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Alessandra Mazzocchi

Racconto sesto classificato al Concorso Città di Orzinuovi 1998

 

Acqua

Me la ricordavo diversa. Il cambiamento è appena percettibile, s'intende; per chi poi non la conosca come me, inavvertibile. Ieri sera è venuta qui: aveva i suoi occhi neri da cerbiatta, grandi e belli, le sopracciglia lievemente rialzate, ironiche. Il naso e la bocca io li ho trovati in tutte le persone del suo segno, ma l'ultima volta che li avevo visti conservavano un'impronta particolare, non erano come ieri, non così belli e anonimi. Il tempo passa per tutti, stella. Gli spazi sono più deformabili dell'argilla. Ma torniamo a lei.

Ero in un fienile, appena sveglia. Mi dava le spalle, coperte fino alla vita da dei capelli lunghissimi e neri, che si stava spulciando, o forse toglieva aghi di paglia dal vestito. Comunque non poteva vedermi. Si girò di scatto, quando feci per rialzarmi. L'intuito di Amelia era molto fine. Da allora cominciammo a parlare. Lei andava al villaggio di F., ma non aveva fretta. Io le mostrai le mie carabattole, spiegandole che dovevano servire per una cerimonia, e in fondo al cuore ero felice, al pensiero del primo matrimonio a cui partecipavo. Del vestito buono, piegato nella sacca, non le dissi di più. Allora credevo per rispetto verso i suoi stracci, adesso capisco che fu per vergogna, e forse arrossii sotto il suo sguardo tranquillo.

Ci incamminammo sotto il sole. La via dei campi attraversa l'erba come un fiumiciattolo, passando tra distese di papaveri, canne di bambù, fasci di grano, ortiche. La natura è ordinata, sembra che qualcuno ci abbia passato il pettine per regolarne il respiro. Dove sono adesso sento treni sferraglianti: ho l'impressione che parlino come le api della campagna pettinata, il loro canto mi pare lo stesso. Vedi come sono cambiata, stella: riesco anche a fare considerazioni su ciò che mi sta intorno, non sono più appiccicosa, piagnucolosa, egoista.

Camminavamo, ti dico, al bivio, dove ci saremmo separate, mancava una giornata. Lei parlava poco, ma quello che diceva era pronunciato con una sicurezza che non ho mai conosciuto, e che proveniva da una serenità e un'assenza di pensieri pressoché perenni. Mi faceva anche ridere. Era veramente simpatica e forte: per questo la ammiravo, e presto mi scoprii a seguire ogni suo gesto, e a odiarla a volte, anche se non lo ammettevo. Di sé raccontò che non aveva famiglia, dopo aver abbandonato il vecchio che si era preso cura di lei, e le aveva insegnato molte cose. Sapeva ogni volta con precisione il tempo meteorologico del giorno dopo e rivelò a me stessa dei segreti sulle cose che mi avrebbero consolato più tardi, con la loro primitiva semplicità.

In quel primo giorno d'estate, il primo della nostra conoscenza, accaddero cose strane, stella, ma se riesci a seguirmi con l'intuito, ciò che anch'io ho da poco imparato a usare, ci capiremo perfettamente.

In primo luogo l'uomo. Veniva dalla strada sterrata, una massa informe di lontano, più da vicino un corpo ciondolante con la testa china e pesante, la nuca rada di capelli e unti e prima ancora una puzza di birra e alcool, di sudore e vomito. Le gambe erano gonfie e storte, pareva che non avrebbero retto oltre il peso, che resistessero solo per complicità con quella miseria. Procedeva nella nostra direzione in modo uniformemente claudicante, in cui anche gli intoppi che lo facevano barcollare si susseguivano con regolarità.

Amelia era rimasta ferma e io non sapevo che fare. Più logico sarebbe stato scappare e più facile, considerando il notevole vantaggio che su di lui ci concedeva la nostra agilità. Già subivo l'influenza della mia compagna. Si era fermato a pochi passi da noi, stava come accasciato in piedi. Le spalle curve in avanti, i piedi ostinatamente fissi al suolo, la giacca lunghissima e lacera con il color corda della sua faccia. A un certo punto tirò su la testa e aprì le palpebre con sforzo su uno sguardo liquido e perso in chissà quali regioni. Accadde in un momento, il suo braccio era già dietro le spalle della mia amica e sprigionava un forza sovrumana, malvagia. Non capii perché lei lo abbracciò, passandogli una mano dietro al collo, e perché in quel momento lui affondò tra i papaveri, senza una goccia di sangue.

