Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Anna Maria Fabiano
Il colore del mare

Prefazione
 
Non si anticipa nemmeno per accenni la trama di questo romanzo, da leggere con le ansie interiori e la curiosità dell'esistere. Il primo rigo pare annunciare un romanzo persino con sorprese del "giallo", tutto urbano con una città che può essere New York come un villaggio dell'anima. Tutto realtà l'ultima frase che può concludere una trama di eros mistico. Meglio di misticismo del corpo, che significa nuova civiltà del corpo. Anna Maria Fabiano, che si impone con questo libro nella narrativa della sua generazione, ha voluto scrivere e far rivivere le cose, appena accennate, in un insieme inseparabile. Ha scritto un romanzo di polivalenze continue, in cui convergono strutture e soluzioni di una genetica antichissima, eppure tutta avveniristica. È la sacralità del femminile. La Mater-Amante viene riproposta allo specchio di una dualità che sviluppa un gioco narrante in cui una Lei- l'infinito autoritratto di ogni scrittore che sia leale- è un'altra Lei, sì che i personaggi nel dramma dello scontro sono anche una unità. L'intreccio del libro si gioca su una verità che alla fine diventa nostra. Anna Maria Fabiano universalizza sentimenti e verità pur aspre. Rivolta e tradizione, parallelo di guerra e pace, sono sfondo costante di un narrare coraggioso. Il sottofondo culturale viene rielaborato con autonomie di linguaggio e di passaggi narranti, rivelando attenzione d'intelligenza verso la grande narrativa moderna. Con sullo sfondo il buco azzurro di Freud. Tutto, però, si acquieta in un "colore del mare" che siamo noi, nella festa della vita. Colore senza colore e tuttocolori tanti da sembrare inesistente. In questo "colore del mare" auguriamo al lettore un "naufragar dolce", pur se il mare-vita è tempesta. Come nella trama di questo romanzo.
 
 
"Il colore del mare" di Anna Maria Fabiano- ed. Gangemi Roma 1999
 
 
Capitolo primo
 
"Pesante e misteriosa la nebbia fitta avvolgeva la grande città. Al mattino il gelo era rigido e pungente mentre lì, alla fermata del tram, lei attendeva immobile e mesta. La mano, irrigidita dal freddo, accarezzava nervosamente la borsa. Una sordida casa al pianterreno la accoglie con un tepore impregnato di odori malsani. All'entrata, su un pagliericcio travestito da cuccia, giace una cagnetta cieca che abbaia a tratti, ma senza convinzione, rivolgendo, per uno strano istinto ancora all'erta, i suoi occhi spenti verso la soglia. In fondo, su una minuscola veranda, volatili di ogni tipo si dibattono disperati nelle loro gabbie di ferro e, oltre una tenda sporca e scolorita, s'intravede quella che dovrebbe essere una cucina. Seduta al tavolo, la vecchia sparge con mano esperta ma nervosa, le sue carte da gioco. Sono interprete inconsapevole del vostro destino che conosco. Io so. Io conosco l'umanità. Sono trent'anni che leggo le carte e ne ho sentite tante. Io conosco l'umanità. Io capisco. Io so. Nella buia anticamera la cagnetta rassegnata si lecca il pelo coperto di pulci, mentre la vecchia cartomante si gratta la testa fra un gioco e l'altro. Io conosco. Io so. La finiranno questi preti maledetti di rovinare l'umanità. E' scritto. Mille e non più mille. Mi avete crocifisso, ma non durerete a lungo. Io lo so. Crisi e ancora crisi. E disoccupazione. Io non ci sarò più. Ma io so. La sua bocca proferisce parole e ancora parole, mostrando gengive prive di denti, mentre gli uccelletti emettono suoni strazianti, avidi di libertà e la cagnetta cieca punta invano gli occhi spenti verso quei suoni. L'odore malsano grava su ogni oggetto. Impregnerà abiti e sigarette, capelli e pensieri, riempirà angoli vuoti di una mente assetata di conoscenza. La reincarnazione...forse, ma non so...ho paura! So, sento che qualcosa c'è, ma non l'inferno per carità, preferisco rinunciare al paradiso, purché non ci sia l'inferno. Qualcosa c'è, ma perché esiste l'essente e non il nulla? Avrò