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Edizione Virtuale della rivista del Club

Allen Ginsberg

L'Urlo e la preghiera

della poesia

a cura di Olivia Trioschi

Milano, 1995. Università degli Studi, da tutti detta Statale. In un'aula un signore di mezza età dal-l'aria mite &endash; occhiali, pochi capelli, folta barba bianca - picchietta con una matita il bordo di una scrivania. Il ticchettio diventa ritmico, armonioso. Il signore comincia a parlare seguendo quel ritmo: le parole salgono e scendono, corrono e si interrompono; si fanno corrente di fiume che accarezza le anse, sosta nelle pozze, corre verso il mare. Pochi capiscono il significato delle parole: il signore è inglese, il pubblico italiano. Tutti, però, si lasciano trasportare da quella voce e da quel ticchettio. Il silenzio è assoluto. Occhi e orecchie sono puntati sul mite signore. Alla fine, passa qualche secondo prima che inizi l'applauso.
Allen Ginsberg ha appena finito di recitare una sua poesia.
La folla accorsa per vedere il mito che incarna la Beat generation, a un certo punto, ha dimenticato la celebrità e gli scandali &endash; ciò che rende un uomo, quando diventa personaggio pubblico, un'icona &endash; per addentrarsi su un sentiero troppo spesso accidentato e irto, che qui, per un momento, è parso una strada maestra. Quello che dall'ascolto della parte più profonda di sé porta alla nascita di una strana cosa che permette di comunicare con gli altri di più e meglio di quanto non si sia fatto prima: la poesia. In occasione di uno dei primi reading di Ginsberg Lawrence Ferlinghetti, poeta ed editore di cui ci ricapiterà di parlare, aveva detto: «La poesia che ha fatto tanto rumore qui è molto diversa dalla 'poesia per la poesia', la poesia della tecnica, la poesia per poeti e professori. Potrebbe essere definita poesia della strada. Perché il suo intento è di tirar fuori il poeta dal suo interiore sacrario estetico dove per troppo tempo è rimasto a contemplare il proprio complicato ombelico». Questo per dire che la poesia di Ginsberg &endash; oltre che specchio di un tempo e documento sociologico, caratteristiche per le quali è stata sovrabbondantemente studiata, in tempi recenti, e prima ancora respinta o al contrario velocemente issata come bandiera sull'albero maestro della protesta giovanile &endash; è prima di tutto proprio questo: poesia. Aria fresca nelle polverose stanze della letteratura, finestra aperta verso un possibile orizzonte, scoperta di nuovi serbatoi di pensieri, fatti e sensazioni che è possibile comunicare. Parleremo più avanti, naturalmente, della vita di Ginsberg, dei suoi pellegrinaggi, dei suoi amori, dei suoi arresti, dei suoi successi: ma tutto ciò, che rappresenta una sia pure interessante e in qualche misura necessaria appendice all'attività letteraria, non sposta di una virgola il fatto che, sopra ogni altra cosa, Ginsberg è stato poeta in ogni fibra del suo essere, e della poesia ha fatto qualcosa di nuovo. O antico, che è un po' lo stesso.
 
