Scrittori italiani contemporanei
Antonio Turnu
Ha pubblicato il libro

 
Antonio Turnu, I sensi nel prisma, editrice Montedit, 1998,
pp. 48, Lit. 10.00, ISBN 88-86957-42-2
 
Prefazione  
 
La lettura de I sensi nel prisma di Antonio Turnu, raccolta di poesie tutte costruite sul filo della composizione-scomposizione dei sensi nell'uomo e sul gioco delle associazioni e corrispondenze tra quelli che Wittgenstein definirebbe gli "spazi di possibili stati di cose" nei quali "ogni cosa è"1, ha richiamato alla mia mente alcuni spunti presenti negli ultimi saggi di Lotman, scritti poco prima della morte. In particolare la "rilettura" che il semiologo russo ha proposto di una geniale riflessione sul sogno del filosofo Pavel Florenskij contenuta in Ikonostas, dove si dice che "nel sogno il tempo scorre, e scorre celermente, incontro al presente, all'inverso del movimento della coscienza di veglia. Il primo si capovolge su se stesso e con esso si capovolgono tutte le sue immagini concrete. Ma ciò significa che noi siamo portati sul piano di uno spazio immaginario, per cui lo stesso evento che scaturisce all'esterno, dal piano dello spazio reale, è visto anch'esso immaginariamente, cioè innanzitutto come se si svolgesse in un tempo teleologico, quale scopo, oggetto di una tensione"2.
Il sogno è una "realtà irreale". Esso "si distingue per il suo plurilinguismo: ci immerge non in spazi visivi, verbali, musicali ecc., ma nella loro fusione, analoga a quella reale. La traduzione del sogno nelle lingue della comunicazione umana è accompagnata dalla diminuzione dell'indeterminatezza e dall'aumento della comunicabilità"3. In seguito a questo processo esso viene osservato e letto "al contrario": il sogno originariamente inenarrabile e imprevedibile, caratterizzato da uno stato di incompiutezza, risultato di un processo di esplosione casuale di frammenti visivi proiettati in ordine sparso e in tutte le direzioni, viene "rettificato", calato e costretto entro una composizione temporale lineare che gli conferisce forma compiuta e sottopone tutti gli avvenimenti di cui si compone a una "rivalutazione in seconda istanza" che trasforma il casuale in inevitabile.
Al meccanismo viene connessa la memoria, che permette di tornare nuovamente al momento precedente l'esplosione, e ancora una volta, ormai retrospettivamente, rappresentare l'intero processo. Adesso nella coscienza vi saranno come tre strati: il momento dell'esplosione originaria, il momento della sua redazione nei meccanismi della coscienza e il momento del loro nuovo duplicarsi nella struttura della memoria.
La memoria artistica in questa situazione si comporta in maniera analoga a quella che P. Florenskij attribuisce al sogno: si muove in una direzione opposta all'asse temporale"4. Ciò che ne risulta è proprio quella "pagina dal retro scollata in anteriore", di cui Turnu significativamente, parla in un suo verso.
La "lettura" che Lotman, sulla scia di Florenskij, propone del processo della comprensione artistica è, a mio avviso, interessante perché aiuta ciascuno di noi a capire ciò che gli succede quando cerca di produrre una ricostruzione razionale di una situazione problematica da lui effettivamente vissuta. In tal caso l'"io" si scinde e si scompone in due differenti livelli: un "soggetto conoscente", punto di partenza, e un "soggetto conosciuto", punto d'arrivo, vale a dire, rispettivamente, un soggetto di II livello, osservatore e interprete che cerca di capire l'"oggetto di studio" (se stesso al I livello). Mi piace pensare che proprio a questo processo di autocomprensione, che prende avvio da un "io caotico" e problematico per arrivare a un "io ordinato" e costruito attorno a un sistema di convinzioni più o meno ben delineato, alluda Turnu in questa sua poesia che calza a pennello con l'ipotesi interpretativa avanzata:
 
"Punto d'arrivo
punto di partenza
camino in se stesso chiuso
nell'alito di genesi del tempo fine
del tutto mai inspirato
mimi d'un distacco forse mai avvenuto
tra l'essere e l'altro
nella vita e nel sogno
l'una dal suono azzurro
l'altro dal color di sol".
 