un figlio? Uno solo...una sola ?Gli occhi vuoti della vecchia cartomante si tingono per un istante di interesse, a contatto con quei pensieri rimbombanti. Avrai un figlio...forse...o forse solo un'idea di figlio o di figlia. Ma che follia, che follia l'umanità. Crisi, crisi e ancora crisi. Ne vedrete delle belle. Io non ci sarò più. Ma io conosco. Io so. Sono trent'anni che viene da me l'intera umanità e tutta la città. Tutto è segnato, tutto è detto, tutto andrà come sta scritto. DESTINO SOLDI VINCITA SICURA LA MADRE IL DESTINO SI COMPIE TRADIMENTO VIAGGIO FORTUNATO E LEI LEI... Urla la vecchia cartomante, madida di sudore puzzolente! La LUPACCIA, la lupaccia tornerà, ma per morire. Non avrà lunga vita, non questa volta. Si reincarna chi commise del male. Non una vita, non una sola è sufficiente per capire, per raggiungere il BENE SUPREMO. Due uomini? Uno fugge, l'altro sorride. Uno decide, l'altro soccombe. Una bimba dagli occhi adulti, una donna dal cuore di bambina...tanta strada, tanto dolore, tanta oscurità prima della luce. Mentre fuori la nebbia fitta e silenziosa nasconde il buio della notte, la fragile incertezza del domani avvolge il suo cuore malato. Cosa voglio io? Io voglio capire, capirmi, cerco me stessa e non mi trovo. Voglio sapere cosa è giusto, se esiste Dio, se l'amore può durare, se gli schemi uccidono l'amore, se la vita ha già la sua anima, quando si formano le sue prime cellule. Voglio sapere cosa nasconde la nebbia, se il sole esiste davvero o se anche lui non è che una proiezione della mia fantasia morbosa. Il cielo è bianco. Non si vedono le stelle. Le stelle dove sono, dove sono, dico, qui nella città bianca e nebbiosa. Se si alza il vento, il vento scuote la nebbia e la nebbia se ne sale lentamente portando via, sulla sua slitta evanescente, i rigidi rigori del nord. Dove sono le stelle, le mie stelle, la mia luna, la..."Eva depose la penna: la sua mano era rigida e indolenzita. Un rapido sguardo attraverso la finestra della sua stanza le disse che ancora la nebbia persisteva tenacemente Rilesse le pagine scritte, sorrise di se stessa, guardò con simpatia la scatola dei Tavor, ora che non ne aveva bisogno. Era domenica e in quel giorno e a quell'ora la vecchia signora era fuori con le sue amiche eleganti, a sorseggiare un caffè lungo...parecchie ore, in via Cernaia. Una volta era passata di lì con Marion e, non viste ovviamente, avevano riso di quel gruppo di vecchie incartapecorite che ostentavano larghi sorrisi bianchi di dentiere e gesticolavano con mani inanellate, sognando la città di un tempo, la "città bomboniera", la "città salotto" ormai lontana, così devastata com'era dalla delinquenza e dai cattivi meridionali. Poi Eva si era sentita rimordere la coscienza, per aver deriso clandestinamente la vecchia padrona di casa, in fondo buona e affettuosa con lei. Guai però a parlarne con Marion, per la quale era inaccettabile l'idea che si potesse vivere con una persona anziana e addirittura divertirsi a volte a giocare a carte o chiacchierare con lei. Eva rilesse per un'ennesima volta i suoi appunti, tentò di riprendere a scrivere, ma invano. I suoi pensieri erano rivolti al suo profondo desiderio di diventare una scrittrice, insomma di esserlo ufficialmente e non solo nell'intimo della sua vita interiore. Mai, infatti, come in quel periodo, la penna scorreva frenetica e creativa fra le sue dita lunghe e nervose. Era finalmente uscita da un lungo periodo di torpore, ma ancora a tratti la noia esistenziale si sovrapponeva a qualsiasi altra sensazione e tutto riscivolava nel buio più buio che non dà tregua né il benché minimo ritaglio di speranza. Squillò il telefono. Era Gino, il siciliano. Le chiedeva se volesse andare con lui e gli altri a ballare nella solita "sala di liscio". No, non ne aveva voglia. Gino era contrariato. Ma se sta sempre lì, chiusa nel tuo guscio, a pensare e ripensare...eh...non va bene che tu lo fai! Decisamente se la cavava male