«Ci sono ritmi precisi che potrebbero venire analizzati come corrispondenti a ritmi classici greci, o alla prosodia sanscrita». Così Ginsberg, parlando della sua poesia, in un'intervista del 1966. Basterebbe questo per comprendere come i suoi testi non fossero improvvisati e approssimativi, ma al contrario frutto di scelte meditate, di una cultura profonda, di un gusto raffinato; e al contempo come la sua ricerca si fosse indirizzata verso la riconquista delle origini stesse del discorso poetico. In ciò incoraggiato e quasi obbligato dalle particolari circostanze individuali e dal contesto sociale e culturale in cui era cresciuto. E a questo punto non possiamo che introdurre qualcuno tra i molti dati biografici ormai entrati nella leggenda.
Allen Ginsberg, come dice il cognome, era ebreo. Era inoltre omosessuale a abbastanza anarchico (nel senso di insofferente di ogni forma di autorità imposta). Detta così sembra una barzelletta: qualcuno starà pensando che gli mancava solo di essere nero. In realtà questa sommaria carta d'identità dà già parecchie indicazioni: sia sulla poesia (che talvolta si avvicina molto al salmodiare ebraico, e non a caso uno dei testi più importanti e noti si intitola Kaddish, parola che sta a indicare un tipo di antichissima preghiera ebraica) che sulla sua vita: l'omosessualità dichiarata nei testi e nei gesti, la protesta contro ogni tipo di ideologia lo portarono a vivere sempre un po' emarginato, anche quando finiva sulle prime pagine di tutti i giornali. Se poi si aggiunge che tutto ciò avveniva nell'America degli anni Cinquanta si capisce come rivendicare la propria diversità fosse già di per sé un atto rivoluzionario.
La rivoluzione, o almeno una certa idea di essa, Ginsberg l'aveva conosciuta sin da piccolo. Sua madre Naomi, di origine russa, era un'attiva filocomunista che portava il figlio alle riunioni della piccola sezione di partito di Newark, nel New Jersey, la cittadina ora sobborgo di New York dove il poeta era nato nel 1926. Il padre, anche lui poeta ma di stampo assolutamente tradizionale, insegnava letteratura nelle scuole. Una famiglia di media borghesia, dunque, e una provincia quieta e conformista fecero da sfondo ai primi anni del giovane Ginsberg. Il quale sognava di diventare avvocato del lavoro e di battersi in difesa degli operai: con quest'idea approdò nel 1943 alla Columbia University di New York, munito di borsa studio. Era stato infatti fino ad allora uno studente modello, ma non lo sarebbe stato ancora per molto. Per vari motivi: uno era la scoperta che la giurisprudenza «è la scienza della bugia che diventa potere» (e poi parliamoci chiaro, avrebbe confidato all'amico Jack Kerouac, «è un grande rompimento di palle»); un'altro era la frequentazione di un gruppo di amici tra cui lo stesso Kerouac e William Seward Burroughs: giovani e geniali artisti che della cultura accademica non sapevano che farsene. Anzi, lo sapevano benissimo: volevano disfarsene. Così Ginsberg si trovò a scrivere sulla finestra della sua camera all'università «Butler è senza coglioni» (Butler era il presidente della Columbia), e questo era già un fatto gravissimo, e poi ospitò Kerouac &endash; a quel tempo persona non grata nel campus a causa di un suo precedente indiretto coinvolgimento in un caso di omicidio tra omosessuali &endash; nella stessa stanza. Risultato: espulsione per un anno. Ma Ginsberg, allora diciannovenne, non ne fece una tragedia. Tanto quello che lui cercava, nei libri e poi nelle strade, non l'avrebbe certo trovato nelle asfittiche aule universitarie (che frequentò ancora, saltuariamente, fino al 1949, anno della laurea).
 

Un' immagine della famosa serata del 1956 in cui Ginsberg lesse per la prima volta Howl. Lui è di spalle; al centro Kerouac.

