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Nancy Carols
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Nancy Carols, Lettera a uno strizzacervelli
 
ed. Edizioni Polistampa - pp. 184
Euro 9,00 L.17.426 ISBN 88-8304-395-2

Lettera
A UNO
STRIZZACERVELLI
 
Ho rinunciato all'unico uomo che ho amato, in nome di una moralità che oggi non esiste più: Quarant'anni addietro mi sono piegata alle regole imposte dalla società di allora, oggi mi ritrovo ad avere come solitaria compagnia un fascio di lettere ingiallite dal tempo. Sono tante e pesano nelle mie mani quelle lettere, sono cinquecentosettantadue, la prima è del novembre 1956, l'ultima del dicembre 1959. Ne mancano alcune, non so quante, avevo incominciato a strapparle, poi mi è mancato il coraggio e le avevo buttate alla rinfusa dentro la cassetta di sicurezza di una banca. Sono rimaste chiuse là dentro, sepolte insieme ai ricordi della mia gioventù, quando nella recita della vita io ero attrice, non spettatrice come oggi. Sono lettere d'amore scritte dell'uomo che ho lasciato quando mi sono sposata, quarant'anni fa. Amavo un uomo, ne ho sposato un altro. Ho perduto tutti e due.
Guardandomi indietro, vedo che la mia vita è divisa in due parti, molto diverse nella durata e soprattutto nei sentimenti. La prima parte è stata breve, pochi anni ravvivati dalla forza della gioventù e dall'entusiasmo del primo amore. Alla gioia di vivere si sommava la convinzione di poter vincere qualsiasi battaglia, bastava che lo volessi. La seconda, molto più lunga, è incominciata quando è tramontata l'illusione della vittoria e ho cercato di riguadagnare agli occhi del mondo la rispettabilità che avevo perduto e conquistare la maternità che madre nature mi aveva negato. E' stata una lotta silenziosa per vivere giorno dopo giorno senza guardarmi indietro, una lotta durata per tutti i quarant'anni del mio matrimonio. Non avrei resistito senza il sorriso del bimbo che rientrava nel pacchetto matrimoniale e che ho allevato come un figlio.
Ora sono al tramonto. Mio marito è morto, sono libera di ricordare il passato. Dopo quarant'anni ho riaperto la cassetta di sicurezza e ripreso in mano le lettere d'amore sepolte nel buio per tutto quel tempo. E' stato come scoperchiare il vaso di Pandora, i ricordi sono usciti con tale violenza da farmi stare male, mi hanno squassato la mente. Il contrasto tra le rigide regole della società dell'Italia degli anni Cinquanta e quelle permissive della società di oggi mi ha colpito come una sferzata facendomi dubitare delle mie scelte. Rimpianti e domande senza risposta si sono levati imperiosi, gonfiandosi come i cobra al cospetto del sole.
Il passato mi ha sommerso, riviverlo è stato talmente doloroso da annullare la mia volontà e farmi pensare al suicidio. Ci sono andata molto vicina. Per non sprofondare nel buio e varcare una soglia da cui non esiste ritorno, ho chiesto aiuto, ho cercato qualcuno che volesse ascoltarmi e mi aiutasse a capire se avevo buttato via la mia vita o se vi era un senso nella strada che avevo scelto per obbedire a quello che, allora ritenevo fosse il mio dovere.
Mi sono rivolta a un medico, psicologo e soprattutto amico, uno strizzacervelli di cui posso fidarmi. Mi ha ascoltato, ha incominciato a dipanare il groviglio di sentimenti che battagliano dentro di me. Ma è cosa lunga, spesso non riesco a vincere il disagio nel parlare di me stess. Così lo strizzacervelli mi ha assegnato un compito per l'estate, mi ha detto di scrivergli una lettera, di raccontargli come sono andate le cose, dall'inizio alla fine, niente nascondigli, soltanto la verità.
Ora sto guardando il mare, guardo la grande distesa azzurra sempre in movimento e i miei ricordi affiorano irrequieti come le onde dalla cresta bianca.