con l'uso delle forme verbali, ma in compenso aveva tante altre buone qualità: era generoso, disponibile, allegro e coinvolgente. Purtroppo, per Eva ovviamente, aveva anche troppa voglia di accasarsi. Abbiamo detto ovviamente. Sì, perché bisogna subito dire che Eva non aveva mai considerato il matrimonio in modo concreto. Aveva fluttuato incoerentemente tra le onde di un mare placido e burrascoso nello stesso tempo: essere madre di dieci mocciosi o una donna affascinante ma solitaria, accudire un marito vedovo, infelice e maturo oppure condurre una vita spregiudicata da libertina, viaggiare per il mondo in cerca di esperienze variopinte oppure, tenerissima filantropa, occuparsi di problemi umanitari, gestire ospizi, orfanotrofi oppure grandi alberghi famosi. Che adolescenza assurdamente variegata! Sogni complessi, mille ruoli diversi e tanti amori vissuti sempre e solo nella fantasia. E parallelo il rifiuto di storie normali con ragazzi della sua età o perché troppo semplici o perché troppo impegnative, o forse appunto perché non sapeva vivere se non nei suoi romanzetti fantastici, che erano mille volte più intriganti delle storie reali. Da grande si era persa in rapporti senza costrutto, cercando invano anche una semplice fotocopia sbiadita di quei sogni, amando cento, mille, infinite volte...e poi una sola, dolcissima e maledetta, e degradata ormai in morbo. Ed ora ecco il presente. Un presente che narreremo passo passo, mentre Eva vive la sua dolorosa convalescenza, "viaggiando" sola e coraggiosa tra tentazioni poliedriche, scelte difficili, foglietti macchiati di prose e poesie che non si distinguono molto fra di loro, pastigliette di Tavor che non basterebbero più, ma lei le fa bastare perché sì, nonostante tutto sa puntare i piedi, pur sapendo di farlo su sentieri coperti di spine. Intanto ci sembra importante parlare ancora del suo grande amore per lo scrivere che poi in lei è un'esigenza profonda di comunicare, di raccontare, soprattutto di evidenziarsi: sì, la nostra Eva è una egocentrica incorreggibile che, tutto sommato, finisce sempre con l'innamorarsi della propria interiorità, senza rifiutare l'inevitabile conseguenza della perdizione e dell'annientamento psicofisici. Aveva cominciato fin da bambina, sciorinando rime religiosissime all'insegna di una fede creduta autentica; si era poi persa in decine e decine di diari pignoli e minuziosi e in novelle melodrammatiche le cui protagoniste, quasi sempre sue compagne di scuola, erano a metà tra le eroine dei romanzi d'amore ottocenteschi e quelle dei fotoromanzi a puntate che in quegli anni andavano tanto di moda. Poi erano venute le poesie, delicate e profonde, sature di doloroso scavo interiore che avevano contribuito ad esacerbare quella tendenza all'autolesionismo, alla ricerca leopardiana di un significato, di un motivo duraturo, di qualcosa di afferrabile nell'inafferrabilità delle emozioni. Una volta era stata persino premiata. Così, un bel giorno, le era arrivata quella lettera. "Lei è stata scelta... Ha vinto il primo premio di ecc... Giorno tot nella sede del Circolo culturale tot ci sarà la premiazione ecc. "Dio, che gioia profonda alla sua giovane età! Che momenti intensi e travolgenti possono a volte raddolcire l'esistenza più ammalata di cronica malinconia. Un dono inaspettato, un attimo di stupore... sentire che forse non sei nata invano, che anche la sofferenza ha un corrispettivo, che la tua poesia, quella per la quale hai consumato tante notti di solitudine, ha toccato il cuore di qualcuno e per questo ti premiano, non per altro, perché hai sofferto, perché hai consumato il tuo furore creativo e, come il Goethe di Thomas Mann, "sei stato simile alla candela che consuma il suo corpo per far luce". Già, ma tutto passa, nel bene come nel male, ed Eva conservò nel cassetto la sua lucida medaglia, offerta dal politico di turno, che ha fregiato del suo nobile stemma il Circolo Culturale anonimo di un piccolo paese di