L'anno dell'espulsione, a cavallo tra 1945 e 1946, fu molto intenso. L'amicizia con Kerouac divenne sempre più profonda. «Credo che la spiritualità fosse il nostro primo pensiero &endash; dirà più tardi Ginsberg &endash; perché avevamo sperimentato un qualche genere di visione che ci aveva spinto oltre la nozione dell'arte intesa come una carriera qualsiasi o un modo per arricchire. Improvvisamente ci eravamo accorti che l'arte aveva un'influenza sulla gente, che aveva delle conseguenze, e che avrebbe potuto aiutare ad essere consapevoli e tolleranti. L'esserci resi conto di ciò ci aveva aperto un mondo di possibilità». Entrambi poco più che adolescenti, erano irresistibilmente attratti da Burroughs, di una decina d'anni più anziano. Vale la pena di spendere due parole su questo personaggio: dopo aver molto studiato &endash; ad Harvard, Vienna e alla Columbia &endash; aveva rifiutato il suo rispettabile passato per vivere nelle zone più pericolose della città convinto che solo la discesa negli inferi, nel ventre della società, gli avrebbe permesso di afferrare l'esperienza umana in tutte le sua sfaccettature. Dalla sua libreria spuntavano i volumi di Rimbaud, Baudelaire e Blake. Dalle sue labbra pendevano Ginsberg e Kerouac, ansiosi di essere introdotti nelle stanze segrete che portano alla visione della «Realtà Suprema» (parole di Ginsberg). Stanze che, in quel periodo, erano dense del fumo della marijuana, agitate dai fantasmi degli allucinogeni, pervase dai respiri di amori irregolari.
Fu allora che Ginsberg accettò la propria omosessualità. Secondo una sua testimonianza, l'iniziazione avvenne per opera di Kerouac, all'aria aperta. Ma tra loro non iniziò mai una vera relazione, sebbene Ginsberg fosse davvero innamorato. Poi, verso la fine del 1946, arrivò a New York un giovanotto di nome Neal Cassidy che col suo vitalismo misto a una vera ingordigia intellettuale affascinò sia Kerouac (che ne fece il protagonista del romanzo On the Road) che Ginsberg. Per lui fu anzi un vero colpo di fulmine. Un amore disperato, però: perché Cassady era eterosessuale (per quanto non si rifiutasse ai gay), aveva già una moglie e svariate altre donne. Per qualche mese, tuttavia, i tre viaggiarono molto, separatamente ma più spesso insieme, vivendo ai margini o fuori della legalità per arrangiare un po' di soldi. A un certo punto Ginsberg decise di imbarcarsi come ufficiale di bordo su una nave per guadagnare qualcosa con l'obbiettivo di trovarsi dopo qualche mese con Cassady; che però, al suo ritorno alla fine del 1947, si era risposato.
 
«Nel 1948 durante l'estate abitavo a East Harlem. Quella settimana avevo vissuto in uno stato molto solitario, una specie di scura notte della mente forse perché tutti quelli che conoscevo erano partiti, Burroughs era in Messico, Jack era a Long Island e relativamente isolato. Soprattutto c'era che avevo fatto l'amore con Neal Cassady e alla fine avevo ricevuto una sua lettera che diceva che era tutto finito, basta. Probabilmente era diventato troppo per lui, in parte perché era a 4500 chilometri di distanza e aveva 6000 ragazze sull'altro lato del continente a tenerlo occupato e poi qui c'era il mio solitario grido di disperazione da New York. E mi stavo anche laureando da scuola e non avevo nessun posto dove andare e difficoltà a trovare un lavoro. Sicché in definitiva per me non c'era altro da fare che mangiare legumi e vivere a Harlem. Così, in quello stato di irreparabilità, o conclusione come di non avere una Nuova Visione né una Realtà Suprema e niente altro che il mondo davanti a me e di non sapere che cosa farne… c'era uno strano equilibrio di tensione in tutte le direzioni. E subito dopo esser venuto, in quest'occasione, con un libro di Blake in grembo &endash; non stavo neanche leggendo, avevo l'occhio posato sulla pagina del Girasole, e d'improvviso apparve &endash; la poesia che avevo letto un mucchio di volte e d'improvviso capii che la poesia parlava di me. Ah, Girasole! / Stanco del tempo, / Che conti i gradini del sole; / Cercando quel dolce clima dorato, / dove si compie il cammino del viaggiatore. Ora cominciai a capirla, la poesia, mentre la guardavo, e d'improvviso contemporaneamente al capirla udii una voce molto profonda, terrena, grave nella stanza, che ritenni immediatamente la voce di Blake. L'apparizione della voce mi destò profondamente alla comprensione della poesia, perché la voce era così completamente tenera e bella… antica. Come la voce dell'Antico Giorno. Era come se Dio avesse una voce umana, con tutta l'infinita tenerezza e gravità mortale di un Creatore vivente che parla a suo figlio. Guardando il cielo attraverso la finestra mi parve di vedere le profondità dell'universo, semplicemente guardando il cielo antico. E questo era il luogo molto antico di cui Blake stava parlando, il dolce clima dorato, era questa esistenza! Questo era il momento per il quale ero nato. Questa iniziazione. Questa visione di questa consapevolezza di essere vivo in me stesso, me stesso vivo nel Creatore. E il secondo pensiero fu di non dimenticare mai, non rinnegare mai, non negare mai, non perdermi mentalmente aggirandomi in altri mondi dello spirito o mondi americani o mondi di impieghi o mondi di pubblicità o mondi di guerra o mondi terreni. Lo spirito dell'universo era ciò che io ero nato per capire».
 
