Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

 

 

Incipitpit di ExcavationS YearZero
Racconto di

Alex Davis

 
"Gli avvenimenti che sto per narrarvi non sono frutto di semplice fantasia, ma sono giunti a me da un mondo inesplorato".
 
I. NON MOLTO TEMPO FA…
(Not much long ago…)
 
Non molto tempo fa, in un paese non lontano da quello in cui vivevo accadde qualcosa che non può essere definito come un normale cambiamento ma va ben oltre l'individuale immaginazione, fino a coinvolgere tutto quello che conosciamo.
Cominciò tutto una mattina di qualche anno fa, mentre il sole stentava a sorgere e la notte ancora padrona m'accompagnava nelle mie avventure.
 
Ero solito, durante il week-end, concedermi degli svaghi dalla monotona vita che avvolgeva il ridente paesino di Etra, sulla costa sud-ovest della Grecia. Alle volte accompagnato da amici, mi divertivo a raccogliere vecchie testimonianze di un passato grandioso d'arte e cultura che era ancora riluttante a concedersi alle genti moderne. La casa, o meglio il piccolo castello, dello zio Primus, nel quale ero ospite, dopo un grave incidente accaduto ai miei genitori, era stato trasformato per forza di cose in un piccolo museo ellenico, di cui andavo orgoglioso. Frammenti di anfore, piccolissimi monili, parti di statue e soprattutto le mie ricostruzioni illustrate appese alle pareti, m'accompagnavano di giorno in giorno attraverso le mie letture preferite, alla ricerca di piccoli ma significanti indizi, che mi portassero alla scoperta di sensazioni inimmaginabili per un appassionato d'archeologia quale ero.
E quella mattina, stava per cambiare inconsciamente tutto.
Mai avrei creduto a quello che mi sarebbe accaduto nel giro di pochi anni se non lo avessi vissuto veramente.
 