provincia, il quale aspirerebbe ad innalzarsi dalla sua mediocrità e a protendersi verso un destino più glorioso. E poi invece erano venute quelle mille storie senza consistenza e con esse lunghe lettere appassionate a interlocutori senza volto o con volti occasionali, prestatiti inconsapevolmente alle pretese di un'anima "diversa" che ha sete di colorarsi, di espandersi, di arricchirsi, di riassumere in una mille coscienze, mille anime, mille volti. Eva aveva "prestato" a sua volta, anche se sempre parzialmente, il suo corpo e la sua mente affinché loro provassero il sapore della follia, a contatto di una "donna vera" (come solevano definirla) che sa dare tanto e pretendere poco, che sa innalzare al cielo o gettare nell'abisso della nevrosi, che sa far innamorare ma poi, in un attimo, sa perdere tutto e tutti, forse perché non sa bluffare, o perché è troppo impegnativa, o perché, chissà, forse alla lunga l'uomo del momento si accorgeva, inorridito, di essere stato solo un'occasione mentale, una ennesima possibilità di riflessione esistenziale, o peggio... una futura poesia. "Un giorno mi immortalerai in un romanzo?" le aveva chiesto un pittore di provincia, che da anni inseguiva il sogno di diventare parte della sua essenza "erotico-spirituale" e che per lei invece era solo un momentaneo interlocutore. "Non voglio diventare parte del tuo archivio sentimentale ordinato e perfetto, troppo perfetto" si lamentava il debole compagno di effimeri incontri all'insegna di un malinconico bovarismo. "Ti ho amato per la tua fervida fantasia, ma mi fai paura, perché sezioni i sentimenti e li trasformi in concetti" aveva detto un giovane uomo romantico che cercava disperatamente di trasformare Eva in una donna borghese. Eva vincente, Eva perdente: due volti di una sola terribile medaglia. Una donna amata e abbandonata e poi forse, chissà, amata nel ricordo di quella sua essenza ordinata e caotica nello stesso tempo. "Non ti ho mai dimenticata, sai? Non ho potuto provare con le altre quello che ho vissuto con te". Così spesso si sentiva dire, quando occasionalmente rivedeva gli uomini che aveva frequentato sia pure solo per una semplice "amicizia amorosa". E lei si sentiva felice ed infelice, entusiasta e disperata, mentre le facce della sua medaglia esistenziale si moltiplicavano all'infinito.
Così scriveva di tutto ciò: costruiva racconti schizofrenici che ritraevano una strana protagonista sdoppiata e multipla, che si frammenta in mille donne diverse e però, in un angolino di se stessa, continua a sognare assurdamente una vita "normale", un uomo da scegliere come compagno definitivo, dei figli da allevare, una concretezza palpabile entro la quale racchiudere l'anima, creandole un sereno accogliente cantuccio. Scrivere e meditare: un binomio indissolubile, una trappola, una gabbia senza sbarre da cui si potrebbe, ma forse non si vuole, uscire. Perché ogni volta che si ripresentava un'occasione appunto tranquilla, una possibilità di fermarsi, Eva fuggiva terrorizzata e si rifugiava nel suo disordine, delusa da se stessa e nello stesso tempo stranamente felice di essere com'era .Così ad un certo punto si convinse che il matrimonio tradizionalmente inteso non faceva per lei, perché chiusa in un rapporto appunto "normale" forse avrebbe finito con l'impazzire o con il far impazzire l'altro. Forse chissà quella donna che sognava di sposarsi, avere tanti bambini e occuparsi di faccende domestiche altro non era che una delle tante protagoniste dei suoi romanzi mentali. E si convinse che l'amore non era che un sogno e quello cosiddetto "vero" poi solo una stupenda follia. E che matrimonio e amore non hanno alcun rapporto fra loro .E addirittura che l'amore non era neanche un sogno, ma solo una coloratissima bolla di sapone. Ma poi quella bolla di sapone si era per incanto materializzata. Era arrivato l'amore vero, quello che, tu lo senti, durerà per sempre. Quello che ti induce a donarti tutta intera, che