Sono nata a Genova, nell'inverno di un anno ormai lontanissimo, i miei genitori erano insegnanti, mio padre maestro elementare, mia madre insegnava musica, un fratello maggiore e una sorellina, una piccola famiglia borghese come tante altre. La guerra cambiò il nostro mondo, a noi piccoli portò via infanzia e fanciullezza. Abitavamo alle porte di Genova, la circonvallazione a monte, che spesso restava senz'acqua, si doveva andarla a prendere con le damigiane alle fontanelle ancora in funzione. Il compito era affidato ai ragazzi del quartiere che tiravano a mano rudimentali carrelli di legno, montati su cuscinetti a sfere che nel ruotare delle biglie metalliche sferragliavano allegramente. La damigiana era legata alla meglio con corde e legacci, tendeva a inclinarsi e scivolare via, si doveva unire la forza di tutti i ragazzi per rimetterla a posto. Con i carrelli si andava a prendere anche l'acqua marina che serviva per cucinare. Mancava il sale, quel poco disponibile veniva scambiato con i contadini dell'entroterra contro qualche chilo di patate o altre cibarie, la maggioranza dei genovesi si accontentava dell'acqua di mare, la minestra aveva un leggero sapore amarognolo, il pane fatto in casa pure. Spettava ai ragazzi andare a prendere l'acqua di mare nel centro della città, in piazza De Ferrari, presso la grande fontana che la guerra aveva reso muta e sporca. Lì arrivava una conduttura direttamente dal porto, una fila di rubinetti, una coda di damigiane in attesa, facili i litigi per accaparrarsi il posto.
Scendere dalla circonvallazione verso il centro era un divertimento, il carrello andava da solo, tirarlo in salita con la damigiana piena era una bella fatica. Io ero piccola, neanche dieci anni, ma aiutavo a spingere. Qualche volta il carrello si bloccava, il carico tendeva a mandarlo all'indietro, correvamo a fermarlo prima che iniziasse a scivolare a ritroso. Legati al fianco della damigiana caricavamo qualche fiasco impagliato o bottiglioni ravvolti negli stracci, da regalare ai vicini del caseggiato che non potevano procurarsi l'acqua marina da soli. La signorina Zerega abitava al quarto piano, vecchia e sola, dal suo appartamentino sparivano via via mobili e ninnoli di valore ma le sue mani erano sempre coperte da guanti traforati in filet nero. Al secondo piano vivevano i signori Palino, due figli sotto le armi, partiti per la Russia e mai tornati. Della guerra ricordo i bombardamenti, le sirene d'allarme, le corse verso il rifugio in galleria, i colpi delle bombe che esplodevano vicine, lontane, ogni scoppio un sussulto, lo spasimo sino a quando non si ritrovava la nostra casa ancora in piedi, il pane così molliccio che della mollica facevamo palline da tirarci addosso con la cannuccia.
La guerra finì. Ci trovavamo a Morigallo, nella valle del Polcevera, sfollati presso una zia che aiutava mia madre a sfamarci. I soldati tedeschi si erano appena ritirati, al loro posto erano arrivate le truppe di liberazione, così le chiamavamo. Libertà un miraggio che riempiva lo stomaco vuoto e scaldava le case dove il freddo irrompeva attraverso i vetri rotti. Le truppe americane attraversavano la città in lungo e in largo, i soldati a cavalcioni delle jeep gettavano tavolette di cioccolato e chwing-gum, grandi e piccoli si precipitavano per raccoglierli e si azzuffavano per conquistare la preda. La gente sembrava impazzita per la gioia, si ballava per le strade, avrei voluto ballare anch'io ma a quei tempi una ragazzina come me era considerata poco più di una bambina. Guardavo gli altri abbandonarsi alla danza e i miei piedi si muovevano da soli. Presto sarei cresciuta e avrei ballato anch'io, mi dicevo sottovoce. Bastava aspettare.
Di quei giorni una scena si è stampata nella mia mente. Un crocchio di gente sulla strada principale di Morigallo, urla e sghignazzate. Mi intrufolai tra le gambe. Alcuni ragazzetti dai calzoni alla zuava tenevano ferme per le braccia tre giovani ragazze, carine se avessero avuto i capelli. Erano rapate a zero, il cranio luccicava, stranamente bianco. Assiepati attorno uomini e donne ridevano e facevano commenti sguaiati, finalmente qualcuno insegnava la lezione a quelle sgualdrine che avevano amoreggiato con i tedeschi. Le chiamavano collaborazioniste, donnacce di strada che meritavano di essere fucilate. Una delle ragazze piangeva, si vedevano le lacrime scendere sulle guance, quella più alta cercava di farsi ascoltare, ripeteva che si sarebbe sposata con il suo fidanzato tedesco appena finita la guerra, che il suo era vero amore. Non la lasciarono parlare, una megera in prima fila le tirò uno sputo in faccia, la ragazza cercò di svincolarsi, un uomo le diede un manrovescio sulla bocca, qualche goccia di sangue le rigò il mento. Le urla salivano di tono, qualcuno gridava che si doveva fare giustizia, subito e senza pietà. I ragazzetti spinsero avanti le ragazze costringendole a spintoni ad avviarsi verso la piazza del paese. La siepe di gente si aprì per lasciare passare la piccola processione che lentamente marciava sotto una pioggia di urla e insulti. Alcuni uomini masticavano tabacco o qualcosa di simile, sui vestiti delle ragazze gli sputi maschili si riconoscevano dal colore marrone scuro. Io scappai via, avevo negli occhi il luccichio delle teste rapate, nelle orecchie le urla che chiedevano giustizia. Non capivo allora, e non capisco neanche oggi, di quale giustizia si trattasse. Capivo che chi sbaglia deve essere punito e che l'amore non giustifica le colpe, tantomeno le cancella.