In seguito mi mostrò un ago, attaccato in qualche modo a un punto della sua manica e che le permetteva di uccidere senza fallo, colpendo in un punto particolare che non mi volle mostrare. Rimanemmo per qualche minuto, lei sembrava presa da un senso di pena e disgusto, io ero spaventata da entrambi, il morto non mi inteneriva più che da vivo, e la forza di Amelia mi aveva reso talmente inquieta da farmi mettere in dubbio le poche, umili cose della mia persona. Soprattutto mentre la guardavo, accovacciata con la sua veste lunga, rossa, il viso tranquillo e pensieroso, mi pareva di subire una scissione, o addirittura più frazionamenti, mi chiedevo di me stessa cose che se ascoltassero al mio paese riterrebbero dette da un pazzo. Non c'entra niente adesso, ma questa notte l'ho sognata così. Io le esprimevo il desiderio di andarmene, di vagare alla ventura da sola, e lei mi rivolgeva il suo sguardo buono e ironico, con le sopracciglia rialzate e le labbra rilassate, che quando rivedo con gli occhi della mente, stella, non so perché mi viene da piangere, e mi chiedeva dove volevo andare...

Tornando ad allora, Amelia gli diede un calcio, e tutto parve tornare come prima. La campagna non era più la stessa, ma i nostri gesti sì, e quell'avvenimento aveva prodotto un cambiamento rapido sui miei, tanto da sintonizzarli maggiormente sui suoi, e sulle sue parole e i suoi silenzi.

Su un sasso, in mezzo all'erba, mangiammo quello che la mamma mi aveva dato. Da quel momento cominciò a studiarmi veramente. Mi guardava fisso, come attendendo qualcosa dopo ogni sua parola, pronunciata lentamente e naturalmente fluente con le altre, quasi facesse parte di un discorso sempre uguale a se stesso, che non aveva nessuna fretta di sciogliersi. Ciò non ha nessuna attinenza con qualsiasi tipo di sacra scrittura, né lei allora assomigliò a una guida spirituale. Esprimeva se stessa e basta; il suo discorso non rivelava niente, sarebbe stato impossibile staccarlo da quello che avevamo intorno, le canne di bambù, l'erba secca e alta con il suo microcosmo di insetti, l'aria pregna si sole e di una calma al confine col turbamento che non so definire. Era parte di lei stessa, e difficile sarebbe stato, più tardi, scinderlo anche da me. Ma quel pomeriggio le sue parole erano semplicemente lì davanti a me, e io cercavo di afferrarle, di nascosto, di metterle in ordine nella mia testa.

Era il racconto dei suoi uomini. Coetanei, più maturi o meno, tutti avevano in comune una caratteristica, una condizione spirituale che si trova ai livelli più alti o agli infimi. Il borghese e lo studente non possiedono quella particolare luce degli occhi, essa li spaventa, al punto che finiscono per non vederla e, senza conoscerla, la condannano. Le mani di un vagabondo, così mi parve di capire, sono simili a quelle di un principe, cercano nella pattumiera o assaggiano raffinatezze, ma attingono entrambe alla stessa forza, e allo stesso modo sono uguali le piccole rughe che hanno intorno agli occhi, e altri segni fisici. il maestro di alchimia della mia amica, il mago e il medico della sua piccola isola, aveva una raccolta di misture e alambicchi e le formule proibite, ma la sua energia era quella dell'operaio che era stato un tempo, e che, avendo perso ogni individualismo, e dopo aver sentito su di sé la forza inumana della moltitudine, è venuto a contatto con le radici stesse di ogni elevazione.

Ho idea che Amelia abbia vissuto ogni tipo di esperienza, nelle costruzioni di fortuna verso la spiaggia, ciò affiora qua e là dal suo discorso. Passava come niente dal linguaggio normale a uno strano gergo, e tra la gente delle baracche compariva senza preavviso la parte bella dell'isola, le signore ben vestite apparivano senza nesso alcuno accanto ai cani rognosi, il fuoco all'aperto mandava riflessi di rame sull'odore delle case pulite, tutto senza un fine apparente. Credo che là abbia conosciuto la sofferenza e appreso la purificazione, e che abbia visto da sopra una torre la piazza di una chiesa, e un corteo di persone di un certo tipo, vestite così e pettinate in un certo modo, che dicevano delle cose, per lo più le stesse...

