uguale al suo, fisioligicamente uguale.
Si accorse di digrignare i denti.
" Non ne posso più. " si disse.
Continuò a scendere a valle, verso il paese. Dov'era il suo posto, se lo sentiva dentro. C'erano voci che lo chiamavano.
 
 

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Inserito il 4 maggio 1998