Passarono gli anni, finii la scuola, mi iscrissi all'università, avevo scelto giurisprudenza, mi sarebbe piaciuto diventare avvocato o magistrato, professioni circondate da un'aureola di gloria, o tali apparivano nei miei sogni piuttosto confusi. Ma presto interruppi gli studi, il trauma della guerra era stato troppo forte e aveva lasciato dentro di sé un solco dove attecchivano pensieri e desideri sino allora sconosciuti. Sete di libertà, ansia di imparare cose nuove, bramosia di conoscere il mondo, negli anni Cinquanta tutto sembrava possibile e a portata di mano anche i sogni.
Il caso mi fece incontrare una coppia di anziani coniugi norvegesi in visita in Italia, ambedue medici in pensione. Mi dissero che per qualche mese mi avrebbero accolto volentieri a casa loro, a Oslo, come ragazza alla pari. La Norvegia, terra di ghiacci eterni, dove il sole sorge a mezzanotte, il freddo del nord contro il caldo del sud, una terra lontana, diversa e tutta da scoprire, le mie gambe si muovevano da sole. Convinsi i miei genitori a lasciarmi partire e me ne andai, felice come può essere una ragazza poco più che ventenne alla sua prima libera uscita. Imparai la prima parola norvegese in treno, takk, grazie.
A Oslo mi trovai perfettamente a mio agio, i bambini tutti biondi, i boschi a perdita d'occhio, i fiori che sbocciavano ed appassivano in una stessa giornata. Sorridi e il mondo ti risponderà con un sorriso, era il mio motto, e così avveniva. Unico problema era la lingua. Mi barcamenavo usando l'inglese, però se volevo visitare l'interno del paese non sarebbe bastato. Presi una decisione drastica, andare a lavorare dove l'unica lingua parlata fosse il norvegese. Sarei stata costretta a impararlo, e alla svelta. I coniugi che mi ospitavano rinunciarono senza esitazioni al mio aiuto nelle faccende domestiche, valeva ben poco, anzi furono così gentili da permettermi di dormire nello studio medico al piano terreno della casa, inutilizzato da anni. Mi coricavo sul lettino delle visite mediche, stretto e duro, ma ciò non mi impediva di dormire saporitamente.
Per trovare le offerte guardai le offerte sul giornale quotidiano più noto, il Dagbladet. Una fabbrica di sacchi a pelo cercava delle operaie, anche senza esperienza. Mi presentai, la mano d'opera scarseggiava e mi assunsero subito. I sacchi a pelo erano semplici contenitori di stoffa, riempiti di piumino e cuciti a macchina con costolature in lungo e in largo. Io dovevo annodare i capi dei fili lasciati penzoloni dalla macchina alla fine di ogni cucitura. Passavo la giornata appollaiata sopra un alto sgabello davanti a un bancone dove una pila di sacchi aspettava la rifinitura. Ho stretto più nodi a quei tempi che in tutta la mia vita. Certo non era un lavoro di concetto ma nella fabbrica nessuno parlava inglese e imparai presto a capire il norvegese e a farmi capire.
Va da sé che appena mi sentii abbastanza padrona della lingua cambiai mestiere. E quale occasione migliore per conoscere la città che di quella di viaggiare sui pullman cittadini? Detto fatto mi presentai alla società di trasporti e venni assunta come bigliettaia. Avevo un'uniforme Kaki, forse proveniva dai residui bellici, e portavo anche un berretto con tanto di visiera. Mi sentivo importante, con quel berretto in testa, ma il lavoro non durò a lungo. Durante un viaggio scesi per salutare un'amica l'autista ripartì senza aspettarmi e io rimasi a terra. Raggiunsi il mio pullman con i mezzi di fortuna ma a bordo trovai ad aspettarmi un ispettore con fiero cipiglio. Mi fece una tale ramanzina che il mio orgoglio mi impose di dare le dimissioni. Non rimasi a lungo senza lavoro, questa volta andai in campagna, presso una fattoria dove due signorine anzianotte ma arzille gestivano un allevamento di galline. Mai visto bestie più stupide e crudeli, se una gallina perdeva qualche goccia di sangue da una ferita, le altre iniziavano a beccarla sino a straziarne la carne e ucciderla.
