Scrittori italiani contemporanei
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Alessandro Parbuoni, La rosa del deserto, ed. Montedit, 1997, pp. 64, lit.12.000, ISBN 88-86957-02-5

 

Prefazione:

Chi ha detto che con le parole si può solo scrivere? Le parole servono anche per dipingere, immaginare, creare, evocare; esse hanno una forza immensa che spesso va al di là delle stesse intenzioni di chi le usa producendo effetti magici e misteriosi. Giocare con le parole, addirittura con le singole lettere, è una tra le passioni più brucianti dell'uomo, novello Prometeo alla ricerca del fuoco, che solo così recupera una primitiva potenza simile a quella degli dei. Con le parole l'uomo disegna il suo mondo, se lo cuce addosso e vi cerca un senso. La fantastica dimensione dove questo processo si realizza più compiutamente è quella della poesia. È vero che la poesia può anche essere, e del resto è stata a lungo, un gioco innocente di musicalità e chiarori, una piacevole trasposizione in versi di paesaggi o persone che, toccate dall'ala fatata del poeta, rilucevano di nuovo splendore. Ma da quando i giganti del secolo scorso hanno osato guardare nel lato oscuro dell'animo umano, trovando abissi tanto più imperscrutabili quanto più affascinanti, la poesia è cambiata. Il suo luogo di elezione si è spostato da «fuori» a «dentro», e il lavoro di scavo non è più cessato. La poesia è diventata inquieta e il suo messaggio sottile: talvolta pericoloso, talvolta incomprensibile a molti. E più la fretta e la voracità del nostro secolo vengono innalzate a dee bugiarde, più la poesia cerca faticosamente un suo spazio: lento, lontano, fiabesco.
Ed è proprio questa la dimensione in cui si muove Alessandro Parbuoni, giovane poeta umbro alla sua prima prova «pubblica» che senza esitazione sceglie l'impervia strada della ricerca di senso nell'essere scagliato in un mondo che a quanto pare ne è totalmente privo. Suoi strumenti sono le parole; ma Parbuoni non è così ingenuo da credere alla loro assoluta innocenza. Sa infatti che le parole sono tante, e possono essere anche troppe: "tante le parole - scrive - dominio d'eroismo, scuotimento di passioni, inganno di unioni". Sono quindi da usare, se non con parsimonia, almeno con cautela. E come dargli torto se pensiamo al vero diluvio di parole vuote e ingombranti da cui siamo ogni giorno inondati? Qualcuno ha scritto che il silenzio è il rumore dell'anima. Riuscire a percepirlo, sprofondati come siamo in un oceano di rumori, richiede coraggio e tenacia. Ecco allora che la poesia, "artiglio esplorativo dell'anima, crocevia di una balbettante interiorità", può offrirsi (e anzi lo deve) come necessario filtro tra i segnali lanciati dall'anima e quelli, pressanti, che provengono dal mondo. Si badi a questo proposito che la poesia di Parbuoni non è puro soliliquio, né esclusivo specchiarsi dell'anima dentro se stessa in un circolo vizioso impermeabile a ogni altra influenza. È vero semmai il contrario. Persino questa nostra ingarbugliata quotidianità post-industriale è ben presente, e non spaventa per il solo fatto di essere troppo moderna e tecnologica. Si legga ad esempio "Città", dove la consapevolezza dell'inganno che proviene dal turbinio di luci non impedisce all'autore di riconoscere alle metropoli il ruolo di metafore di libertà grazie al loro potere "di pensare, di trasmettere, di abbagliare". La scelta del silenzio sereno non è dunque dettata da un'elitaria volontà di isolamento dalla massa. È qualcosa di più maturo e consapevole; un saggio ritirarsi in luogo che si riconosce più consono a sé: "preferisco vivere in silenzio / per scrivere poesie / ornando il mio cervello / di pensieri in perenne movimento ... È così che abito in questo mondo distratto, / illumino un sogno moribondo, / attraverso paesaggi, cieli / stagioni, panorami lunari".
Così, immerso in questo intimo silenzio, il poeta osserva se stesso, gli uomini e le cose, e coglie fantastici barlumi di verità. Come in "Uomini", dove alla circolarità delle domande sulla natura dell'uomo risponde infine un grido sommesso: "Basta, / mormorate evocando / ad alta e viva voce / gli sprezzanti incubi / che turbano la ragione, / riconoscendo l'essenza / del vostro solo io: / voi microscopici frammenti di Dio". O come in "Fontemaggio, rapido susseguirsi di visioni al limite tra il reale e l'immaginario che termina con il placido e ironico ringraziamento a quell'immenso Dio che ci ha donato "questo show di seta e di lino". Tutta la raccolta, nella quale sono pur presenti momenti di grande inquietudine (segnati da un ritmo più lento e dall'uso di un'aggettivazione decisamente «noir»), e in effetti pervasa dalla percezione di una divinità assoluta, senza nome né volto né riti precisi: quella divinità che gli uomini hanno chiamato in modi diversi ma che sola ha il potere di distribuire il bene e il male, e di scuotere l'universo; quel signore infinito che ha infuso in ogni uomo una scintilla di sé. Religiosità laica, dunque, ma non per questo priva del profumo del sacro. Che si percepisce più intenso quando il poeta osa elevarsi sino a Dio risvegliando, come lui, "astri divini / occhi sognanti / angeli muti di mistici amori ..."
 
Bianca Cerulli
 
 
Per leggere alcune poesie tratte dal libro "La rosa del deserto"

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