Il processo di "autocomprensione" descritto prende corpo e si sviluppa attraverso un tipo di analisi nella quale noi, in primo luogo, rimpiazziamo delle esperienze psicologiche concrete con un racconto, una storia che trasforma un processo accidentato e punteggiato di casualità, in un cammino perfettamente regolare e scandito da "fasi" legate in maniera del tutto coerente l'una all'altra.
Questa concezione dell'io è interessante perché vede nella realtà che corrisponde al termine in questione un "unum" complesso da affrontare e gestire non soltanto sul piano dello sviluppo temporale, ma anche sotto il profilo della coesistenza spaziale tra "multa" differenti. L'articolazione del soggetto e la sua natura complessa non sono cioè soltanto il risultato del succedersi e alternarsi di vari suoi "personaggi" e racconti in scene e fasi diverse, distribuite nel tempo, bensì anche e soprattutto l'esito di una struttura nello spazio non solo di singole attività elementari, ma anche di diversi "vissuti di sé" e degli eventi di cui l'"autore" stesso è stato partecipe, nella interpretazione soggettiva che ne viene fornita attraverso i diversi racconti che ne possono essere proposti. Le "parallele, oblique esistenze" di cui parla Turnu in una delle sue composizioni:
 
"Non l'altro me stesso impalpabile
scomparso al buio suo colore
nell'ambiguo pluriverso senz'aria
dell'azzurro e rosso odore attraverso il giallo maionese,
ma carne chewingum
forse trina e più di trina
elasticamente sola
ad abbrancar se stessa
al di là del taglio degli specchi
lontano
vicino, irraggiungibile carne chewingum
che ogni notte cerco dentro ogni nudo,
sul volo delle parallele oblique esistenze".
 
L'"io" in quanto soggetto unitario e sistema conchiuso, dotato di confini ben delineati, è il risultato di una narrazione, di un processo di ricostruzione al metalivello. La sua realtà effettiva è fatta di frammenti, blocchi di sensazioni provvisoriamente amalgamati:
 
"mi pare d'avere inventato e
confuso i sensi:
timpani e pupille
papille e polpastrelli
in un blocco d'albàlito e luce
che passa e ripassa sui gangli del buio
assorbe e rimanda in musica
squillante cembalo
i raggi come vimine intrecciati
nelle dita dei poeti:
do-rosso, arancio-re
mi-giallo, verde-fa
sol-azzurro, indaco-la
si-violetto.
Non solo mi pare d'aver inventato
ma d'essermi inventato.
 
E c'è continuità di memoria5, in quella sensazione di "realtà del sempre stato", di cui parla Turnu, e a partire dalla quale il soggetto può costruire la sua apertura progettuale verso il futuro, quella "utopia del non ancora", del "non ancora realtà", che coniugato con la "irrisarcibile memoria per gli eventi illogici necessari dal cortocircuito di sora storia trasmessi" conferisce all'individuo il senso della sua continuità nel tempo.
L'uomo costruisce la continuità e la coerenza del suo io, lo fa ogni giorno, lottando contro i rischi, sempre incombenti, di "scissioni", "dissociazioni", "fratture", e lo fa utilizzando, soprattutto, il filo della memoria e delle intenzioni, cioè delle credenze, dei desideri, delle speranze, delle aspettative, dei progetti. È proprio questo filo a connettere tra di loro i diversi "frammenti" di quel complesso patchwork che è l'identità personale, una specie di mosaico e raffazzonamento di sensazioni, colori, suoni, odori eterogenei, fusi tra loro e amalgamati da stati mentali e dalle corrispondenti emozioni.
L'uomo è quindi, contemporaneamente ed essenzialmente, dispersione e unione, quell'"impalpabile spettro solare" che Turnu ci racconta nella poesia dedicata a Vittorio Sereni:
 
"&endash; Intreccio spettro solare
d'arancio e prudenza
d'azzurro giustizia
di rosso fortezza
di violetto temperanza
di giallo fede
di verde speranza
d'indaco e carità &endash;
nell'uomo palpabile carne, sperma disperso
d'arancio fame
d'azzurro superbia
di rosso avarizia
spermovulo
di violetto lussuria
di giallo ira
di verde gola
d'indaco invidia
di mors e accidia &endash;".
 