Durante un'estate i coniugi di Oslo che mi avevano aperto la strada per la Norvegia mi invitarono nella loro casa sui fiordi. La località si chiamava Verdensende, la fine del mondo, e tale sembrava. Una ragnatela di insenature lunghe e strette che si incuneavano nella terraferma, enormi rocce dalla superficie perfettamente liscia che emergevano dall'acqua simili a gigantesche uova plasmate dalla mano di un gigante. La forma affusolata delle rocce, smisurate eppure levigate come seta, offriva uno spettacolo grandioso, un paesaggio irreale creato dai ghiacciai in ritirata verso le regioni polari durante l'era delle glaciazioni, un divertimento della natura e una prova terrificante della sua potenza.
Sui fiordi incontrai Sverre, un giovane del luogo che fumava la pipa e possedeva una grande fattoria con mucche in grande abbondanza. Era piena estate, vicino il polo nord, chiaro di giorno e di notte, alla sera la luce si attenuava ma non veniva mai meno, a mezzanotte si poteva leggere il giornale sul balcone. Sverre aveva una barca, una di quelle grosse barche con la vela quadra come usavano i Vichinghi. Mi portò alla pesca dei gamberi. Mi insegnò a reggere il timone, sgusciavamo in mezzo alle rocce serpeggiando tra le chiazze d'ombra e di luce, quando mi avvicinavo troppo a uno scoglio Sverre si affrettava a impadronirsi del timone e correggere la rotta. Tra una virata e l'altra, cercò di baciarmi e ci riuscì. Era la prima volta che venivo baciata e non mi piacque neanche tanto. Le sue labbra sapevano di tabacco e il suo mento era ispido per la barba dura che mi pungeva le guance. Forse la mia era semplice inesperienza, non ero mai stata baciata sul serio, una situazione incredibile per una ragazza d'oggi. Ma allora erano altri tempi e per di più io avevo un certo timore degli uomini, mi piaceva la compagnia maschile ma non ravvicinata. Forse, come nei sogni infantili, affioravano i ricordi di violenza della guerra, era sempre l'uomo ad imporsi con la forza, era lui a picchiare, era lui il padrone. O, forse, avevo paura dell'amore. Non ero mai stata innamorata e non sapevo neanche cosa fosse in realtà. Fare l'amore, allora si diceva fare all'amore, era una cosa di cui non si parlava nelle famiglie perbene. Il sesso era peccato, in casa non ho mai sentito pronunciare quella parola. Quando da bambina si erano risvegliate in me le prime curiosità, ne avevo parlato alla mia compagna di banco e insieme, in grande segreto, avevamo scartabellato l'enciclopedia per cercare di capire. Le nostre conoscenze non erano andate molto più in là. Crescendo , l'amore era rimasto per me qualcosa di sconosciuto, qualcosa che avrei voluto esplorare ma con qualcuno che mi facesse da guida, con tenerezza. Non l'avevo ancora trovato.
I baci di Sverre mi sono rimasti impressi perché mi pungevano le guance. Ci vedemmo ancora, quando tornai a Oslo dopo l'estate. Una volta riuscii a portarlo a messa nella chiesa cattolica ma era così impacciato che non ci provai più. La cosa finì quando scrissi di lui a casa, annotando che era divorziato. Apriti cielo, in Italia il divorzio era considerato un peccato mortale, mia madre mi mandò una lettera dicendomi di tornare a casa, visto che dimostravo così poco buon senso nelle amicizie maschili.
Partii per l'Italia. Mancavano pochi giorni a Natale, la Scandinavia era investite da tremende bufere di neve, il treno si fermò in una città della Danimarca per far scendere i passeggeri. A bordo rimanendo in pochi fiduciosi in un miglioramento del tempo, ma il treno proseguì per un breve tratto, poi si fermò definitivamente in una piccola stazione. Annunziarono che non si sapeva quando avrebbe proseguito. Erano le due di notte, nel mio scompartimento eravamo rimasti in due, un giovane norvegese diretto in Germania ed io. Scendemmo insieme assonnati, carichi di valigie. Un unico albergo, una sola camera libera, matrimoniale. L'alternativa era una scomoda poltrona nella hall dell'albergo. Il portiere ci guardò con aria interrogativa. A mia volta guardai il mio compagno di viaggio. Ormai conoscevo troppo bene i norvegesi per sapere che non gli sarebbe passato neanche per la testa di cedermi la camera, ma neanche gli sarebbe venuta l'idea di approfittare dell'occasione per mettermi le mani a dosso. Potevo fidarmi. La stanchezza fece il resto. Prendemmo la camera, nel lettone mettemmo due cuscini in mezzo come linea di demarcazione e ci addormentammo saporitamente. Il giorno dopo riprendemmo il treno, ognuno per la sua strada.