 
II. L'INIZIO DI UNA LUNGA AVVENTURA
(The beginning of a long adventure)
 
Quella volta non avevo voluto con me il mio solito compagno di gioco Brhett Gable. Quel bamboccio nell'ultima escursione si era fatto seguire dalle guardie della residenza estiva dell'ambasciatore americano Gable, suo parente, che non lo mollavano un secondo, e i preziosi resti di un vaso decorato erano finiti chissà in quale museo, dopo una stretta di mano e un grazie a denti stretti. Così, visto che questa volta le circostanze imponevano delle braccia forti ed una punta di cervello, avevo invitato i due odiosi fratelli Lics e Ohbé Sciretsa, proprietari di un "robivecchi di antichità", come lo chiamavo io, che di tanto in tanto apprezzavano i miei ritrovamenti per commerciarli a buon prezzo, al mercato nero. Avevo fiducia nella spedizione, non avevo dubbi sulla parte che sarebbe toccata a loro, ma non ero sicuro di trovare quello che cercavo.
C'eravamo svegliati nel cuore della notte per lavorare tranquillamente in quelle ore in cui chi fa tardi va a dormire e chi si alza presto ancora non esce di casa. Avevo dato appuntamento ai fratelli alla Villa Philippus, la residenza estiva di qualche senatore romano di cui non si conosceva il nome. I ruderi avevano per tanto acquisito il nome del loro ospite più illustre, lo scrittore latino H. Philippus L'Amorartifex. La zona degli scavi era abbandonata e sigillata per paura dei malintenzionati come noi. Il complesso archeologico faceva il suo grande effetto affacciandosi sul mare ed emergendo tra le sabbie del litorale greco di Etra, mentre la luna piena ci sorvegliava tra le nubi con il suo occhio freddo, quasi a dimostrarsi offesa per quanto stavamo per compiere. La brezza del mare mosso giungeva spinta dal vento fino a pizzicarmi il naso mentre ero concentrato sul sentiero da seguire con la vecchia bicicletta dello zio.
"Piccolo scavezzacollo, potevi dire anche a noi di venire in bicicletta?… Abbiamo lasciato il camioncino in fondo al boschetto e siamo venuti a piedi, lo sai che Lics è zoppo e gli fa male sforzarsi!". "Zitto cretino, non innervosirlo. Allora, mettiamoci al lavoro Rubinosse…". Non potei fare a meno di sorridere, "No, no. Mi chiamo Lex Rubilacse o più semplicemente Lex, ma lasciamo perdere…".
Il rumore delle nostre voci fece fuggire i gabbiani che dormivano sui resti delle mura perimetrali, nessun altro si accorse della nostra presenza tra i resti della villa. Sfilai dalla tasca una torcia elettrica ed una mappa della zona disegnata a mano e cominciai a guardarmi intorno. "Dove hai rubato quelle carte?", si lasciò sfuggire istintivamente Ohbé dalla boccaccia. "Le ho comperate al mercatino per pochi spiccioli… Erano negli appunti di un profanatore di tombe giramondo, un tale di origine inglese… Credo che si chiamasse Sir Cester C. Crowly". "Spicciamoci, guarda in cielo che nuvole minacciose, non voglio trovarmi qui quando la creta del terreno comincerà a diventare scivolosa ed il fango appiccicoso".
Raggiunsi una roccia semicoperta dalla vegetazione e la pulii dal muschio, mentre i due fratelli mi seguivano con una corda in spalla e un paio di caschetti da miniera. "Guardate…", dissi loro indicandogli delle incisioni sicuramente fatte a mano tutt'intorno al masso corroso dalla salsedine, "…questo era il piedistallo della statua del dio Kronos. Era posta nella sommità più alta della villa per protezione contro il passare inesorabile del tempo…". "Non perdiamoci in chiacchiere, piccolo professore…". Camminai in direzione del mare fino ad un recinto su cui era appeso un cartello: "PERICOLO SCAVI APERTI", lo scavalcai e mi diressi verso un grosso albero. Poi in dieci minuti cambiai almeno venti volte direzione fin quando senza capirci apparentemente nulla ci arrestammo davanti ad un cespuglio d'erba, uno dei pochi in mezzo a tante ortiche. I due fratelli mi seguivano mormorando e spingendosi l'un l'altro impazienti di entrare in azione.
"Eccoci!", riposi la mappa nella tasca e, dopo essermi seduto in terra, mi legai la corda alle caviglie, poi tolsi lo zaino dalle spalle. Guardai in cielo per farmi coraggio e m'infilai tra l'erba.
"Date corda…", sotto al manto verde vi era una fessura che portava nel tiepidarium della villa, una sala anticamente riscaldata artificialmente con acqua calda proveniente dalle sale con le caldaie. "Ancora corda…". Questo era quanto credevo, perché gli appunti dell'inglese non coincidevano con quanto pubblicato sui bollettini ufficiali degli scavi della zona. "Altre tre braccia di corda…"
Agitavo la torcia davanti agli occhi, con il braccio penzolante come la proboscide di un elefante. Mentre scendevo controllavo l'umidità delle pareti del pozzo, non ero sicuro. In questo genere di cose non si è mai sicuri. Altre volte mi ero ritrovato in pozze d'acqua ristagnanti o in tane di insetti e piccoli roditori, e stavolta poteva essere una di quelle. "Fermi!…". Finalmente il pozzo terminava in una stanza, anche se a giudicare dalla grandezza non era quello che mi aspettavo.