Ma io non capisco sempre bene, non so dare un significato alle visioni che mi si presentano, che lei mi presenta, posso solo fidarmi un poco del mio intuito, come anch'io ti consiglio di fare. Così credo alla purificazione, che deve averla spinta verso i rifugi dello zingaro, lentamente o con lo slancio che ha già bruciato il resto, che l'ha fatta salire sulla torre, e ha permesso di arrivare al confine dell'obiettività, ai margini della lucidità tanto preziosa, di lassù.

Anche a me sarebbe piaciuto vedere, che ne dici stella? Avremmo visto insieme. La mente è confusa, non comprendo tutto, ma certo dall'alto si ha una visione migliore, certo che si sta meglio. Al nostro villaggio non avevamo torri, e neanche cortei di questo tipo, però... Parlando con lei ritrovo le formule che muovono le cose, i segreti indicibili dell'amore, l'oscurità della notte, il volo e i riflessi di rame, ogni cosa ha un posto nel suo sorriso accennato, un sorriso sensuale, lontano dalla volgarità. Provavo una specie di sofferenza se avvertivo che parlava per lei sola, e io ero in fondo la sua unica interlocutrice.

Volevamo raggiungere il più vicino villaggio per la sera, e così riprendemmo il cammino. Cantavamo delle canzoni, come ben ricordo, quelle che si conoscono in tutti i paesi, le nostre voci si perdevano nell'aria azzurra, graffiante, che ci viene incontro quando il sole se n'è andato. Dopo poco ci si presentarono luci rossastre; illuminavano delle case tonde, bianche. Per strada c'era solo qualche randagio, o ritardatari.

Amelia si cacciò in uno stretto vicolo, si fermò davanti a una porta e aspettò. Penso che ascoltasse, che cercasse di captare la presenza di qualche rumore. Tirò fuori qualcosa dalla tasca, sciolse quella serratura con la massima delicatezza. La seguii all'interno, dentro la stanza illuminata solo dalla luna. C'erano un tavolo e delle sedie, lungo la parete un'ampia scaffalatura con dei libri. Parevano antichi. Le stanze erano due, deserte; accendemmo un lume. Mangiammo, per prima cosa, quello che trovammo. Non volevo, ma lei mi disse che rubare non era peccato. Aveva ragione. Noi sappiamo che la collera di Dio si manifesta con un fulmine, un malattia o una deformazione. Nulla di tutto questo le era mai successo, e in più era straordinariamente bella. Mi piaceva quella stanza, era piccola e aveva il pavimento di legno. Tirammo anche le tende, di stoffa pesante rosso cupo. Ti descrivo il suo sguardo, se non l'ho già fatto. Sembrava provenire da profondità lontane, talmente scuro e assorto da assorbire tutta la luce.

L'immagine sorse dal fondo, piano piano, e si frappose tra me e lei.

Era una distesa d'acqua &endash; all'inizio &endash; e sotto alla superficie, di un colore blu acciaio, non si vedeva nulla, perché le onde erano blu, e ancora blu. Di ciò che si trova dentro agli oceani neanche c'era nulla, lo so anche se non potevo vederlo. C'erano solo tre punte di ferro, tre punti luminosi che presto divennero aste, aste d'acciaio che non vidi, ma sapevo che erano lì, consistenti e dure, e rette da un braccio nerboruto su cui cadevano dei capelli ricci e azzurri, e che a solo un dio potevano appartenere, quello che senza sforzo fa apparire e sparire le figure e i colori, e mette nella realtà l'ordine dei sogni. Io l'avevo letto da qualche parte. Oh, non è semplice oniromania.

Le acque si chiarirono. Un giovane sedeva sulla vasca di pietra di una fontana. Di tutte le sensazioni che lo tenevano in loro possesso in quel momento, una sola lo colpiva con una frequenza più alta dell'udibile, e pareva proprio qualcosa tipo un rumore di silenzio. Lo prese un rimescolio strano, tipico di chi astrae, e fa astrazioni di astrazioni, e tra esse crea piccoli ponti, connette, in modo sincero, ma a volte in modo falso, peccando di compiacimento, di chissà che cosa. Fatto è che gli tremavano le ginocchia, anzi le sentiva più che molli, le vedeva cadere, e fu salvato solo dal fatto che alzandosi e andando verso quel rumore, egli si comportava sì come chi sta girando intorno a ciò che non riesca a capire, in modo rapido e dolce ma pur sempre folle, ma la terra sotto i suoi piedi era solida e forte. Camminò in direzione del rumore, e si rese lentamente conto che era una sinfonia, un lieve svolgersi armonico di successioni indefinibili, sapeva solo che ne era imprigionato.