A Genova mi trovai stretta in un vestito che mi soffocava, una volta assaporata la libertà era difficile tornare indietro. Volevo stare sulle mie gambe e reggermi da sola. Prima condizione un lavoro che mi permettesse l'indipendenza economica.
Mi guardai attorno, soprattutto in direzione del mare. Dopo la guerra, il porto aveva attirato numerose compagnie di navigazione straniere interessate al forte traffico di merci che si era sviluppato tra l'America e il Mediterraneo. Tra le più rinomate, una Compagnia di Armatori di Stoccolma aveva stabilito a Genova l'agenzia generale per l'Italia di una linea regolare di navi da carico con gli Stati Uniti, affidando la gestione del traffico negli altri porti italiani alle migliori agenzie marittime locali. Venni a sapere che l'agenzia di Napoli cercava una segretaria con buona conoscenza d'inglese e preferibilmente anche di una lingua scandinava. Mi sembrò la manna caduta dal cielo. Telefonai e presi i primi accordi. Pochi giorni dopo partii per Napoli. Non sapevo che stava per iniziare la parte più importante della mia vita.
 
Novembre 1956
...ti ho fissa nella mente, tu sei diventata la mia medicina, la mia morfina, e io che ne sono ammalato non riesco a farne a meno... noi spesso ci siamo domandati se era valsa la pena buttarsi in questa relazione e entrambi abbiamo convenuto che tornando indietro avremmo ripetuto esattamente tutto. Io credo che, per quello che mi riguarda, poche volte sono stato così sincero. Il mio pensiero è rivolto costantemente a te, le rose che mi hai lasciato sono sempre con me e sembra si facciano sempre più belle, io continuo a insistere a volerti sempre più bene, a pensare che se stata l'unica che ha fatto parlare il mio cuore e che mi ha fatto vivere ore, giornate e periodi veramente belli, il ricordo del tempo trascorso con te in assoluta felicità mi appaga di tutto...
...vorrei tenerti stretta tra le mie braccia, rannicchiata sulle mie ginocchia, quante volte chiudo gli occhi e rivivo questi momenti, ricordo il profumo delle ginestre, dell'erba e quello più bello dei tuoi baci...
 
 
Sono sicura che il mio strizzacervelli brontolerà al vedere che ho inserito brani scritti da un'altra persona nella lettera indirizzata a lui. Dirà che sono disordinata e che ho creato della confusione. Forse ha ragione, ma non ho potuto farne a meno. E continuo. Trascrivo qui sotto alcuni brani di altre lettere, scritte tre anni dopo, sono le prime e le ultime che ho ricevuto dall'uomo che si era preso il mio cuore.
 
 
Dicembre 1959
...è dicembre, sta per finire l'anno, un anno pieno di pensieri e di contrarietà, ma tu sai come io ti voglia sempre tanto bene, forse è un bene che va al di là di ogni comprensione umana, un bene puro e sincero che non desidera altro che saperti felice. Tu sei sempre nei miei pensieri con tanto amore, la tua felicità e la mia felicità. Vorrei poterti avere vicino per dirti tutte queste cose, ma tu le sai, tu sai la gioia che provo nel sentire la tua voce, nel stringerti tra le mie braccia...
...una cosa è certa è che ti voglio bene, credo che non ci sia bisogno che io faccia alcun giuramento perché tu mi creda, è un bene che viene spontaneo e dall'anima, quando ti stringo tra le mie braccia mi sento felice e sereno... sei troppo nel mio sangue, sei troppo una cosa che mi appartiene per non desiderarti con tutte le mie forze. Tu mi hai detto che andiamo all'inferno, ebbene sono contento di andare all'inferno per te...
 
 
Ho messo vicine queste lettere perché nel rileggerle mi ha colpito quanto simili nel tono, nelle parole. Tra la prima e le ultime erano passati tre anni, eppure le espressioni erano pressoché uguali. Amore e passione inalterati, il tempo non li aveva scalfiti.
Oggi, a distanza di quarant'anni, mi domando come io abbia potuto calpestare quell'amore, perché abbandonare il mio Gabibbo. Allora non lo chiamavo così, il soprannome è venuto dopo. Allora, quando sono arrivata a Napoli, era il commendatore B. capo e proprietario dell'agenzia marittima che mi aveva assunto per telefono.