"Un momento vedo il pavimento muoversi…"
"Cosa dice?" "Non capisco!"
Ero sospeso a circa otto metri da terra, le pareti erano troppo distanti per poterle illuminare chiaramente, ma il pavimento non stava affatto fermo. "Calate altre tre braccia…" "Ho detto tre… Fermi… Fermi!…". Mi cadde la torcia su di un mucchio di alghe, senza spegnersi continuò ad illuminare la volta della sala. Che impressione quando distinsi attraverso un sottile strato d'acqua che gran parte del pavimento era coperto da enormi granchi rossi con delle chele talmente grosse da poterne sentire il rumore quando le chiudevano. Se fossi stato un uomo di mare, come ce n'erano tanti da queste parti, forse non mi sarei impressionato tanto, ma venivo dalla città ed insetti o altro viscidume mi agitavano senza rimedio. "Calate un'asta di legno… Una di quelle che stanno accanto al recinto… E il mio zaino… E il caschetto, accidenti!"
"Subito Rubinosse… Corri Ohbé, non hai sentito prendi anche un'altra corda…" "…Ma che diavolo fai… Gli dai retta?" "Zitto. Vai e non discutere".
Mentre aspettavo mi resi conto che anche sul soffitto non era tutto muschio quello che luccicava. Un mucchio di insetti agitati nel vedere la luce nel cuore della notte non si dava pace, senza contare i pipistrelli che mi sfioravano quasi per prendermi in giro. Non credevo ci fosse tanta vita a quell'ora in una grotta.
"Sta arrivando l'asta e lo zaino… Ehi, ci sei?"
"Presa!… Adesso calate fin quando non tocco in terra". Per fortuna, sulla perpendicolare del pozzo c'era un piccolo piedistallo da cui fu facile scansare quella dozzina di granchi che m'aspettavano. Come un bravo studioso tirai fuori dallo zaino carta e penna e cominciai a disegnare a grandi linee la stanza che a prima vista sembrava circolare. Tutto era stranamente ricoperto da mitili, padelle di mare, alghe nere e piccoli parassiti marini. Quello su cui mi ero seduto doveva essere una fontana che, con i suoi getti d'acqua, bagnava gli ospiti seduti in circolo tutt'intorno. Contavo almeno otto poltrone ricavate direttamente da un unico blocco di roccia, di cui una di dimensioni maggiori e maggiormente curata nei particolari. Le cannelle da cui una volta fuoriusciva l'acqua erano a forma di pesce dalla bocca larga e piatta. Tutto era rialzato da terra, dove scorreva un ruscello perenne d'acqua di mare come il fossato di un castello. Delle scale andavano dalle poltrone di roccia fin dentro l'acqua per poi riuscire e trasformarsi in un'unica panca sempre di roccia che ornava il perimetro basso della stanza. Questo sedile circolare era interrotto rispettivamente per ognuno degli otto sedili centrali da altrettanti posti a sedere con braccioli e poggiatesta sempre ricavati nella roccia della parete. Sui muri delle forme in rilievo rettangolari e circolari, circondate da scritte e simboli, lasciavano intendere che una volta vi fossero state raffigurate immagini di vita quotidiana. E, come scritto dal Sir inglese, proprio sotto i miei piedi vi erano le sue iniziali intarsiate nella roccia con un piccolo scalpello: C.C.C.
"Giusto", era tutto lì, sotto appena un poco di sporcizia. "Grande Zeus!", pensavo tra me e me, se tutto quello che aveva scritto tra i suoi appunti l'inglese fosse stato vero, sarei passato alla storia in men che non si dica. Ma non mi era ancora tutto chiaro, anzi forse non lo era nulla. Non capivo perché era rimasto tutto nascosto per tutti quegli anni e perché non aveva rivelato la sua scoperta al mondo intero. E quelli della spedizione di Etra erano anni che scavavano nel posto sbagliato senza trovare altro che briciole. Forse non dovevo avere troppa fretta, bastava solo sangue freddo, tenere gli occhi ben aperti e le risposte sarebbero giunte da sole. Sulla retta congiungente la poltrona regale ricavata dal muro con quelle del centro, distinguevo sulla parete opposta un varco, un portale di grandi dimensioni con la volta ad arco e diverse iscrizioni ai bordi. Sembrava l'unica via d'uscita ed il solo posto ove non vi fossero quei crostacei. Infilatomi lo zaino, appoggiai l'asta per un'estremità su una delle poltrone di roccia e per l'altra sui gradini che portavano alla porta.
Intanto i due fratelli che aspettavano in superficie iniziavano a spazientirsi. "Allora?… Trovato niente?"