Proprio così: a unire, a connettere, a raccordare colori, note musicali, sensi sono stati mentali, emozioni, passioni, ricordi, che ricompongono i frammenti, gli spezzoni, i mille coriandoli in cui l'esistenza si articola e si spezza, conferendo al soggetto, all'io, la sua dimensione superficiale di "unica bianca luce d'uomo".
E questa luce bianca, apparentemente omogenea e semplice, in realtà composita e incoerente, si raggiunge anche grazie a quel paziente lavoro di assimilazione, di digestione che ci consente di passare dal pensiero irriflesso, dalla routine e dalla inerzia della coscienza comune, con gli automatismi inconsci che la caratterizzano e la dominano, a una più piena consapevolezza di sé, intessuta di riflessione critica e sorretta dalla capacità di approfondire di continuo ciò che sembra noto, e in realtà è il meno conosciuto:
 
"Quieto
ma così lesto…
sigillato
sottovuoto
nell'equivoco inequivocabile sapor blu dell'essere,
mentre mastico m'avvedo di cibarmi
di parlare quando la bocca modella parole,
di vedere mentre gli occhi mettono a fuoco
d'amare durante l'amplesso
anzi
mi osservo
… infilando le mie carni pesanti
nella cruna dello spazio e del tempo…
bellezza d'insanabile luce".
 
Questa coscienza ottica è ciò che fa sì che il "punto d'arrivo" sia diverso dal "punto di partenza", che cioè il "sé", frutto del lavorìo sempre incompiuto in quanto inesauribile, di comprensione, di ricostruzione al metalivello dei frammenti sparsi, eterogenei e spesso incoerenti, della realtà fenomenologica del proprio io, sia diverso da quest'ultima, in quanto si colloca a un "quota" differente, cioè a un superiore livello di consapevolezza. Se non ci fosse questo "di più", questo fattore aggiuntivo e integrativo, la realtà dell'io sarebbe dominata dalla sola memoria, che rischierebbe di farci apparire la vita come una stanca replica di situazioni già vissute, il presente come una inutile ripetizione del passato, la coscienza come un semplice archivio e deposito di tracce mnestiche:
 
"Sul limitare della svolta
quando è vita la memoria, &endash; poiché del vivere l'oblio è la vita &endash;
Poco importa occultare l'effetto della morte
sotto molari di zolle
che presto geyser sbordeggia colpa sepolta
nel lutto implacato, innaffiato germoglio
di pioggia escreta dai fianchi al dolore".
 
L'oblio è la "vita della vita", come ci ha ricordato, ultimamente, anche Massimo Cacciari, il quale non a caso si è chiesto: "E qual è il fine di questo conservare? Vuole ricordare tutto? Ma ricordare tutto significa dimenticare?. Io posso conservare tutto ma non posso certamente ricordare tutto, per una ragione fondamentale di ordine logico: che la memoria è intenzione […] Ma questa è un'antinomia: e infatti la nostra epoca che vuole ricordare tutto, sta distruggendo tutto. In questo senso l'oblio è una grandissima forza creatrice, perché permette alla memoria di avere un'intenzione"6.
 