A Napoli arrivai in primavera, la primavera del 1955. Le ferite della guerra erano ancora aperte, case sventrate dai bombardamenti, palazzi puntellati, macerie nei vicoli. In rada sottostavano le navi della marina militare americana, i marinai sciamavano a terra e si facevano belli delle impeccabili divise bianco-latte dai larghi pantaloni a zampa di elefante. A grappoli gli scugnizzi li circondavano per chiedere sigarette e chewing-gum, i marinai ridevano e gettavano a pioggia gomme da masticare e tavolette di cioccolato. Sui muri dei vicoli erano ancora ben visibili le scritte "Off limits" a caratteri neri sul fondo di calce bianca, gli scugnizzi facevano da guardia quando i militari americani si infilavano nelle zone proibite, pronti ad avvertirli se si avvicinava qualche pattuglia di polizia. Miseria e degrado dappertutto, tuttavia la città serbava memoria di essere stata la capitale di un regno ed era ricca di negozi di libri quanti Genova ne aveva di argenteria.
Mi presentai al lavoro. L'agenzia era una delle più importanti di Napoli e aveva sede in una via centrale, al primo piano di un palazzo solido e dignitoso. Un impiegato mi introdusse nella stanza del principale, a destra dell'ingresso, la prima porta nel lungo corridoio che attraversava l'intero appartamento. Da quella stanza si poteva vedere chiunque entrasse e uscisse, ugualmente si era sotto gli occhi di tutti. La porta era aperta, l'ho sempre vista così mai chiusa. Al centro del vano, con le spalle alla finestra, una scrivania massiccia sommersa dalle carte. Dietro, un uomo altrettanto massiccio, capelli brizzolati tagliati corti, lineamenti marcati, non bello ma con un'aria di tranquilla sicurezza. Quando rideva, una rete di piccole rughe gli si formava attorno gli occhi. Seppi poi che aveva una cinquantina d'anni circa venticinque più di me.
Nell'agenzia erano impegnati numerosi impiegati, impiegate, commessi e fattorini. Seppure per suo conto, vi lavorava anche il figlio del principale, il dottor Gianluca, un giovanotto poco più anziano di me, sposato con due bimbetti molto piccoli.
Era il commendator B. a dirigere l'attività nel campo delle spedizioni marittime. Fiore all'occhiello la linea regolare di navi da carico della Compagnia di Stoccolma che collegavano il Mediterraneo con gli Stati Uniti, navi nuove, veloci, con stive munite di impianti di ventilazione, celle frigorifero e attrezzature per accelerare lo stivaggio, adatte al trasporto dei prodotti ortofrutticoli provenienti dall'entroterra della Campania. A seconda della stagione, a Napoli caricavano i pomodori, cipolle castagne e altre specialità nostrane che il mercato americano assorbiva con facilità e che formavano il traffico più ambito per il nolo più alto. La concorrenza era forte, nel porto facevano scalo numerose linee regolari cui si aggiungevano gli outsider, come venivano chiamate le navi charter noleggiate secondo la richiesta del momento. Agli agenti marittimi il compito di trovare la merce per riempire il capace ventre delle navi, anche a costo di corteggiare i proprietari dei carichi con mezzi più o meno leciti. Già allora i regali sottobanco avevano una lunga tradizione.
Il commendator B. era maestro nel condurre le trattative: quando un cliente veniva in agenzia, lo faceva accomodare nella poltroncina di fronte alla sua scrivania e con infinita pazienza lo lasciava parlare degli argomenti più disparati, soltanto quando arrivava il ragazzo del bar e il profumo del buon caffè napoletano veleggiava come una nuvola, soltanto allora attaccava il discorso della quantità di merce da imbarcare e delle modalità del carico.
Queste le notizie che raccolsi già nei primi giorni del mio arrivo a Napoli, mentre cercavo di orientarmi in un ambiente sconosciuto e di barcamenarmi in un lavoro ugualmente sconosciuto, per me le navi avevano una prua e una poppa e le mie conoscenze non andavano oltre. Con una punta di malinconia, alcuni colleghi sottolinearono che a portare burrasca nell'andamento degli affari provvedeva Genova che spesso approfittava della posizione di agenzia generale per accaparrarsi spazio nelle navi secondo le proprie esigenze, scavalcando le richieste degli altri agenti. Oltre all'antica ruggine tra i campanili del nord e del sud, Napoli rivendicava il posto di secondo porto italiano e protestava più forte di tutti. I comandanti ritenevano loro dovere, e piacere, riportare pettegolezzi da un porto all'altro, i rapporti tra Genova e Napoli subivano impennate di malumore, in un alternarsi di scontro e armistizio a seconda del volume del traffico e del margine di guadagno.
