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Costanza Chiapponi

classificata alla sezione narrativa del concorso

Marguerite Yourcenar 1996

col racconto:

 

Il gabbiano

 

Il muricciolo tiepido, un po' scrostato e mezzo marcio se ne stava mollemente acciambellato attorno alla chiesa, sfaldandosi a grandi squame d'intonaco, a guisa di una vecchia biscia, che cambia pelle a primavera.

Abbandonate nel sole morente, due ombre, due ragazzine, Sara e Manuela.

Erano immobili, l'una moriva dentro, l'altra già intravedeva una nuova vita, la vita che aveva desiderato.

Il sole esalava orami l'ultimo respiro tra i riflessi di un sericeo orizzonte, una nuova sera si dissanguava ormai sulle enormi case anonime della periferia, grigi alveari fradici di sogni infranti.

Nell'esiguo spiazzo davanti alla chiesa, un gruppetto di bambini giocava rumorosamente a pallone e le loro ombricciole scure attraversavano rapide il cielo in fiamme.

Sara li guardava stupidamente, senza parlare, con un doloroso entusiasmo nel cuore, Manuela tratteneva a stento la lacrima che già le faceva da colletto all'occhio.

Uno stormo di rondini solcò l'incendio che divampava tra le nubi distese della sera e un venticello leggero incominciò a ruzzolare per le stradine, tra i panni stesi alle finestre, giocherellando dispettosamente con i capelli delle ragazze. Avvolgeva i capelli di Sara in mille dolci nodi, in soffici viluppi, le carezzava le guance, come per dirle addio, ora che se ne andava.

Nel guardarla, Manuela si scopriva sempre più sola.

Era come se Sara fosse già distante, su quel maledetto treno che sbuffava sulle rotaie scintillanti e che se l'era portata già via.

Si delineavano già nella sua mente i luminosi salotti profumati, in cui forse un giorno avrebbe suonato, in tutto lo splendore dei loro riflessi sericei.

Sembrava che li intravedesse già, quando aspettavano insieme la vecchia insegnante di pianoforte, la signorina Rosalia, nella stanzetta semibuia che odorava di chiuso e di cucina.

La signorina Rosalia sapeva quanto talento avesse Sara, lasciava che suonasse il suo pianoforte ogni volta che lo desiderava e Manuela la accompagnava sempre, si sedeva e la ascoltava.

«Vedrai, Manu» diceva Sara «un giorno sarò famosa e ricca. Girerò il mondo e ti porterò con me».

Manuela non aveva dubbi che ci sarebbe riuscita, sapeva bene che Sara era un gabbiano, nato per errore in quel pollaio sudicio, un giorno avrebbe preso il volo, per unirsi ai suoi simili. E la grande occasione di Sara era arrivata, le si apriva una strada splendente tutta da percorrere.

Era giusto che Sara se ne infischiasse di lasciarla. Cosa avrebbe potuto darle un'amica come lei? Presto avrebbe trovato compagne di giochi eleganti e raffinate, con i capelli ben spazzolati e le mani candideÉ Si guardò le mani.

Erano ruvide, callose, un po' sporcheÉ Sara non apparteneva al suo mondo, se ne era quasi dimenticataÉ Era giusto che se ne andasse.

Guardò gli occhi di Sara.

Erano occhi celesti, luminosi come il cielo di maggio, così graziosi, fatti apposta per un bel volto come il suo. Era necessario che Sara frequentasse la nuova scuola e dimostrasse quanto valeva al mondo.

Tacevano entrambe, il silenzio non smetteva un attimo di parlare. Purtroppo, come spesso accade, però, quello spudorato mentitore, faceva credere ad entrambe che all'altra nulla importasse della loro separazione.

Gli occhi di Sara percorrevano i profili scuri delle case di quell'angolo di periferia con disgustato affetto, li accarezzava, li schiaffeggiava. Ciascuno di quei muri, di quelle strade, sembrava gridarle tutti i sogni che lei gli aveva confidato, sogni che stavano per realizzarsi.

Tutto sarebbe cambiato e a questo pensiero, la coglieva una gradevole paura.

In un tintinnio metallico di spade, sentiva la gioia del successo e il dolore di abbandonare Manuela, la sua migliore amica, combattere una strenua battaglia nel suo animo.

Era in imbarazzo; avrebbe voluto dire tutto e niente.

Le campane suonarono le sette.

Sara si alzò con una triste stanchezza e porse la mano: «È proprio ora di andare, o non riuscirò a finire le valigieÉ Domattina il treno parte alle seiÉ». Manuela pose la sua mano nella stretta dell'amica: «AlloraÉ AddioÉ Dicono che solo le montagne non si incontrano maiÉ».

«Addio, Manu, e grazie di tutto». «E di cosa? Promettimi una cosa soltanto, che non ti dimenticherai di me».

«Hai la mia parola d'onore! E poi, come potrei?». «Addio» sussurrò ancora Manuela quando già Sara era lontana. Se ne andò rapida e sicura, spiccò il volo, come aveva previsto.

Un brivido gelido le percorse la schiena, sentiva il cuore stretto in una morsa.

Il cielo, nel frattempo si era fatto scuro. I bambini se ne erano già andati da un pezzo. Non se n'era accorta.

Alzò gli occhi e vide una stella, lucente e chiara, la prima stella della sera e a lei affidò Sara.

Si alzò quando vide il fratellino che, gongolando sulle gambotte grassottelle, muoveva, con grande prudenza, qualche passetto nella sua direzione. Lo sollevò, stupita, tra le braccia e lo strinse a sé. «Dove andiamo a quest'ora, tutto solo, signorinello?». Il bimbo rideva a teneri singhiozzi e spremeva gli occhietti in due piccole lune nere. Aveva un volto paffuto, bianco e vermiglio, che profumava ancora di latte.

Con le manine grassottelle afferrava i riccioli della sorella e tirava con forza. Comparve suo padre.

«Papà, ci sei tu, per fortuna! Temevo che fosse scappato!», si sforzò di ridere Manuela con gli occhi ancora intrisi di lacrime: «Sara?» le domandò, invece il padre. «È andata, pà, ha spiccato il volo. D'altro canto, lo sapevo che sarebbe successo prima o poi, lei è diversa da noiÉ».

«Sono certo che non ti dimenticherà» disse il padre abbracciandola «si dice che i gabbiani abbiano una gran memoriaÉ ».

Sulla strada di casa, Manuela restò un po' indietro.

«Spalanca le tue ali, gabbiano,» sussurrò al vento «vola verso una terra felice e non dimenticarti mai di meÉ».

Le sue parole avrebbero raggiunto un gabbiano che invece di tornare a casa, l'aveva seguita fino a quel momento e che ora versava calde lacrime appoggiata al muro freddo di una casa.




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