Scattai una fotografia con il flash contravvenendo a tutte le raccomandazioni che si fanno in questi casi così delicati, ma pensai che, se tutto aveva resistito per secoli alla potenza del mare, una scarica intensa di luce non avrebbe fatto granché. Accesi la luce dell'elmetto e come un perfetto equilibrista poggiai il piede sull'asta larga poco meno della scarpa. Non avevo il coraggio di saltare sulle teste piatte di quelle bestiole e tantomeno la curiosità di scoprire quanto fosse profonda l'acqua. Ero molto motivato nel restare in equilibrio, soffrivo di claustrofobia e non riuscivo assolutamente ad immergermi da nessuna parte se non ne vedevo il fondo. Al terzo passo ero nel mezzo e l'asta me lo fece notare piegandosi come un elastico, ma anche se mi tremavano le gambe raggiunsi l'uscita. Pulii il gradino da qualche granchio avventuroso e diedi un'occhiata alle iscrizioni intorno alla porta. Tutto greco antico da un lato e latino dall'altro, ma a metà del muro, come pure al centro dell'arco vi era un simbolo mai visto. Non mi sembrava né di origine romana né tantomeno greca, così decisi di ricalcarlo col carboncino su di un foglio di carta velina. Sfilai dalla tasca un pezzetto di candela, l'accesi e iniziai a camminare. Man mano che trovavo delle torce incastrate nei muri tentavo di accenderle e qualcuna prendeva subito fuoco come se fosse stata appena preparata. Sono sempre stato un tipo sospettoso, la candela ed il fuoco servivano a controllare che ci fosse stato abbastanza ossigeno nel corridoio, anche se stando agli appunti dell'inglese non avrei avuto nessun problema di respirazione. Un cattivo odore mi fece tossire e il rimbombo sulle pareti lasciò cadere della polvere e qualche sassolino. Questo mi fece dedurre che dai tempi dell'inglese la struttura si era ulteriormente indebolita. A qualche metro dalla porta si diramavano due corridoi che probabilmente circondavano la sala da cui ero appena uscito, ma uno era chiuso da una frana. In terra c'erano stranamente tracce d'acqua che sinceramente non riuscivo a spiegarmi. Pochi metri più avanti c'era quello che per l'inglese era stato l'ingresso a questa parte della villa, cioè una piccola stanzetta in cui era stato allestito una specie di ascensore. Sulla sinistra vi era un masso, del peso di circa un quintale, unito ad una catena fatta con del metallo morbido come lo stagno, ma resistentissima. Secondo lo schema disegnato negli appunti dell'inglese la catena girava intorno ad una carrucola posta vicino al livello della superficie per poi riscendere fino ad una piattaforma di ferro fatta ad "L" che scorreva su di un binario. Lasciando cadere il masso in un pozzo sottostante e bilanciando bene il peso con dei contrappesi alloggiati nella saletta, la piattaforma saliva in superficie a modesta velocità. Sono queste le cose che affascinano in questo mestiere. Dunque quel vecchio filibustiere dell'inglese c'era stato per davvero e se era tutto come aveva scritto nei suoi appunti dovevo per forza andare avanti.
La luce della candela si agitava insieme ai miei brividi. Il corridoio finiva, così com'era iniziato, in una sala, ben più grande della precedente. Metà della stanza era coperta dalla volta che aveva ceduto irrimediabilmente su statue, colonne ed altari di pietra. Mentre cercavo di illuminarne il fondo mi resi conto che molto al di sopra della mia testa una spaccatura nella roccia lasciava passare l'aria e la luce dell'alba, anche se era troppo presto perché fosse utile a chiarificarmi i contorni delle antiche sculture. Mi concentrai su quello che mi era a portata di mano. Sul pavimento, anch'esso coperto da alghe e crostacei, vi era inciso un simbolo uguale a quello da me ricalcato sulla porta. Intorno alle pareti semicircolari vi erano delle gradinate talmente alte da poter essere considerati certamente degli altri posti a sedere. Al centro della sala si ergeva un piccolo tempio con otto colonne di forma umana e in mezzo vi era un sarcofago di vetro adagiato su di un altare. Colonne di diverso tipo erano scolpite nella roccia della parete di fondo, fingendo di sorreggere la volta. Più in alto, adagiata sulla roccia, una statua con fattezze femminili dominava il luogo certamente sacro. Mai vista una cosa del genere in nessun libro di storia o di archeologia, uno di quei rari casi inspiegabili di civiltà isolata nella civiltà classica che piace tanto agli scrittori. Però non c'era più nulla da portar via, a parte delle meravigliose foto, daltronde l'aveva detto l'inglese che tutto quello che poteva essere trasportato lo aveva spedito in un luogo sicuro.
Intanto dal fondo del corridoio sentivo le urla di quei due bifolchi che mi dicevano di sbrigarmi, prima che gli addetti agli scavi si fossero fatti vivi. A quel punto avevo quasi deciso di andare via. Estrassi dallo zaino una pietra su cui avevo scritto tre parole in latino, come se fossero state le prime di un lungo discorso. L'avrei portata ai fratelli, dicendo loro che non c'era altro che gli addetti allo scavo avevano lasciato in giro. La rimirai ancora una volta, era pur sempre opera mia, c'ero quasi affezionato, era una delle massime preferite dallo zio: "OMNIA TEMPVS HABENT", ogni cosa a suo tempo. A quel punto potevo anche andar via, non c'era proprio niente che potessi portarmi dietro. "Accidenti è un vero peccato!"