La prima reazione di Ginsberg a questa esperienza mistica fu di correre a raccontare a una stupefatta vicina di casa di aver appena «visto Dio». Possiamo immaginare il dito della vicina di casa che rotea accanto alla tempia: un drogato omosessuale che parla di Dio, figuriamoci. Comunque quest'esperienza, divenuta leggendaria e riportata in innumerevoli brevi o lunghe biografie, cambiò la vita di Ginsberg. Cominciò a tenere un diario nel quale annotava incontri, spostamenti e pensieri; dopo poco, avrebbe cominciato a lavorare seriamente alla poesia. Il che avvenne in circostanze solo apparentemente sfavorevoli: nel 1949, infatti, fu indirettamente coinvolto in un traffico di merce rubata e finì, anziché in prigione, in un istituto psichiatrico dove conobbe il poeta Carl Solomon, che lo avvicinò ai testi surrealisti e più tardi l'avrebbe introdotto nell'editoria. Dopo un soggiorno in casa del padre Ginsberg tornò a New York e ricominciò a frequentare Kerouac e gli altri del gruppo beat. Nel frattempo aveva iniziato una corrispondenza con William Carlos Williams, uno dei maggiori poeti americani del Novecento, che più tardi conoscerà. Proprio con un incontro tra i due si apre il Diario beat di Ginsberg, raccolta di annotazioni scritte tra il 1952 e il 1962.
Perché beat?, ci si potrebbe domandare a questo punto. La genesi della parola è curiosa e merita una breve digressione. Tra gli amici di Ginsberg figurava anche Herbert Hunke, scrittore, giocatore d'azzardo e tossicomane. Una delle sue espressioni favorite era «man, I'm beat», ragazzi, sono fatto, cioè stanco, sfinito. I possibili significati della parola beat affascinarono Kerouac, al quale sembrò di potervi leggere il sentimento comune di tutte le persone sconfitte o relegate ai margini della società: così la citò in un suo libro del 1950 (The Town and the City). Un paio d'anni dopo un cronista pubblicò sul New York Times un articolo intitolato This is the Beat Generation: da quel momento beat divenne un'etichetta appiccicata a proposito o a sproposito su chiunque facesse uso di droghe o portasse i capelli lunghi. Potenza della stampa. E pensare che beat, secondo Kerouac, stava a indicare «una stanchezza verso tutte le convenzioni del mondo».
 