Io ascoltavo e imparavo. A parte la mia ignoranza, mi trovavo bene nel ruolo di segretaria, il signor B. (gli chiesi se potevo chiamarlo così troppo lungo il titolo di commendatore) mi dettava le lettere che stenografavo e battevo a macchina, traducendo la corrispondenza estera. Il lavoro mi piaceva e giorno dopo giorno cercavo di imparare il ritmo di chi lavorava con un piede a terra e l'altro in mare. All'arrivo delle navi della Compagnia mi rendevo utile facendo da interprete ai membri dell'equipaggio, li accompagnavo a fare acquisti per la famiglia e trovare i souvenir locali, la collana di corallo per la moglie, la maschera di pulcinella per il figlio. Poi salii di grado e il signor B. mi chiese di accompagnare anche gli ufficiali nei loro giri per la città.
Quando presi sicurezza nel disbrigo delle pratiche marittime, il principale iniziò a condurmi con sé a bordo delle navi. Portavo la posta all'equipaggio, i permessi di imbarco e sbarco, prendevo nota delle richieste del comandante, delle necessità di valuta italiana, delle pratiche consolari da sbrigare, delle visite mediche da mettere in programma. Quando avevo tempo gironzolavo per la nave e curiosavo dappertutto, ogni angolo una scoperta. Salire e scendere dalle navi era per me una conquista, avevo tutto il mare a portata di mano.
Non sempre mi andava liscia e l'inesperienza mi giocava brutti tiri. Ricordo quando il signor B. mi chiese di accompagnarlo a bordo di una nave ancorata in rada in attesa di entrare in porto appena si fosse liberato un posto in banchina. Non ci pensai due volte a seguirlo. Salimmo sul motoscafo del pilota, tra schizzi di spuma ci avvicinammo alla nave. Nessuno mi aveva avvertito che per salire a bordo non vi era la solita scaletta fissa ma avrei dovuto arrampicarmi sulla scaletta volante appesa alla fiancata della nave. Quando il motoscafo si avvicinò e me ne resi conto, mi prese un accidente. Indossavo una gonna come si usava allora, i pantaloni femminili erano ancora merce sconosciuta. Sotto la gonna avevo calze e reggicalze, il collant era ugualmente sconosciuto. Se mi fossi arrampicata sulla scaletta così com'ero, la descrizione dei miei indumenti intimi avrebbe fatto il giro di Napoli. Per fortuna la mia gonna di stoffa leggera. Con fare noncurante, quasi fosse la cosa più naturale del mondo ne annodai le estremità in mezzo alle gambe, un bel nodo con le cocche all'infuori tipo uovo di Pasqua. Sembrava che indossassi dei mutandoni sbuffanti, come le brache dei Tre Moschettieri. Non credo mi avrebbero dato un premio a una gara di eleganza, però riuscii ad arrivare senza incidenti sulla tolda della nave.
Quando alla mia vita privata, non ne avevo proprio. Passavo tutto il giorno in ufficio, all'una andavo in un piccolo bar delle vicinanze per mangiare due arancini e un pezzo di pizza, spesa totale lire trecento. Poi mi fermavo al chiosco delle bibite, vendevano sfusi sia aranciate che limonate e chinotti, cinquanta lire al bicchiere. Il garzone tuffava il mestolo dentro il secchi e riempiva il bicchiere. Usava sempre lo stesso mestolo, ma prima di tuffarlo nell'altro secchi lo scrollava con cura.
Alla sera andavo direttamente a casa. Avevo trovato una camera in affitto presso una signora vecchia e gentile, un tempo ricca possidente, ora costretta a prendersi inquilini. Era sola, unico passatempo il gioco delle carte, ogni sera giocava con gli amici sino a tarda notte e l'odore del fumo stagnava nell'appartamento. Spesso azzardava puntate troppo alte, al di sopra dei suoi mezzi. Quando perdeva molto, al mattino mi chiedeva se volevo comprare un pezzo di argenteria.
Era l'ufficio la mia vera casa. Con i colleghi, uomini e donne i rapporti erano cordiali ma nulla di più, mi consideravano una "straniera del nord" e credo vedessero in me un'intrusa troppo intraprendente. Più facili i rapporti con clienti e visitatori, mi guardavano con occhio curioso ed era naturale che qualche maschi napoletano tentasse degli approcci. La mia vanità ne era lusingata e l'uniforme per l'ufficio mi suggerì un pizzico di malizia. Secondo le regole di allora, tutte le impiegate dovevano indossare un grembiule nero, una lugubre palandrana che faceva sembrare le donne sacchi informi. Semplice aggirare l'ostacolo indossando gonna e maglietta, neri ma aderenti, malizioso approfondire la scollatura a punta con qualche colpetto di forbice. Ho sempre avuto la pelle molto bianca, pelle di camelia era il solito complimento, e mi divertiva vedere come gli sguardi maschili fossero attratti dal contrasto tra nero e bianco della mia scollatura, sembrava volessero sprofondare nel pozzo candido che appariva e spariva.