L'oblio non era per lo spirito greco una semplice assenza di memoria, ma un atto specifico, che distruggeva una parte della coscienza, cioè una forza, capace di dissolvere alcuni aspetti della realtà e di condannarli alla dimenticanza. Questa forza era quella del tempo che divora tutto.
Tutto si sviluppa ed è quindi soggetto a mutamento. Il tempo è la forma dell'esistenza di tutto ciò che è. Dire: "questa cosa esiste", equivale a collocarla nel tempo, in quanto il tempo, Kroyoß, è la forma che produce i fenomeni ma, al tempo stesso, li divora, come la sua figura mitologica, cioè il dio che divora le sue creature. Tuttavia, malgrado la consapevolezza di questa forza produttiva e, nello stesso tempo, distruttiva del tempo noi &endash; sottolineano i greci antichi &endash; non possiamo soffocare in noi il bisogno di qualcosa che resista a questa forza, e che sappia, pertanto, rimanere "stabile" nel corso del tempo, e quindi sia in grado di opporsi all'oblio. Questa è, appunto, l'alhqeia, cioè ciò che è capace di rimanere e di permanere nonostante il flusso dell'oblio, malgrado la corrente letale del mondo sensibile, che si mantiene senza "divenire", senza svilupparsi, senza modificarsi e che, pertanto, sopravanza il tempo e si conserva ben fissa e stabile nella memoria. La memoria vuole arrestare il movimento, cerca di opporre una barriera alla fluidità del divenire. La verità, da questo punto di vista, è dunque la memoria eterna, un valore degno d'una commemorazione perpetua e capace di attingerla.
Questa alta accezione della verità presuppone, ovviamente, una distinzione netta e precisa tra ciò che è "vero" e ciò che è semplicemente "effettuale". Essa, infatti, ha senso e valore solo a patto che si riconosca che non tutto ciò che è stato ed è, per il semplice fatto di essere esistito e di esistere "effettualmente", appunto, merita di resistere all'oblio, ha la forza e la capacità di farlo ed esibisce caratteristiche che lo rendano degno di essere sottratto alla sua forza distruttiva. Il vero è dunque "selezione" e "scelta" nell'ambito dell'effettuale; e, in secondo luogo, non può e non deve essere ristretto all'interno dei confini di quest'ultimo, perché la verità "pesca" anche all'interno dell'ampia sfera della possibilità, della "utopia del non ancora", per dirla con Turnu, ed è arricchita e sorretta da quel senso della possibilità di cui parla Musil nell'Uomo senza qualità.
"Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora, ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: be', probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è"7.
È vero: solo la combinazione di senso della realtà e senso della possibilità rende l'uomo completo e lo pone al riparo da quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l'ipocondria, quell'alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la "riottosa estraneità"8 del mondo, con la sua "burbera ritrosia", che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell'ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l'ideale a portata di mano e s'impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo: salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nell'inerzia più totale e nella depressione.
La sfida che bisogna affrontare e vincere per non cadere in questa condizione disperante e paralizzante è trovare la giusta combinazione di memoria e oblio, acquisire la capacità di raggiungere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l'immaginazione e i sogni, dall'altro, al di sotto, con la rassegnazione e la resa. Affrontare, nonostante tutto, la fatica di vivere, di sostenere il peso di un'esperienza quotidiana che a volte si fa schiacciante e intollerabile, per le brutture che l'attraversano, come quelle descritte con tanta forza drammatica da Turnu in Sarajevo, è, come ho detto, arduo. Richiede energia e coraggio ed esige, soprattutto, che la memoria sia costantemente "rettificata" e orientata dalla forza propulsiva delle intenzioni, dalle credenze, dalle speranze, dai desideri, dai progetti, dalle utopie cui l'arte, quando è pura, e la filosofia, quando è autentica, sanno dare corpo e voce.
 
Silvano Tagliagambe
 
Note

1. L. Wittgenstein, "Tractatus logici-philosophicus", 2.013, Einaudi, Torino, 1974, p. 6. E nella proposizione successiva 2.0131 Wittgenstein aggiunge: "L'oggetto spaziale dev'essere nello spazio infinito. (Il punto dello spazio è un posto d'argomento). La macchia nel campo visivo può non esser rossa, ma un colore non può non averlo: essa ha, per così dire, lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono deve avere "una" altezza, l'oggetto del tatto una durezza, e così via" (Ivi, pp. 6-7).

2. P., Le porte "regali", a cura di E. Zolla, Adelphi, Milano, 1977, p. 30.
3. Ju. M. Lotman, "La cultura e l'esplosione", "Prevedibilità e imprevedibilità", Feltrinelli, Milano, 1993, p. 180.
4. "Ibidem", p. 191.
5. D. Parfit, "Ragioni e persone", cit., p. 265.
6. M. Cacciari, "Conservazione e memoria", in ANAGKH', n. 1, marzo 1993.
7. R. Musil, "L'uomo senza qualità", Einaudi, Torino, 1957, p.1 2.
8. Hegel, "Estetica", Einaudi, Torino, 1967, p. 40.
 

 
Ai miei genitori
Anna e Luigi
e i miei figli
Gabriele e Daniele
con Alessandra
 
 
«…l'uomo… passa attraverso
Foreste di simboli…
Come lunghi
Echi che in lontananza si confondono
in tenebrosa e profonda unità
Spaziosa come la notte e la luce,
Colori odori suoni si rispondono.»
 
da "Correspondances" C. Baudelaire
 
 
«A nera, E Bianca, I rossa, U verde, O blu»
 
da "Voyelles" di A. Rimbaud
 

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agg. 27 aprile 2002