A New York Ginsberg frequentava il bar San Remo, un posto dove si suonava jazz e si incontravano artisti. Lì incontrò il «maledettissimo» poeta inglese Dylan Thomas un anno prima della sua morte e Gregory Corso, un giovane del Greenwich Village che scriveva poesie e aveva sempre vissuto per la strada. «Non so se Jack e Allen conoscessero molti malviventi all'epoca» racconta Corso. «Conoscevano me, e io ero stato in prigione, e conoscevano Hunke, ma noi più che altro eravamo poeti e scrittori. Ci era solo capitato di finire in prigione». Durante le serate passate ad ascoltare i voli d'uccello del sax di Charlie Parker e il ritmo della musica bop e a discutere di letteratura prendeva forma una poetica comune, un obbiettivo comune: quello di registrare la parlata americana autentica per riprodurla senza consapevoli interventi letterari, come un flusso continuo di energia e respiro. Già il poeta Williams aveva agito in questo senso, e prima ancora Whitman, e in mezzo a loro Ezra Pound. Tutti avevano percepito l'aria di muffa che veniva dalla lirica americana, legata mani e piedi a un meccanico conteggio di accenti tonici regolari nel verso (il ritmo sing-song, diceva Ginsberg) e ormai incapace di registrare le emozioni e le variazioni di velocità e musicalità della parlata. Questa poesia muta, nel senso di non comunicativa, era quella insegnata nelle scuole e nelle università; l'altra poesia andava invece a ripescare e sperimentare antichi stili poetici, da quelli greci a quelli cinesi o persiani o trobadorici, per trovare una nuova misura, misura fondata sulla lunghezza delle vocali &endash; un ritmo più sottile, dunque, per il quale occorre un orecchio molto molto allenato &endash; e la propria forza espressiva. «Se l'accento diventa automatico e meccanico anche il ritmo diventa automatico-meccanico e perciò le emozioni sono automatiche meccaniche e l'intelletto è automatico e meccanico perché ci si limita a riempire un modulo predisposto in anticipo, come modulo burocratico»: il superamento della tradizione ufficiale, secondo queste dichiarazioni di Ginsberg, partiva quindi dal rifiuto di una comunicazione preconfezionata, sintetica come la plastica (qualcosa di simile, diceva Ginsberg, era avvenuto in Italia con Ungaretti. Anche lui aveva spezzato il verso tradizionale per liberare la forza della parola). La ricerca di nuove modalità di costruzione del verso non era, è ovvio, un puro gioco accademico. Poggiava su solide basi di ricerca, oserei dire scientifiche, che allo studio teso e accurato della poesia antica e moderna univano il costante tentativo di affinare sensibilità acustica e potenza intuitiva (di cui l'uso delle droghe, dapprima smodato e poi sempre più rarefatto); e insieme c'era la rabbia e l'insofferenza verso l'America degli anni Cinquanta puritana e conformista, l'America del maccartismo, della provincia polverosa: un verso di Gregory Corso recita «questa poesia d'oggi è una triste necessità umana».
 
E a un certo punto tutto ciò esplose. Dopo New York Ginsberg era partito in autostop per il Messico e lo Yucatan, aveva nuovamente visto Neal Cassady ed era stato cacciato dalla di lui moglie che li aveva colti in flagrante adulterio; si era infine stabilito a San Francisco. Lì conobbe, nel 1954, il poeta Peter Orlovsky che sarebbe diventato il suo compagno per la vita; lì iniziò a frequentare circoli dove si tenevano letture di poesia e, come sempre, si suonava jazz. C'era un posto che gli era particolarmente congeniale: una libreria, la prima al mondo dove si vendevano paperback (tascabili economici) aperta poco tempo prima da Lawrence Ferlinghetti sulla Columbus Avenue col nome di City Lights Books. Lì, nell'ottobre del 1955, Ginsberg lesse per la prima volta Howl (Urlo), con Kerouac che batteva colpi su una bottiglia di vino e lo incitava gridando «Vai! Vai!» per dare alla serata l'atmosfera di un evento musicale piuttosto che quella di un formale ritrovo letterario. La recitazione di Ginsberg elettrizzò il pubblico: tutti sentivano la sua passione, l'impeto torrenziale della sua poesia, la forza ribelle che covava in ognuno di loro trasferita e accresciuta dai versi di Howl. Il giorno dopo Ferlinghetti gli inviò un telegramma con queste parole «Ti saluto all'inizio di una grande carriera. Quando mi dai il manoscritto?»
Era, in effetti, l'inizio di una grande carriera che avrebbe portato Ginsberg a leggere le sue poesie in tutto il mondo e a essere in tutto il mondo acclamato per i più vari motivi e inseguito da fan e fotografi. Nell'immediato, comunque, la pubblicazione di Howl nei tipi della Pocket Poets per City Light creò un grosso scandalo che si aprì con il clamoroso arresto di Ferlinghetti e si concluse con un processo nel quale il giudice, dimostrando rara lungimiranza, asserì che quando si deve decidere se un testo è osceno o no bisogna stare attenti a non dimenticare il motto Honny soit qui mal y pense (cioè prima di guardare l'oscenità degli altri stiamo attenti a quella che si nasconde in noi). Il difensore di Ferlinghetti disse davanti ai giurati: «Il tema della poesia è annunciato nel primo verso. I versi successivi della prima parte tentano di creare l'impressione di una specie di incubo nel quale le persone rappresentate dall'autore come 'le più belle menti della mia generazione' si aggirano come dannati nell'inferno. Questo è raggiunto in una serie di immagini che potrebbero venire definite surrealiste, una specie di allucinazione. La seconda parte della poesia è invece una denuncia di quegli elementi della società moderna che secondo l'autore distruggono le migliori qualità della natura umana e le menti migliori. Questi elementi sono soprattutto il materialismo, il conformismo e la meccanizzazione tesa verso la guerra. La terza parte è la rappresentazione specifica di ciò che l'autore considera una condizione generale. La quarta parte, la nota, è un commento all'atteggiamento espresso in Howl e intende dire che, nonostante tutta la depravazione rivelata in Howl, nonostante tutta la disperazione, le sconfitte, la vita è essenzialmente santa e così deve essere vissuta». Sintetico, lapidario ed efficace. Assai più degli esperti dispiegati dall'accusa che erano: una maestrina privata di dizione secondo la quale a leggere quella roba le era parso di trovarsi in una fogna e un assistente universitario un po' stranito di trovarsi in mezzo a un tale can-can. Alla fine, a molti parve chiaro che il vero atto di oscenità l'aveva commesso la polizia sequestrando il libro.