ti ispira pensieri di pace, di giustizia, di eternità. Che ti spinge a fare mille sacrifici per chi ti ha posto al di sopra di tutto, considerandoti l'unica ragione per cui valga la pena di vivere .A questo amore lei aveva creduto come suol dirsi "ciecamente": era nodoso, difficile, complesso ma diverso. Diverso e nobile. Si erano conosciuti per caso, in una dolce giornata primaverile, quando maggio sa donare profumi intensi e promesse di felicità infinita, quando tutto, proprio tutto, spinge a credere che il buio sia finito e con lui il relativo, la maledetta bestia dai mille artigli che ti isola dalla speranza di approdo, e anche le sensazioni sprecate, e la tua porzione di filosofica sofferenza... e invece non sai, povera creatura finita che aspira all'infinito, non puoi sapere che il vero calvario non è ancora arrivato. Lui era un intellettuale fervido, aperto ad ogni novità, ad ogni scoperta, ma una vita infame, da tempo trascinata nella mediocrità e nelle menzogne, ne aveva inaridito la capacità di realizzazione. Ad Eva piaceva aiutare gli altri, era generosa e disponibile ed anche un tantino egocentrica: dare tanto di sé agli altri le era naturale e spontaneo e le piaceva però anche sentirsi insostituibile. In cambio di questa piccola pretesa civettuola riusciva a manifestare una capacità di sacrificio senza limiti. Quella sua intelligenza vivace e straordinaria, però, lui non era riuscito ad incanalarla verso scopi, diciamo, costruttivi e lei lo aiutava soprattutto in questo, guidandolo verso quella auto-stima che orribili circostanze avevano minato in profondo. Il loro rifugio era una piccola casa in montagna, anche se Eva poteva viverci solo parzialmente. L'aria profumata e feconda della campagna circostante, il vento misterioso e catartico che faceva sentire la sua carezza morbida, l'essenza intensa e inconfondibile delle ginestre in fiore, le luci lontane nell'attimo in cui calava la sera e la vallata era tutto un tripudio di grilli, lucciole e profumi......tutto questo era lo sfondo più perfetto che si potesse scegliere come cornice di un amore giusto. Conoscersi, anelare l'uno all'anima dell'altro e berne ogni sfumatura, amarsi fisicamente e mentalmente, recriminare con sofferenza sul passato di entrambi e poi scoprire che in fondo il tempo è tutto ancora davanti, che tutto è intatto perché noi siamo intatti, che la forza della dedizione non è stata diminuita dalle esperienze sbagliate, ma anzi sollecitata, migliorata. Fu un'estate splendida. Alla quale seguì un autunno perfetto. I loro volti vicini apparivano fiabeschi alla luce del caminetto acceso. Le serate piene d'amore e di vento erano a tratti turbate, ma non compromesse, da amici comuni che si recavano lassù, dalla vicina città, perché attratti da quella casa arredata artigianalmente, per arrostire salsiccia sulla brace, per ridere insieme, ma forse soprattutto per godersi lo spettacolo di quella unione "perfetta", che sfidava le avversità, che si ergeva titanica ad apparire imbattibile e vincente. Loro due erano diversi, erano innamorati, erano intelligenti, erano malinconici, erano brillanti, erano orgogliosamente consapevoli di essere migliori se insieme ed emanava, dal loro essere così compenetrati l'uno nell'altra, un'accattivante aria di complicità. Fra gli amici più cari c'era un vecchio dottore "mezzo americano" che abitava in una grande villa limitrofa alla loro casetta: egli adorava la nostra Eva, per la quale nutriva un sentimento di profonda tenerezza, e stimava il suo compagno, del quale sapeva apprezzare le battute brillanti, la conversazione sempre varia e infiorettata e l'abilità astuta grazie alla quale aveva sempre la meglio nelle dispute verbali. Assieme i due "incrociavano le regine" ed Eva assisteva, con infantile entusiasmo, all'ignoto gioco degli scacchi, tentando di impadronirsi del difficile meccanismo di quel passatempo così intensamente legato alla mente e all'essenza di quel suo uomo dai