La strada era larga e rossa, l'avrebbe condotto a un castello, che vedeva di lontano. Un castello alto e imponente, che faceva venire in mente mille cose, e a metterlo in subbuglio le finestrelle accese erano davvero superflue. Camminava più in fretta, via via che veniva a inserirsi in quella che cominciava a essere una ragnatela dorata, perché sicuro di un colore più splendente non ne aveva mai trovata una, e tuttavia non l'aveva lui intessuta, ed era ansioso di arrivare al centro, così non sapeva che gli tremavano le mani e stava piangendo, quando arrivò al portale del castello. Percorse correndo le larghe scale a chiocciola, conscio che, per quanto intrappolato, quel suo corrergli incontro non poteva essere, anche quando sembrava sul punto di cadere, per poi riprendersi più forte, che una goffa trasposizione di quella cosa superiore, e le sue lacrime una ricopiatura. In questo modo arrivò ad aprire la porta della sala, e così lo trovò la signora anziana che suonava il piano da tempi immemorabili. Ebbi appena il tempo di seguire il gesto di lei, e di udire alcune parole, prima che le acque si richiudessero per sempre. Le loro mani si congiunsero, e per la donna era il coronamento di un'antica storia di sofferenze, ed erano parole d'amore a riportarla bella dal freddo che gli spiriti le soffiavano intorno, mentre le stesse parole erano per lui il riscatto da una lunga serie di malefici accordi.

Ma lasciatevi incantare per un po' dalle parole dei folli. Esse sono le storie autonome e frammentarie, degenerate dai pensieri ordinati e normali. Sono suggestive.

Il giorno era morto, e noi salutammo il seguente. Un giorno diverso, ancora diverso, ahimè, dal precedente. Si vedeva già dalla nebbia sottile, dalla tonalità che avevano assunto le pareti delle case. Può sembrarti strano, stella, ma è proprio così. A volte non si riconoscono neanche i pensieri o i volti, ed è passata appena un'ora. Comunque era una nebbiolina fatta di strisce rosa perla. Uscimmo dal villaggio e dopo poco imboccammo la strada che porta al bivio.

Sai già che non ti raggiunsi mai al matrimonio. Ti racconto invece l'ultima parte, che ancora non conosci. Tu leggi attenta e conserva la lettera. Sei l'unica che può capirmi, nomade a mezza giornata, riformista della domenica, però la lacrima te la lasci sfuggire, o il sorriso. Il gendarme venuto a catturarla avanzava lento per la via dei campi. Il suo avanzare, mosso da certi scatti, dava l'idea delle regole che non ammettono deviazioni o singolarità, e si affrettano a coprirle con ansia quando le vedono. Era lì a pochi passi, e lei ancora non si era mossa. Ma neanche me lo aspettavo. Ero certa di ciò che nel suo essere ferma era davvero immobile, come pure del fatto che non avrebbe alzato per lui una delle sue braccia da profeta.

Fui io a colpirlo. Non so come. Quello che muove le azioni, nei recessi più profondi dell'anima, nessuno può dirlo. Tutto questo perché la mia evoluzione non si sarebbe verificata altrimenti, e io in qualche modo dovevo rendere partecipe la vita della mia presenza, dare il mio assenso. La mia scelta doveva compiersi, e si verificò in questo modo. Forse è stato sbagliato. Adesso me ne rendo conto. Ma ho anche trovato quella meravigliosa energia che le permetteva di ricollocare il bianco accanto al nero, e di rivoltarli abilmente solo per giocarci. Può darsi che sia come un disco che stona. Il contenuto è quello, ma terribilmente distorto. Oppure è giusto così, e le mie orecchie non si sono ancora affinate.

I treni passano a un ritmo allucinante, la mia lucidità è al limite della sopportazione. Il suo volto non è più come prima, ti dicevo, se n'è accorta anche lei.

È privo di ciò che ora mi appartiene. Se guardo bene oltre le sbarre vedo gli alberi più grandi, e il campo di spighe bionde che ondeggiano al vento, il cielo più azzurro.

Tutta quell'energia, la sento dentro di me in questo pomeriggio d'estate. Domani mi giustizieranno. Ma gli occhi del carceriere sono grandi, i capelli e la barba incolti, e per oggi non ci voglio pensare.

Classifica Concorso Città Orzinuovi 1998 sezione Narrativa

Prima Classificata al concorso Club dei poeti 1997 sezione narrativa

 

 


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