 

 

 

BobDylan e Allen Ginsberg nel 1975. Amici e compagni di lotte, si erano conosciuti quando Dylan era poco più di un adolescente.
Fu Ginsberg a prestargli i primi libri di Rimbaud
 
Mentre si svolgeva questo processo, mentre molti intellettuali si schieravano con Ginsberg, mentre Howl diventava un best-seller alle cui letture pubbliche si affollavano migliaia di giovani, l'autore se ne andò a Tangeri a trovare Burroughs e Kerouac. Da lontano guardava il putiferio scatenato dalla sua poesia e ne era un po' sorpreso e un po' impaurito. Com'è ovvio in chi si vede improvvisamente letto e citato in ogni luogo e non capisce bene se è diventato una moda anche lui, o se qualcuno ha davvero letto i suoi versi. In ogni caso, lui andò per la sua strada. Una strada ancora molto lunga e assai poco rettilinea, almeno in termini spaziali. Negli anni successivi fu in India e si stabilì in un villaggio a quattrocento chilometri da Calcutta, nel cuore della giungla. Visse in capanne di paglia, fece yoga coi santoni e fumò l'erba nelle pipe sacre, conobbe giovani poeti indiani incoraggiandoli a stendere un manifesto della loro poesia; poi andò in Giappone, in Russia, nell'Europa occidentale: un po' ovunque, sempre col fido Orlowsky a fianco. A Praga, nel 1965, fu incoronato Re di Maggio dagli studenti: l'onore a cui teneva di più. Intanto continuava a scrivere le sue poesie, lavorando sul verso lungo «basato su un tipo particolare di respiro eccitato, solo con l'anima che ho io. Che è lo stesso in Howl come in Kaddish come nel salmodiare o cantare i mantra». Kaddish, la raccolta successiva a Howl, fu scritta in parte a Parigi e in parte a New York e secondo alcuni rappresenta la punta massima della sua poesia: è una sorta di grande canto funebre per la madre Naomi, morta nel 1956 in manicomio, oltre che «un'appassionata commemorazione dei luoghi e dei personaggi del marxismo americano degli anni Trenta, rappresentati al di fuori di un qualsiasi schema ideologico" (sono parole di Fernanda Pivano, grande amica di Ginsberg, profonda conoscitrice della cultura americana e importatrice dei temi e della poesia beat in Italia). Ginsberg tornò in America all'inizio degli anni Sessanta, in coincidenza con l'inizio della guerra del Vietnam. Pacifista convinto, il poeta diede voce alla protesta giovanile antiguerrafondaia e trasformò le sue poesie in canzoni insieme a Bob Dylan, amico e compagno di battaglie politiche. Dylan fu il primo cantautore a unire il linguaggio e le idee dei beat alla forza di penetrazione della musica rock; a sua volta influenzò altri cantanti come John Lennon e Paul McCartney; i quali, specie Lennon, avevano già cominciato ad avvicinarsi individualmente e per strade proprie alla letteratura beat. C'è anzi un aneddoto che vale la pena di raccontare: nel giugno del 1960 i Beatles, che allora si chiamavano Beetles, avevano accompagnato con le loro musiche la recitazione di versi di un poeta londinese; su suggerimento di questi mutarono il nome del gruppo, adottando il termine beat e portandolo poi in giro per tutto il mondo. E se poi vogliamo citare solo uno degli altri cantanti rock vicini e affini ai beat, facciamolo il nome di Jim Morrison, che forse i lettori ricorderanno. Anche lui leggeva ogni libro beat che gli capitasse tra le mani.
 