grandi occhi profondi, dalla voce rassicurante, dai modi raffinati propri del perfetto gentiluomo d'altri tempi, quell'uomo, il suo uomo, atteso da sempre, cercato da secoli, cresciuto dentro il suo spirito, magicamente uscito fuori dalla sua fantasia, incarnatasi in un tiepido pomeriggio di maggio. E quel suo uomo così suo, così desideroso di essere suo, cercava con lo sguardo i suoi occhi, al di sopra del capo bianco del vecchio dottore, e le diceva in silenzio "fra un po' se ne andrà e rimarremo soli" e il cuore di lei esultava, perché l'amore fisico con lui non era pura passionalità fine a se stessa: era la vita che anelava a prendere forma, era la...bimba che aspettava di nascere, per suggellare, con la sua tenera fisionomia zuccherina, quell'unione fuori dal tempo. Tutto il bello di quel rapporto, oltre che essere percepito dall'anima e dai sensi, prendeva corpo nelle loro parole scritte, nello scambio epistolare che era la loro grande forza quando, e cioè ogni sera, circostanze imprescindibili li costringevano a separarsi. Il tragico arrivò quando le lettere dovettero coprire una lontananza ben più tangibile, quando le circostanze portarono lui molto lontano, in quella città in cui oggi, nell'oggi che ci apprestiamo a raccontare, vive la nostra Eva, con le ferite ormai cicatrizzate, ma ancora convalescente... Quella città amata ed odiata, dove pian piano i sogni si spensero, la banalità prese il sopravvento e l'amore, inizialmente trionfatore, cominciò a non bastare, e poi non bastò e poi diventò tiepido per poi tornare a trionfare per un attimo, e poi diventò amarezza e poi disperazione e poi lotta contro le tentazioni e infine fango, squallore, miseria morale. Fu così che quella storia "diversa", nata al sole di un sud profumato, si spense, naufragando nel grigiore della nebbia e in essa scomparendo, fino a restare soltanto un ricordo, il ricordo di un'esperienza per lui, da aggiungere alle nuove avventure dello spirito e del corpo che lo attendevano finalmente, dopo che Eva era riuscita a regalargli la consapevolezza del suo valore di uomo. Non gratitudine, non memorie pulsanti, non serenità dopo la passione, non certezze di approdo, non pace. Ed Eva? Non è facile descrivere quello che si prova al crollare di un sogno che si era scambiato per realtà: un sogno amato con i suoi difetti e le sue carenze, un sogno reale, vogliamo dire, un sogno che, confondendosi con la realtà, era riuscito ad apparirne solo un corollario. Non è facile, lo sappiamo, senza evitare di cadere nella stupida retorica. Diciamo solo che la tragicità esistenziale che avevi creduto di sconfiggere ti ritorna invece davanti in tutta la sua atrocità e allora perdi l'orientamento, arrivano i Tavor o roba simile, ti svegli la mattina sperando che arrivi presto la sera e la sera hai paura del buio e vorresti non esistere più. Poi impari il sapore amaro della disistima di te stessa. Non ti piaci. Non ami il tuo corpo. Non vali nulla. Sei come pensi lui ti veda, limitata, povera, stupida, colpevole, indegna d'amore. Mai nessuno ti ha amato. Perché avrebbe dovuto? Hai delle carenze di cui non ti eri mai resa conto. E l'autore di tutto questo, per viltà, egoismo, rimorso, incertezza, debolezza preferisce lasciarti credere di essere sbagliata, di aver causato tutto tu, e allora te ne convinci. Una mattina ti svegli e, guardandoti davanti allo specchio magico della strega di Biancaneve vedi una scritta terrificante: "fallita" La disperazione di Eva si placava ogni tanto grazie ad un progetto farneticante: un giorno, quando si fosse rimessa in piedi, avrebbe tratteggiato in un romanzo quel grande amore che la crudeltà altrui aveva distrutto; sarebbe stato qui il senso del suo soffrire, l'approdo del suo pavesiano "valere alla penna" e nello stesso tempo la possibilità di "vendicarsi" di chi le aveva portato via il suo bel sogno reale. Tutti avrebbero letto la verità che lei avrebbe narrato minuziosamente, nei minimi