"…Hiiiiiiiiie Hiiiiiiiiie…" Un battito d'ali di un gabbiano accompagnò il mio sguardo fino alla statua della donna. C'era quella fessura in alto che dava all'esterno. La luce dell'alba colpiva la scultura femminile dalla vita in su, non aveva veli, solo delle scalfiture che sembravano delle scaglie. Era splendida, aveva un volto da dea, ma non me ne ricordava nessuna che conoscessi. Il braccio destro, l'unico che le era rimasto era teso al cielo, ed al collo le luccicava qualcosa, forse un gioiello o solo una pietra particolare, ma non ci pensai due volte ad andare a vedere da vicino. Tirai fuori dallo zaino la mia inseparabile corda e feci un cappio. Certo che mi dispiaceva passare la corda intorno al collo di quella splendida opera d'arte, ma al momento non c'erano alternative. Dopo un paio di tentativi accalappiai la preda e mi tirai su con fatica. Quando fu possibile mi abbracciai alla statua e dopo averla osservata attentamente le sfilai la collana, che sembrava di metallo prezioso. Era curiosa, a differenza di tutto il resto non le si erano attaccati parassiti e tantomeno alghe. Mi dispiaceva derubarla, ma in questi casi pensavo sempre che qualcun altro dopo di me lo avrebbe fatto senza esitazione e per scopi poco cavallereschi, così mi convinsi di fare la cosa giusta. Però un dubbio mi venne subito dopo averla messa al collo, e non era un problema di carattere etico, ma riguardava l'inglese che con meticolosa precisione aveva catalogato e portato via tutto tranne questo imperdibile pezzo unico. Non feci in tempo a riprendere la corda che la statua della donna si staccò dalla parete trascinata dal peso del mio corpo. Per un attimo credetti di aver osato troppo per l'ultima volta, ma la statua non si era staccata completamente dal muro, mi sembrava che avesse solamente ruotato meccanicamente azionando chissà quale marchingegno.
Non ero caduto, ma ero nei guai. Da dietro la statua usciva copiosa l'acqua, e non era il solo punto da cui sgorgasse visto che il pavimento era già allagato. Anche dalla fessura da cui entrava luce e da alcuni fori posti sotto ai sedili di pietra, iniziava a sgorgare acqua. Scesi sotto una pioggia torrenziale e mi precipitai nel corridoio correndo come un atleta. Forse era stata colpa mia, avevo provocato le ire dei guardiani oscuri che custodiscono centinaia di posti come quello, o, come spiegazione più plausibile, avevo fatto tardi e la marea me lo stava ricordando. Arrivato alla prima sala ebbi una sorpresa.
"Presto tirami lo zaino e gettati in acqua!" Lics mi attendeva con un piede legato alla corda e la mano ben salda alla salvezza.
"Non c'è tempo da perdere, sbrigati non vorrai restare qui sotto…" La stanza era completamente ricoperta d'acqua ad eccezione del punto in cui poggiava quel farabutto. L'asta galleggiava alla deriva.
"Tira lo zaino". Non vedevo altra soluzione, il livello dell'acqua saliva come il caffè sul fuoco ardente. Gli tirai lo zaino dopo averlo legato alla mia corda. Lics lo afferrò al volo e sorrise.
"Tirami su Ohbé, presto!" Tolse la corda dallo zaino e la lasciò galleggiare verso di me. "Mi raccomando non bere troppo. Addio Rubinosse…"
"Nooooo!", gridai istintivamente accecato dalla rabbia, "Maledetti vigliacchi". Presi la rincorsa per saltare nell'acqua, ma fu più forte di me e non fui capace di gettarmi. Allora tornai sui miei passi verso il corridoio e m'arrestai sulla piattaforma nella saletta dell'ascensore. L'acqua mi toccava le caviglie nonostante fossi su di un gradino. Accanto a me c'erano su di una mensola ricavata nella roccia dei massi di diverse dimensioni che dovevano servire a bilanciare il peso per non salire troppo in fretta. Presi i più leggeri e li tirai contro il contrappeso ma senza nessun risultato. Forse c'era qualche altro modo per azionarlo. Mentre guardavo l'acqua fluire dai buchi nel muro e riempire il corridoio, mi passò davanti l'asta di legno. La raccolsi, l'alzai e la spostai verso il masso che faceva da contrappeso. Spinsi con tutte le forze, poi accecato dalla disperazione lo colpii e la pietra si spostò. La piattaforma mi trascinò in alto verso una fioca luce. La macchina fotografica che tenevo al collo si frantumò contro il soffitto della saletta dell'ascensore e cadde nell'oscurità. Attraversai una dozzina di metri di terreno in pochi secondi, dato che il mio peso era molto meno di quello del contrappeso della piattaforma. Fui scagliato fuori da un cespuglio d'ortiche urlando come un matto in preda ad una crisi. Colsi di sorpresa i fratelli alle spalle, che spaventati scapparono urlando fino al loro camioncino, mentre i primi addetti agli scavi erano già sul posto. "Agenti… Correte presto!"
Rotolai per il prato e restai steso in terra a riprendere fiato. Il sole si era alzato abbastanza in cielo da illuminare tutto, ma le ombre restavano lunghe e minacciose. Come quella di uno dei custodi che mi scoprì con le mani nel sacco. "Eccone uno… Correte presto".
Le gambe si mossero da sole e mi lanciai verso la bicicletta. Qualche minuto dopo sfrecciavo come una saetta sulla strada per Etra, soddisfatto come non mai per aver trovato la collana.
 
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inserito il 5 Febbraio 1998

modificato il 22 Febbraio 1998