Il movimento beat cominciò a frantumarsi e a perdere l'iniziale energia intorno alla metà degli anni Settanta. Esattamente come Ginsberg aveva predetto nel 1973 con La caduta dell'America, impressionante poema della storia contemporanea improntato a un cupo pessimismo scaturito dall'ammissione di impotenza di fronte alla violenza di una società sempre più chiusa e di un potere sempre più ostile. Anche per questo i suoi lavori successivi furono influenzati soprattutto dalla mistica orientale e volti a una cammino più introspettivo. Molte cose erano cambiate anche nella vita privata di Ginsberg: alla fine degli anni Sessanta erano morti sia Cassady (cui dedicò l'epitaffio «puro spirito, adesso») che Kerouac. In onore di questi Ginsberg fondò la Scuola di Poetica disincarnata di Jack Kerouac, presso l'Università Buddhista di Naropa, nel Colorado; in occasione del 25° anniversario della pubblicazione di On The Road, nel 1982, allestì una grande celebrazione pagato in larga misura di tasca sua. Neppure gli ambienti ufficiali, a un certo momento, poterono più ignorare la sua fama. Così venne accolto, negli anni Settanta, nell'Accademia americana di Arti e Lettere, e riuscì poi a farvi entrare anche altri amici suoi, tra cui Burroughs. E questo fu solo uno dei tanti riconoscimenti. Nel 1985, poi, aveva fatto stampare le fotografie scattate nel corso di tanti anni agli amici, organizzando negli anni successivi una serie di mostre che documentavano la leggendaria epoca beat: di fondamentale importanza, quindi, anche dal punto di vista storico. E tanto era piaciuta a Ginsberg questa sua nuova attività che, in anni recenti, non si definiva più poeta ma fotografo. Anche se scriveva ancora poesia &endash; Saluti cosmopoliti, l'ultimo volume pubblicato, è del 1995 &endash; teneva pubbliche letture e incideva le sue recitazioni su dischi. E continuava le sue sperimentazioni linguistiche, la sua caccia all'autenticità espressiva, le sue meditazioni mistiche iniziate molto prima che tutto ciò andasse di moda.
 
Allen Ginsberg è morto il 5 aprile del 1997, poco più di un anno fa. Due settimane prima gli avevano diagnosticato un cancro al fegato che, comunque, non gli avrebbe lasciato che pochi mesi di vita, se non fosse subentrato l'infarto. È morto come un vecchio patriarca, nel suo letto, circondato dagli amici. Fino a pochi giorni prima agli studenti del college di Brooklin dove insegnava aveva ripetuto: «la poesia è la sola arma che abbiamo». Lui l'ha usata, quell'arma, per tutta la vita; e nemmeno la voracità della stampa e la famelica ingordigia dei mass media sono riuscite a spuntargliela. Nei giorni successivi alla sua morte i giornali di tutto il mondo si sono riempiti di testimonianze e articoli di amici o estimatori della sua poesia. In Italia, ovviamente, grande spazio hanno avuto gli interventi di Fernanda Pivano che tra l'altro ha scritto, riferendosi ai versi del poeta, che erano «polemici senza astio». Lettura precisa dell'opera di un poeta che della formula «peace and love» aveva fatto la chiave di volta di tutta la sua esperienza poetica e personale. Così, idealmente, chiniamo il capo di fronte al suo ricordo: nel saluto indiano a lui tanto caro.
 
Olivia Trioschi
 
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Inserito il 9 marzo 1999