particolari, tutti avrebbero odiato con lei quella donna prepotente che aveva impedito alla sua bimba di nascere e a lei di coronare lunghi anni di attesa. Si crogiolava in mille fantasticherie dal sapore agrodolce che però mai riuscivano a incanalarsi nella giusta direzione. Tutto era così nebuloso, così confuso. Come, dannazione, in che modo avrebbe dovuto impostare un romanzo di tal genere? Come doveva cominciare? Dicendo forse che una stella del firmamento, qual era il loro amore, si era ribassata fino a diventare lo sterco di un porcile? Che le parole dolci e amorevoli erano diventate recriminazioni, minacce, insulti e terribili suppliche indignitose? Oppure doveva usare l'ispirazione per accusare una donna, un essere estraneo e a suo modo innocente, del fallimento di un rapporto che forse conteneva in una perfezione granitica le ragioni del suo naufragio? Eva si rese conto che lei poteva e doveva solo scrivere poesie. Ma le poesie non sono di questi tempi e, delusa e scoraggiata da questo nuovo pensiero, non riuscì più a creare alcun verso. Chiuse nel cassetto le sue più belle liriche che andarono ad adagiarsi malinconicamente accanto alle lettere del suo passato felice, il cui ricordo, intanto affievolito anche se non spento, era ormai diventato una malattia cronica, priva di sintomi violenti ma sempre pronta a riaffiorare nelle tristi sere d'inverno o nei caldi pomeriggi d'estate, e ancor più nei chiarori primaverili di un maggio che sempre tornava. E si lasciò andare. Scelse di perdersi. Ma non lo scelse veramente. Si pentì. Provò a ritrovarsi. E scoprì il gusto di crescere, di diventare ancora più donna e poter guardare con disprezzo la bambina che aveva creduto di essere grande. Poi riscoprì in modo più deciso la capacità di farsi desiderare da tanti uomini, libera di guardarli dall'alto della sua indifferenza. Si lasciò amare da un uomo non libero. Si riperse. E ancora si disperò della sua rinnovata anarchia e coltivò la passione per "sfera del sociale"...fin quando non le giunse quella proposta, quell'offerta di lavoro che le avrebbe permesso di misurarsi con se stessa sul piano professionale. Ma tutto questo proprio... lassù, in quelle amata, odiata, rimpianta e maledetta città. Proprio lassù. Era solo un caso? Non andare, Eva. Non compromettere la tua parziale serenità di oggi. Già, quale serenità? Quali scopi? Quale stile di vita? Vivere in famiglia, a trent'anni, vivere in una pseudostruttura mentale fatta di compromessi, di ricordi, di stupida umanità borghesastra che ti offre amore a basso costo, oppure ti chiede di diventare quello che tu non vuoi, o ti inchioda al ruolo fasullo della martire ingiustamente abbandonata da un uomo spregevole, oppure ancora ti ricorda con sdolcinata bontà che ci si può sposare anche ad una "certa età" ignorando che il matrimonio è stato per te, ideologicamente parlando, solo uno status sociale da approfondire sul libro di Antropologia culturale. Che confusione, povera Eva, e che voglia di fuggire. Da tutto e da tutti. Solo non da lei, non dalla sua adorata cagnetta nera, che ti poggia il suo muso sulla spalla e ti guarda con occhi profondi, comunicandoti quei messaggi di eterno che non hai potuto o saputo trovare nell'essenza degli umani. Partirò, Killy - le disse una mattina di settembre- Andrò via, ma non per sempre. E comunque verrò presto a prenderti. Lasciami solo il tempo di organizzarmi. Un cane non piange. Non parla. Ma sente. E ti offre il suo spirito. Killy fu sconcertata quando Eva e la sua grande valigia sparirono oltre il vano della porta, e rimase per giorni e giorni ad annusare una giacca casualmente rimasta sul divano dell'anticamera, mentre attendeva a modo suo quel ritorno, la concretizzazione di quella promessa. Perché un cane, anzi una cagnetta, non sa razionalizzare: possiede soltanto il magico e inspiegabile potere dell'istinto.
Alcune poesie

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Inserito il 16 luglio 2001