Qualcuno dei miei ammiratori si spinse più avanti. Il giovane proprietario di una fabbrica di conserve di pomodoro mi portava dei vassoietti di dolci napoletani, tanto per conoscerli e gustarli, mi sussurrava. Un altro ammiratore era il commendator De Chiara, un vero commendatore con tanto di pancia e occhi liquidi. Nella mia scollatura avrebbe volentieri infilato un fiore, magari anche d'oro, se lo avessi ascoltato.
I complimenti mi divertivano, ma non ho mai accettato di uscire da sola con i miei ammiratori. Non mi fidavo. Appena una conoscenza maschile minacciava di diventare più stretta, si svegliava in me una tale diffidenza da farmi indietreggiare. L'amore restava qualcosa di nebuloso che desideravo e temevo nello stesso tempo, comunque irraggiungibile.
Passò l'estate e venne l'autunno.
Non ho ricordi ben precisi di quel periodo, salvo che ero sempre in movimento e mi sentivo libera come mai ero stata prima. In Norvegia avevo avuto un assaggio di libertà, ora ero veramente padrona di me stessa e la vita mi si apriva davanti come un campo da esplorare e conquistare. Bastava lo volessi.
Anche sul piano personale il mio orizzonte si allargava con nuove conoscenze. Mi recavo spesso all'agenzia di viaggi vicina al nostro ufficio per acquistare biglietti di treno e aereo per l'equipaggio delle navi e tra una chiacchiera e l'altra strinsi amicizia con l'impiegata addetta alle prenotazioni. Era una napoletana verace, sapeva leggere la mano e dava consigli a tutti sul come raggiungere la felicità. A me raccomandava di non lavorare troppo, di non sacrificarmi, dovevo divertirmi, andare a ballare, secondo lei il ballo era il miglior toccasana per qualsiasi guaio o malattia. Mi presentò due ufficiali del Comando Marina di Napoli, simpatici, sempre in coppia e in concorrenza tra di loro. Mi fecero la corte ambedue, credo che avessero scommesso chi riusciva a conquistarmi per primo. Ammetto di avere molto ballato e molto civettato con loro, ma perdettero la scommessa tutti e due.
Per quante divagazioni mi permettessi, il lavoro restava il fulcro della mia vita e l'ufficio la mia casa. Guardandomi indietro, mi rendo conto che ciò avveniva non per puro caso ma perché il mio cammino veniva facilitato, le curve rese più dolci, gli angoli smussati. Qualcuno si preoccupava con pazienza di spianarmi la strada e guidarmi nel lavoro quasi fosse un gioco. Facile indovinare come questo qualcuno fosse il signor B., mio nume tutelare dal giorno in cui ero arrivata a Napoli. Nell'agenzia tutto gravitava intorno a lui e io divenni un piccolo pianeta che gravitava attorno all'astro maggiore.
E' probabile che all'inizio le sue cortesie fossero dettate dal vivo senso di ospitalità che caratterizza i napoletani e dalla loro generosità d'animo. Ero sola a Napoli e lontana dalla famiglia, naturale che il principale si preoccupasse per me, anche perché mi apprezzava come segretaria ed era nell'interesse dell'agenzia mantenere la mia collaborazione. Credo proprio che da principio fosse semplice benevolenza verso una dipendente, piccole attenzioni che mi facevano sentire necessaria e lusingavano il mio orgoglio.
Tutto era alla luce del sole, tanto che incontrai più volte sua moglie, una signora dalle sopracciglia disegnate con la matita nera che le davano un'aria di bambina invecchiata senza gioia. A sentire le malelingue, il matrimonio si reggeva per forza di abitudine e per salvare le apparenze, il principale andava a casa soltanto per dormire. Alla moglie non sembrava importargliene più di tanto, importante era appartenere al Circolo della Vela assieme alle altre signore della buona società napoletana e avere la poltrona al teatro San Carlo per la stagione operistica, un obbligo mondano da adempiere a costo della vita. Si chiamava Maria, nome comune, troppo insignificante per lei, si faceva chiamare donna Maria, più adatto a una signora che frequentava la nobiltà cittadina. Quando ci incontravamo non mi degnava di molta attenzione, aveva soltanto osservato che la mia uniforme era poco adatta per la segretaria di un'importante agenzia marittima quale quella del marito.
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Inserito il 16 febbraio 2002